Dopo quei due spari, che
annunciavano qualche cosa di grave, essendosi uditi verso la sinistra, ossia
nella direzione in cui si trovava la pagoda sotterranea, era tenuto dietro un
lungo silenzio.
Quei due colpi dovevano essere
stati sparati dalle sentinelle, che vegliavano fra le macchie che circondavano
l'immensa roccia. Sandokan conosceva troppo bene le carabine dei suoi uomini
per non ingannarsi.
- Che abbiano fatto fuoco contro
qualche spia? - chiese Tremal-Naik a Sandokan, il quale,
curvo sulla prora della bangle, ascoltava attentamente.
- Non lo so - rispose il pirata.
- Tuttavia le mie inquietudini sono cresciute. Si direbbe che io prevedo
qualche tradimento.
- Può essere anche un falso
allarme, amico, - disse Tremal-Naik.
- Taci! -
Altri due spari rintronarono in
quell'istante, seguìti quasi subito da una scarica nutrita.
- Queste non sono le carabine dei
miei uomini! - esclamò Sandokan. - Si attacca il nostro rifugio! Presto amici,
date dentro ai remi! I minuti sono preziosi! -
I malesi non avevano certo
bisogno di essere incoraggiati. Arrancavano furiosamente facendo fare alla
pesante barcaccia dei veri salti.
Ormai nessuno più dubitava che la
pagoda sotterranea fosse stata assalita. Le scariche si succedevano alle
scariche ed echeggiavano dietro la roccia.
Sandokan si era messo a
passeggiare pel ponte come una tigre in gabbia. Di quando in quando si fermava
per tendere gli orecchi, poi gridava:
- Presto! Presto, amici!
Assalgono i nostri compagni. -
Anche Tremal-Naik
era diventato nervosissimo e tormentava il grilletto della sua carabina,
ripetendo a sua volta:
- Sì presto, presto! -
Un combattimento furioso doveva
essere stato impegnato dinanzi l'entrata della pagoda.
Sandokan distingueva nettamente
gli spari delle carabine malesi, le quali avevano un suono più forte di quelle
indiane.
La bangle finalmente, sotto un
ultimo e più poderoso sforzo dei rematori, toccò la riva quasi di fronte alla
roccia.
- Gettate l'ancora e seguitemi! -
gridò Sandokan:'
- Ed il fakiro? - chiese
Tremal-Naik.
- Che un uomo, ma uno solo,
rimanga a guardia di lui, - rispose Sandokan. - Già non potrà scappare.
Su, lesti e non fate rumore.
Prenderemo gli indiani alle spalle! -
Balzarono a terra e si cacciarono
fra le macchie, mentre la fucileria continuava a rumoreggiare con crescente
intensità ripercuotendosi sotto le immense volte di verzura dei tara e dei
fichi baniani.
I pirati correvano veloci senza
però far troppo rumore, quantunque le detonazioni delle carabine coprissero il
rompersi dei rami.
Giunti a trecento passi
dall'entrata della pagoda, Sandokan arrestò il drappello dicendo:
- Fermatevi qui, e che nessun si
muova finché non sarò ritornato. Vieni Tremal-Naik: prima
d'impegnarci a fondo andiamo a contare i nostri avversari.
- Approvo pienamente la tua
prudenza - rispose il bengalese. - Se noi venissimo distrutti, Yanez e Surama
sarebbero perduti.
Non precipitiamo quindi le cose.
-
Si gettarono a terra e si
allontanarono, strisciando attraverso ad una folta macchia di banani selvatici.
Raggiunto il margine di essa si
fermarono.
- Eccoli, - aveva sussurrato
Sandokan. - Sono i seikki! Me l'ero immaginato.
- Molti?
- Una quarantina per lo meno. -
Tremal-Naik
si spinse un po' più innanzi, sporgendo il capo attraverso le immense foglie
d'un banano.
Una quarantina d'uomini sparava
senza interruzione verso l'entrata della pagoda sotterranea.
Erano tutti seikki e li comandava
un capitano che portava sull'elmetto un grosso ciuffo di penne rosse.
Per offrire meno bersaglio, erano
tutti stesi bocconi, tuttavia sette od otto soldati giacevano senza vita
dinanzi alla pagoda.
Probabilmente quei valorosi
guerrieri avevano cercato di prendere d'assalto il rifugio ed erano stati
respinti.
