Nell'India non è raro trovare non
solo nelle jungle, che un giorno dovevano essere state coltivate e popolate,
bensì anche in mezzo alle folte foreste, avanzi di città e splendide pagode.
Gli antichi rajah, più
capricciosi dei moderni, usavano cambiare sovente la loro residenza, sia per
sfuggire la vicinanza di belve pericolose che non erano capaci di distruggere,
sia per qualsiasi motivo politico.
Fondare una nuova città era
allora di moda, molto più che la mano d'opera costava così poco, che con
qualche milione di rupie un'altra migliore poteva sorgere ed in brevissimo
tempo.
Accade quindi sovente, anche al
giorno d'oggi, di trovarsi improvvisamente dinanzi a rovine grandiose,
semi-coperte da una folta vegetazione.
L'ubertosità del suolo, il gran
calore e l'umidità della notte, favoriscono in modo straordinario, in quella
fortunata penisola, lo sviluppo della vegetazione.
Un campo abbandonato, dopo soli
pochi mesi, non conserva più alcuna traccia. Bambù, arbusti, banani, pipal,
tara, sorgono come per incanto e tutto fanno scomparire. La radura prima
coltivata diventa una boscaglia quasi impenetrabile, od una jungla che più
tardi diventerà un asilo sicuro alle tigri, alle pantere, ai rinoceronti, ai
serpenti, dal morso fatale.
Non era quindi da stupirsi se i
pirati della Malesia, guidati da Bindar, avevano trovato quel rifugio.
Disgraziatamente non pareva che fosse disabitato, come dapprima avevano sperato
Sandokan e Tremal-Naik.
Quel mugolìo sordo e quei due
punti luminosi li avevano subito avvertiti che dovevano pagare prima la pigione
con palle di piombo.
- Orsù, - disse Sandokan. -
Cerchiamo di sloggiare gli inquilini.
- Non se ne andranno però senza protestare,
- rispose Tremal-Naik scherzando.
- In tale caso avranno da fare
con noi. Kammamuri, non tremerà il tuo braccio? Se rimarremo all'oscuro non
risponderei dello sloggio.
- La torcia brillerà sempre
dinanzi alle adnara.
- Ecco un altro nome.
- Le chiamiamo così noi maharatti
quelle brutte bestie.
- Mettiti dietro di noi.
- Sì, Tigre della Malesia. -
Sandokan si volse per vedere se i
suoi uomini erano a posto, armò la carabina e le pistole e si avanzò verso la
porta della pagoda, salendo i gradini.
Tremal-Naik
lo seguiva, accanto a Kammamuri, il quale teneva ben alta la torcia.
Il formidabile pirata era
tranquillo come se si trattasse di andar a trovare dei buoni vicini.
I suoi occhi però non si
staccavano dai due punti luminosi che brillavano sempre fra le tenebre,
socchiudendosi a lunghi intervalli.
- Sarà sola o avrà un compagno? -
si chiese Sandokan, arrestandosi sul pianerottolo.
- Temo, mio caro Sandokan, che la
pagoda ospiti una intera famiglia di quelle bestiacce, - disse
Tremal-Naik. - Sii prudente perché le adnara valgono le
tigri.
- Forse un po' meno delle nostre
pantere nere. Proviamo a fare un buon colpo.
Tu non sparare per ora. -
S'inginocchiò e puntò la carabina
mirando i due punti luminosi. Stava per premere il grilletto, quando questi si
spensero bruscamente.
- Saccaroa! - brontolò il pirata.
- Che quella brutta bestia si sia accorta che volevo la sua pelle e che si sia
internata nella pagoda? Ecco degli inquilini che diventano noiosi.
Bah! Andremo a trovarle nel loro
covo. Avanti Kammamuri! -
Il maharatto alzò la torcia, armò
una pistola a due colpi non potendo servirsi della carabina con una sola mano,
e si avanzò intrepidamente fiancheggiato da Sandokan e da Tremal-Naik.
I malesi ed i dayachi si erano
disposti in forma di semi-cerchio alla base della
gradinata, pronti ad accorrere in aiuto dei loro padroni, nel caso che avessero
avuto bisogno del loro appoggio od a chiudere il passo alle belve.
Non avevano però trascurato,
anche in quel terribile frangente, di mettersi dinanzi il capitano dei seikki
ed il fakiro, onde non approfittassero per prendere il largo, cosa però poco
probabile, poiché quei due disgraziati erano ancora ben legati.
I cacciatori, dopo essersi
fermati alcuni istanti sulla soglia del portone, erano entrati risolutamente
nella pagoda.