- Che cosa dici di fare,
Sandokan? - chiese Tremal-Naik.
- Di assalirli alle spalle, senza
ritardo, - rispose il pirata; - affido però a te un pericoloso incarico.
- Quale?
- Quello d'impadronirti del
capitano dei seikki. Quell'uomo mi è assolutamente necessario.
- Vivo o morto te lo porterò.
- È vivo che mi occorre. Andiamo
a chiamare i nostri uomini. -
Riattraversarono la macchia e
raggiunsero i malesi che parevano frementi di menare le mani, incominciando ad ubriacarsi
coll'odore della polvere.
- Siete pronti? - chiese
Sandokan.
- Tutti, Tigre della Malesia, -
risposero ad una voce.
- Tu Kammamuri seguirai il tuo
padrone e non lo lascerai un istante. -
Poi volgendosi verso i malesi
aggiunse:
- Vi avverto di fare una scarica;
una sola, mandando nel medesimo tempo il vostro grido di guerra onde avvertire
i compagni che si trovano nella pagoda, poi caricate colle scimitarre. Mi avete
bene compreso?
- Sì, Tigre della Malesia.
- Avanti allora, e non
dimenticate che le vecchie tigri di Mompracem hanno sempre vinto. -
Partirono quasi a passo di corsa,
tanto erano impazienti di prendere parte al combattimento, tenendo il dito sul
grilletto delle carabine.
Sandokan li precedeva con
Tremal-Naik e Kammamuri.
Quando giunsero sull'orlo della
macchia, i seikki erano a soli venti passi dall'entrata del rifugio ed il fuoco
degli assediati cominciava a rallentare.
- Giungiamo in buon punto, -
disse Sandokan.
Snudò la scimitarra, impugnò una
delle due pistole che portava alla cintura, due splendide armi a doppio colpo,
e si slanciò gridando con voce tuonante:
- Su, tigri di Mompracem! -
Un urlo selvaggio, acutissimo, il
grido di guerra di quei formidabili scorridori dei mari della Sonda, echeggiò
coprendo il fragore della fucileria, seguito subito da una scarica.
I seikki che non s'aspettavano
certo quell'attacco, balzarono prontamente in piedi, mentre dall'interno della
pagoda gli assediati rispondevano al grido di guerra dei loro compagni.
Sandokan ed i suoi valorosi si
erano slanciati furiosamente all'attacco, caricando colle scimitarre e urlando
come ossessi onde farsi credere in maggior numero.
Sette od otto indiani erano
caduti sotto la scarica, quindi il loro numero erasi considerevolmente
diminuito; tuttavia quantunque fossero presi fra due fuochi, poiché gli
assediati si erano pure slanciati all'assalto, non smentirono nemmeno in quel
momento la fama di essere i più valorosi guerrieri della grande penisola
indostana.
Colla rapidità del lampo si
disposero su due fronti, mettendo anche loro mano alle scimitarre e per qualche
istante sostennero il doppio urto dei selvaggi figli della Malesia,
difendendosi disperatamente.
Disgraziatamente avevano dinanzi
a loro il più famoso guerriero della Malesia. Con un impeto irresistibile
Sandokan s'era gettato in mezzo alle file sciabolandole terribilmente e
scompaginandole.
Nessuno poteva resistere a
quell'uomo, che atterrava un nemico ogni volta che la sua scimitarra calava.
Le linee sfondate da quel
fulmineo attacco, si ruppero nonostante gli sforzi che faceva il capitano per
tenerle salde, poi si sbandarono.
Nel momento però in cui
scappavano da tutte le parti inseguiti vigorosamente da una dozzina e mezzo di
malesi, che facevano fuoco onde impedire loro di riordinarsi,
Tremal-Naik e Kammamuri si erano gettati addosso al
capitano, atterrandolo di colpo e legandolo solidamente.
Sandokan frattanto si era
avvicinato al vecchio Sambigliong che teneva ben stretto il ministro Kaksa
Pharaum che pareva più morto che vivo.
- Quanti uomini hai perduto? -
gli chiese con una certa ansietà il pirata.
- Due soli, Tigre della Malesia,
- rispose il vecchio tigrotto. - Ci eravamo subito trincerati dietro le rocce,
dove le palle dei seikki non potevano raggiungerci.
- Prepariamoci a sgombrare
subito.
- Lasceremo questo comodo
rifugio?
- È necessario: domani i seikki
torneranno in maggior numero ed io non ho alcun desiderio di farmi chiudere in
una trappola senza uscite.
- Dove andremo dunque?
- A questo penserà Bindar. -
I malesi in quel momento
ritornavano. Avevano inseguite le guardie del rajah per cinque o seicento
metri, sbandandole completamente, poi temendo di cadere in qualche agguato, si
erano ripiegati in buon ordine verso la pagoda sparando qualche colpo di fucile
per far meglio comprendere ai fuggiaschi che si trovavano sempre nei dintorni.
- Preparatevi alla partenza, -
disse loro Sandokan. - Prendete tutto ciò che ci può essere necessario per
accamparci in mezzo alle foreste e raggiungeteci alla bangle. Vi raccomando il
ministro ed il comandante dei seikki.
A me Bindar! E anche tu
Tremal-Naik, con quattro uomini di scorta. -
Sicuro ormai di non essere più
molestato dalle guardie del rajah si diresse verso il fiume accompagnato dai
due indiani e dai quattro malesi.
- Ora a noi, Bindar, - disse
Sandokan all'indiano. - Tu conosci i dintorni?
- Sì, sahib.
- Dove potremo trovare un nuovo
rifugio sicuro? -
L'assamese pensò un momento, poi
disse:
- Non potresti essere sicuro che
nella jungla di Benar.
- Dove si trova?
- Sull'opposta riva del fiume, a
quattro o cinque miglia di distanza, però...
- Continua.
- È evitata perché le tigri la
frequentano.
- Non preoccuparti di ciò, -
rispose Sandokan alzando le spalle. - Siamo tigri noi, quindi ben poco avremo
da temere di quelle a quattro zampe. Nessuno la percorre?
- Oh no! Hanno troppa paura.
- È folta?
- Foltissima.
- Non vi è alcun rifugio?
- Sì, un'antica pagoda
semi-diroccata.
- Non domando di più.
- Si crede però, sahib, che serva
di ricovero a delle bâgh.
- Ah! Benissimo, le manderemo a
passeggiare altrove se non vorranno regalarci la loro pelle. Con un po' di
piombo pagheremo loro l'affitto, è vero Tremal-Naik?
- Il nostro è di buona qualità, -
rispose il bengalese. - Vale più dell'oro, quando esce dalle nostre carabine.
- Raggiungiamo il fiume ed
imbarchiamoci, - concluse Sandokan. - Quando saremo al sicuro faremo parlare
Tantia e poi vedremo d'intenderci col comandante dei seikki.
- Io non comprendo perché tu
l'abbia sempre con quei guerrieri.
- Seguo un'idea, - rispose
Sandokan. - Se vi riesco, la corona sarà assicurata a Surama. Ecco il fiume:
appena giungeranno i malesi ed i dayachi partiremo. -
Salirono a bordo della bangle che
si trovava sempre ancorata presso la riva. I due malesi di guardia
chiacchieravano tranquillamente col fakiro, che avevano però strettamente
legato, quantunque quel disgraziato, col suo braccio anchilosato, si trovasse
nell'assoluta impossibilità di tentare la fuga.
- Nessuna barca sul fiume? -
rispose Sandokan.
- No, Tigre della Malesia, -
rispose il malese. - Tutto è tranquillo.
- Salpate l'ancora per ora e
aspettiamo gli altri.
- Credevo che ti avessero ucciso
- disse il gussain dardeggiando sul pirata uno sguardo feroce. - Se speri di
sfuggire alla vendetta del rajah t'inganni e di molto, ladro! Non ti do una
settimana di vita.
- Ed a te nemmeno due giorni se
non confesserai, amico - disse Tremal-Naik. - Sono indiano
come te e so quali mezzi adoperano i nostri compatriotti per sciogliere le
lingue.
- Tantia non ha nulla da dire: è
sempre stato un povero gussain.
- Vedremo quale parte tu hai
avuta nel rapimento di quella giovane indiana, canaglia - disse Sandokan.
Il fakiro ebbe un brivido, però
rispose subito, affettando un grande stupore:
- Di quale indiana intendi
parlare?
- Di quella alla quale tu hai
levata l'occhiata.
- Sii maledetto da Brahma, da
Siva e da Visnù e che la dea Kalì ti divori il cuore! - urlò il gussain.