Una sala immensa, di forma ovale,
quasi nuda, poiché non vi erano che dei cumuli di macerie cadute dall'alto e
dalle larghe fessure che si scorgevano lungo le pareti, s'apriva dinanzi a
loro.
Anche il rivestimento interno, al
pari di quello esterno, era crollato cospargendo il suolo di frammenti di
statue.
Sandokan e
Tremal-Naik girarono intono un rapido sguardo e con non
poca meraviglia non scorsero, in quell'immensa sala, nessuna belva.
- Dove sarà scappata quella
pantera? - si chiese Sandokan. - Attraverso i crepacci delle pareti no di
certo, non prolungandosi fino alla base.
- In guardia, amico - disse
Tremal-Naik. - Può essersi nascosta dietro questi cumuli di
rottami.
- Non mi sembrano tanto alti da
coprirla. D'altronde lo sapremo subito. -
Dinanzi a lui si trovava un
gigantesco dado di pietra che forse in altri tempi aveva servito a sorreggere
od una pietra di Salagraman od un lingam, il trimurti della religione indiana.
Con un salto vi fu sopra e spinse
gli sguardi in tutte le direzioni.
- Nulla, - disse poi. - La
pantera è scomparsa.
- Eppure non deve essere uscita,
- disse Tremal-Naik. - I nostri uomini l'avrebbero veduta.
- Ah!
- Che cosa c'è ancora?
- Vedo una porticina
all'estremità della sala.
- Che metterà probabilmente in
qualche galleria, - disse il maharatto.
- Purché non vi sia da quella
parte un'uscita, - disse Tremal-Naik.
- In tal caso ci risparmierebbe
il disturbo di cacciarla, - rispose Sandokan. - Andiamo a vedere se quella
signora ha preferito lasciarci l'alloggio senza protestare. -
Attraversarono la sala e giunsero
ben presto dinanzi alla porticina che era aperta. Sandokan e
Tremal-Naik avvertirono subito un acuto odore di selvatico.
- È passata per di qua - disse il
primo. - Attenti a non farvi sorprendere.
- Questa galleria deve condurre
negli appartamenti dei sacerdoti, - aggiunse il bengalese. - In tale caso
avremo da percorrere un bel tratto.
Mettiti dietro di noi, Kammamuri.
-
Appoggiarono le carabine alla
spalla onde essere più pronti a far fuoco e s'inoltrarono in quello stretto
passaggio che tendeva a salire.
Percorsi cinquanta passi, si
trovarono dinanzi ad una gradinata che descriveva una curva assai accentuata.
- Saccaroa! - esclamò Sandokan,
seccato. - Dove si sarà cacciato quel maledetto animale?
- Taci! - disse
Tremal-Naik.
Un sordo mugolìo si udì un po'
più sopra. Segno che la pantera si trovava là dentro e che forse si preparava a
disputare ai tre uomini la via.
Sandokan, risoluto a finirla, si
slanciò su per la gradinata e giunto sul pianerottolo, vide un'ombra allontanarsi
velocemente entro un secondo corridoio.
- Fa' lume, Kammamuri! - gridò.
Il maharatto fu pronto a
raggiungerlo.
Scorgendo ancora l'ombra, la
Tigre della Malesia fece precipitosamente fuoco. La detonazione, che risuonò
fra quelle strette pareti come un colpo di spingarda, fu seguìta da un urlo
strozzato.
- Colpita? - chiese
Tremal-Naik balzando avanti.
- Ah! non lo so, - rispose
Sandokan che ricaricava l'arma. - Fuggiva dinanzi a me e non potevo scorgerla
troppo bene. Ho fatto fuoco a casaccio.
- Andiamo a vedere se vi sono
delle tracce di sangue. -
S'avanzarono cautamente, cogli
occhi e gli orecchi in guardia, tenendosi curvi onde offrire meno bersaglio nel
caso d'un improvviso attacco.
Il corridoio, che era aperto
nello spessore delle pareti, girava come se seguisse la curva della immensa
pagoda. Di quando in quando a destra ed a sinistra s'aprivano delle piccole
celle, che un giorno dovevano aver servito ai bramini o ai gurum.
Ad un tratto Sandokan si arrestò
curvandosi a terra.
- Una larga macchia di sangue! -
esclamò.
- L'hai colpita, - disse
Tremal-Naik. - Fra poco sarà nostra.
- Avanti! -
Sicuri di non trovare ormai da
parte della pantera grande resistenza, avevano allungato il passo. Le macchie
di sangue continuavano e sempre più abbondanti.
La palla di Sandokan doveva aver
prodotta una ferita gravissima.
La dannata bestia però continuava
la sua ritirata attraverso a quell'interminabile corridoio.