- Non sono un indiano io, quindi
me ne rido delle tue maledizioni, birbante - rispose Sandokan.
- Brahma è il dio più possente
dell'universo.
- Io non credo che in Maometto, e
anche quando mi pare e piace.
- Ma il tuo compagno è indù!
- E se ne ride anche lui delle tue
divinità. Chiudi la bocca e non seccarmi per ora; avrai più tardi tempo di
sfogarti.
- Ecco i tuoi uomini, - disse in
quell'istante Tremal-Naik.
I malesi ed i dayachi, ventisei
in tutto, giungevano correndo, carichi di pacchi, di coperte e di grosse borse
di pelle contenenti viveri e munizioni. In mezzo a loro si trovava il demjadar,
ossia il comandante dei seikki.
- V'inseguono? - chiese la Tigre
accostandosi alla murata.
- Ci danno la caccia, - rispose
Kammamuri.
- A bordo! -
Malesi e dayachi salirono
lestamente sulla bangle, si sbarazzarono dei loro carichi e delle armi e si
precipitarono ai remi.
- Otto uomini si tengano pronti a
far fuoco, - disse Sandokan. - Ed ora lavorate di muscoli! -
La pesante barca si staccò dalla
riva e filò rapidamente verso l'opposta onde non rimanere esposta al tiro delle
carabine dei seikki, nel caso che fossero riusciti a scoprirli.
La traversata si compì
felicemente, e prima che il nemico fosse giunto sulla riva, la bangle navigava
sotto le immense arcate delle piante curvantisi sul fiume.
Essendo colà l'ombra assai fitta,
in causa delle immense fronde dei tamarindi che crescevano in gran numero,
bagnando le loro colossali radici nell'acqua, era ormai quasi impossibile che i
seikki potessero scorgere i fuggiaschi.
D'altronde la larghezza del
Brahmaputra era tale in quel punto, da non permettere che una palla di carabina
lo attraversasse.
Sandokan, dopo essersi ben
assicurato che nessun pericolo lo minacciava, almeno pel momento, potendo
avvenire che più tardi le guardie del rajah lo inseguissero con delle pinasse,
od altro genere di barche, s'avvicinò a Bindar che stava osservando
attentamente la riva insieme a Tremal-Naik.
- Vi sono dei villaggi da queste
parti?
- No, sahib - rispose l'indiano.
- Qui comincia la jungla selvaggia e nessuno oserebbe abitarla per paura delle
bestie feroci; solo al di là delle paludi, dove il terreno comincia a salire,
si trovano dei bramini drauers.
- Chi sono?
- La risposta te la darò io, -
disse Tremal-Naik. - Sono sacerdoti di Brahma che hanno
conservata tutta la purezza della loro antica religione, che parlano una lingua
affatto sconosciuta agli altri, che si dipingono la fronte ed il corpo come
tutti i bramini, aggiungendo solo alla toeletta alcuni grani di riso, che
portano incollati sopra le sopracciglia.
Sono d'altronde persone
tranquille che si occupano di pratiche religiose e che quindi non ci daranno
alcun fastidio.
- E vasta la jungla di Benar?
- Immensa, sahib, - rispose Bindar.
- Faremo di quella il nostro
quartiere generale, - disse Sandokan. - Se è lontana solo quindici o venti
chilometri, in tre o quattro ore potremo trovarci nella capitale dell'Assam.
- M'inquieta però la sorte di
Surama, - disse Tremal-Naik. - Per Yanez non sono
preoccupato; quel diavolo d'uomo saprà sempre cavarsela bene e sfuggire a tutte
le insidie.
E poi ha sei malesi, i migliori
della banda.
- Che cosa temi per Surama?
- Che il rajah la faccia
uccidere. Non ha distrutto forse tutti i suoi parenti?
- Non l'oserà, - rispose
Sandokan. - Egli crede che Yanez sia veramente un inglese e ci penserà cento
volte prima di commettere un delitto, sapendo che Surama è sotto la sua
protezione.
Questi principotti hanno troppa
paura del viceré del Bengala.
- Questo è vero, tuttavia questo
tempo perduto in questi momenti mi dispiace. Se perdessimo le tracce dei
rapitori?
- Il gussain ci metterà sulla
buona via.
- E se si ostinasse a non
parlare?
- Lo costringeremo, non temere
amico, - rispose Sandokan freddamente.
Levò dalla larga fascia il suo
cibuc, lo caricò di tabacco e accesolo, si sedette sulla prora della bangle,
tenendo una carabina fra le ginocchia.
Intanto i malesi ed i dayachi
arrancavano con gran lena, mentre Bindar teneva il timone.
Essendo la corrente debolissima,
non avendo i grandi fiumi dell'India molta pendenza, l'imbarcazione, quantunque
fosse pesante e avesse la prora assai rotonda procedeva abbastanza rapidamente,
filando sempre sotto le arcate degli alberi che si succedevano continuamente,
senza la minima interruzione.
Ora erano colossali tamarindi,
ora mirti, o sangore drago o nargassa, meglio conosciuti sotto il nome di
alberi del ferro, perché differiscono ben poco da quelli brasiliani, che sono
così resistenti da rompere il filo delle scuri meglio temprate.
Di quando in quando comparivano
sulla riva delle bande di sciacalli e di lupi indiani; ma dopo aver ululato o
latrato su vari toni contro i remiganti, s'affrettavano a rinselvarsi onde
cercare delle prede più facili.
Alle quattro del mattino, nel
momento in cui i pappagalli cominciavano a strillare in mezzo ai rami dei
tamarindi, e le anitre e le oche ad alzarsi al disopra dei canneti, Bindar, che
da parecchi minuti osservava attentamente la riva, con un poderoso colpo di timone
fece deviare la bangle.
- Che cosa fai? - chiese Sandokan
balzando in piedi.
- Vi è una laguna, sahib, dinanzi
a noi, - rispose l'indiano. - Entro nella jungla di Benar e là saremo
perfettamente sicuri.
- Vira allora. -
La bangle si trovava dinanzi ad
una vasta apertura. La riva era tagliata da un canale ingombro di piante
acquatiche, le quali però non impedivano il passaggio, essendo radunate in
gruppi piuttosto lontani gli uni dagli altri.
Un numero straordinario di uccelli
volteggiava gridando, al disopra di quella laguna.
Cicogne di dimensioni
straordinarie, grossi avvoltoi che avevano le penne bianche ed il petto quasi
nudo; miopi, volatili meno forti delle prime e dei secondi, ma che per
destrezza li vincono entrambi; piccoli uccelli del paradiso e moltissime anitre
scappavano in tutte le direzioni descrivendo dei giri immensi, per tornare poco
dopo a calarsi intorno alla grossa barca, senza dimostrare soverchia paura.
Se in quel luogo si trovavano
tanti volatili, era segno che gli abitanti mancavano assolutamente.
Oltrepassato il canale, dinanzi
agli sguardi di Sandokan e di Tremal-Naik apparve un bacino
immenso, che rassomigliava ad un lago e le cui rive erano coperte da alberi
altissimi, per lo più manghieri, già carichi di quelle grosse e belle frutta
che si fendono come le nostre pesche, delle quali se ne servono gli indù per
metterle nel carri, onde dare a quell'intruglio un gusto di più, e da splendidi
banani dalle foglie immense.
- Approdiamo, - disse Bindar.
- Dov'è la jungla? - chiese
Sandokan.
- Dietro quegli alberi, sahib.
Comincia subito.
- A terra. -
La bangle sfondò le erbe
galleggianti lacerando vere masse di piante di loto e si arenò sulla riva che
in quel luogo era molto bassa.
- Copriamola onde non la trovino
e se la portino via, - disse Sandokan.
- È inutile, sahib - disse
Bindar. - Questa palude è più pericolosa e perciò più temuta del terribile lago
di Jeypore.
- Non ti comprendo.
- Guarda in mezzo a quelle piante
acquatiche -.
Sandokan e
Tremal-Naik seguirono cogli sguardi la direzione che
l'indiano indicava loro e videro comparire tre o quattro teste mostruose e
aguzze.
- Coccodrilli! - esclamò la Tigre
della Malesia.
- E molti, sahib, - rispose
Bindar. - Qui ve ne sono delle centinaia, fors'anche delle migliaia.
- Che non ci faranno paura.
L'amico Tremal-Naik conosce quei brutti sauriani.
- Nella jungla nera pullulavano,
- rispose il bengalese. - Ne ho uccisi moltissimi e ti posso anche dire che
sono meno pericolosi di quello che si crede -.
I malesi ed i dayachi si
caricarono dei loro pacchi, presero le armi e scesero a terra, dopo aver
saldamente ancorata la bangle.
- È lontana la pagoda? - chiese
Sandokan.
- Appena un miglio, sahib.
- In marcia. -
Formarono la colonna e
s'inoltrarono sotto gli alberi, tenendo in mezzo il fakiro, il demjadar dei
seikki ed il ministro Kaksa Pharaum.
Oltrepassata la zona alberata che
era limitatissima, il drappello si trovò dinanzi ad una immensa pianura coperta
di bambù altissimi, appartenenti quasi tutti alla specie spinosa. Rari alberi
sorgevano qua e là, a grandi distanze, per lo più erano borassi dal fusto
altissimo e dalle larghe e lunghe foglie disposte ad ombrello.
- Cercate di non fare rumore, -
disse Bindar. - Le belve non hanno ancora raggiunti i loro covi e potrebbero
assalirci d'improvviso.
- Non aver paura per noi, -
rispose Sandokan.
Tutti si tolsero le carabine che
fino allora avevano tenute a bandoliera e la piccola colonna si cacciò in mezzo
a quel mare di verzura, nel più profondo silenzio.
Fortunatamente Bindar aveva
trovato un largo solco, aperto forse dall'enorme massa di qualche elefante
selvaggio, o da qualche rinoceronte, sicché il drappello poteva avanzarsi
rapidamente senza aver bisogno di abbattere quelle canne gigantesche.
Di quando in quando l'indiano,
che camminava alla testa della colonna, si fermava per ascoltare, poi
riprendeva la marcia più velocemente, lanciando occhiate sospettose in tutte le
direzioni.
Dopo mezz'ora si trovarono
improvvisamente dinanzi ad una vasta radura, ingombra solamente di sterpi e di
kalam: quelle erbe altissime che sono taglienti come spade.
In mezzo s'ergeva una costruzione
barocca, che rassomigliava ad un immenso cono allargantesi alla base, con molte
fenditure in tutta la sua lunghezza.
Tutto il rivestimento esterno era
crollato, sicché si scorgevano accumulati a terra pezzi di statue, di animali e
soprattutto un numero infinito di teste d'elefante.
Una gradinata, la sola forse che
si trovasse ancora in ottimo stato, conduceva ad un portone che non aveva più
porte.
- È questa la pagoda? - chiese
Sandokan fermando il drappello.
- Sì, sahib, - rispose Bindar.
- Non ci crollerà addosso?
- Se ha resistito tanto alle
ingiurie del tempo, non saprei perché dovesse sfasciarsi proprio ora, - disse
Tremal-Naik. - Andiamo a vedere in quale stato si trova
l'interno. -
Stava per dirigersi verso la
gradinata seguìto da Sandokan e dai malesi che avevano accese due torce, quando
Bindar gli si parò davanti dicendo:
- Fermati, sahib.
- Che cosa vuoi ancora?
- Ti ho già detto che questa
pagoda serve d'asilo a belve feroci.
- Ah! è vero - disse Sandokan. -
Me n'ero scordato. Sei sicuro però che abbiano là dentro il loro covo?
- Così ho udito raccontare.
- Che cosa dici tu,
Tremal-Naik?
- Talvolta le tigri si servono
delle pagode disabitate, - rispose il bengalese.
- Andremo a rassicurarci se la
notizia è vera o falsa, - disse Sandokan. - Kammamuri prendi una torcia e
seguici.
Voialtri fermatevi qui, formate
una catena e se le belve cercano di fuggire... -
In quel momento un grido rauco,
poco sonoro, echeggiò verso la porta della pagoda e quasi subito due punti
verdastri, fosforescenti, scintillarono fra la profonda oscurità che regnava
dentro quell'enorme cono.
Bindar aveva fatto due passi
indietro, mormorando con voce tremante:
- Le kerkal! Non si sono
ingannati quelli che me l'hanno detto.
- Sono tigri? - aveva chiesto
Sandokan.
- No, sahib: pantere.
- Benissimo - rispose il pirata
colla sua solita calma. - Vieni, Tremal-Naik, andremo a far
conoscenza con quelle signore. Finora non ho ucciso che delle pantere nere che
pullulano nel Borneo. Andiamo a vedere se quelle indiane sono migliori o peggiori.
-
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