Ad un certo momento e quando meno
se l'aspettavano, i tre cacciatori si trovarono dinanzi ad una sala piuttosto
vasta, ingombra di statue rappresentanti le eterne incarnazioni di Visnù.
- Dobbiamo essere alla fine! -
aveva esclamato Tremal-Naik.
Aveva appena pronunciate quelle
parole quando una massa piombò improvvisamente su di loro, atterrandoli uno
sull'altro e spegnendo la torcia.
Sandokan fu pronto ad alzarsi ed
a far fuoco e anche questa volta a casaccio, imitato da Kammamuri che non si
era lasciata sfuggire la pistola.
Tremal-Naik,
più prudente, aveva conservata la sua carica temendo un ritorno offensivo della
belva.
Questa, dopo aver spiccato quel
gran salto e d'aver gettati i cacciatori a gambe levate, era scappata
ritornando nel corridoio.
- Quella pantera ha l'anima di
Kalì! - esclamò Tremal-Naik. - Eccoci in un bell'impiccio!
Chi ha l'acciarino?
- Io no - rispose Sandokan.
- E nemmeno io - aggiunse
Kammamuri.
- Dovremo compiere la ritirata
all'oscuro?
- Conosciamo già il corridoio e
credo che il ritorno non sarà difficile, - rispose la Tigre della Malesia.
- E se la pantera ci aspetta
all'agguato?
- Ecco quello che temo.
- Ricarica subito e anche tu
Kammamuri. Da un istante all'altro possiamo trovarci nuovamente di fronte alla
kerkal.
- E può anche... -
Il maharatto non finì la frase.
Un mugolìo che terminò in un soffio ardente lo aveva arrestato.
- Vi è un'altra pantera qui! -
esclamò subito Sandokan facendo un rapido dietro fronte.
- Ma sì! - rispose
Tremal-Naik. - La prima non era sola.
- In ritirata!
- E presto, - aggiunse il
bengalese. - Qui corriamo il pericolo di venire assaliti dinanzi e alle spalle.
-
Sandokan lanciò una imprecazione.
- Tornare indietro ora, quando
già erano nelle nostre mani!
- Le scoveremo più tardi. Vieni,
non perdiamo tempo! -
Uscirono dalla sala,
indietreggiando lentamente onde non farsi sorprendere. Kammamuri solo, che
aveva ricaricata la pistola, aveva volte le spalle alla porta per far fronte
alla prima pantera fuggita attraverso il corridoio.
Il momento era terribile, eppure
quei tre valorosi non avevano nulla perduto della loro ammirabile calma,
quantunque fossero più che certi di venire assaliti prima di poter ridiscendere
nella pagoda e raggiungere i loro compagni che dovevano essere molto inquieti,
non vedendoli ritornare dopo quei quattro spari.
- Teniamoci uniti, - disse
Sandokan ai compagni. - Se non abbiamo più la torcia possediamo sempre le
nostre armi da fuoco.
- E appena scorgiamo gli occhi
delle belve spariamo subito, - aggiunse Tremal-Naik.
La ritirata, fra la profonda
oscurità che regnava in quello stretto corridoio, si compiva lentamente,
dovendo Sandokan ed il bengalese indietreggiare colla faccia rivolta sempre
verso la sala.
Kammamuri stava per mettere i
piedi sul primo gradino, quando vide, a soli pochi passi, lampeggiare gli occhi
verdastri della kerkal, che era fuggita attraverso il corridoio.
- Padrone! - disse, dando
indietro. - La bestia sta dinanzi a me.
- E la seconda ci segue, -
rispose Sandokan. - Ecco là i suoi occhi. -
I tre uomini si erano arrestati
colle armi puntate contro quei quattro punti luminosi. Quantunque provati alle
più terribili avventure, non osavano far fuoco per la tema di mancare i loro
avversari.
Fra loro regnò un breve silenzio,
poi Sandokan pel primo lo ruppe.
- Non possiamo rimanere qui
eternamente. Oltre le armi da fuoco abbiamo anche le scimitarre ed un
combattimento a corpo a corpo non mi fa paura.
Tu, Kammamuri, fa' fuoco sulla
pantera che si trova sulla scala; io cercherò di spacciare l'altra.
- Ed io? - chiese
Tremal-Naik.
- Rimarrai in riserva, - rispose
la Tigre della Malesia.
Estrasse con precauzione la
scimitarra senza staccare i suoi occhi dai due punti fosforescenti che
brillavano sinistramente fra quelle fitte tenebre, la strinse fra i denti, poi
mirò lentamente, onde essere ben sicuro del suo colpo.
Kammamuri dal canto suo aveva
puntata la pistola, che come abbiamo detto era a doppia canna.
I tre spari formarono una
detonazione sola. Al rapido bagliore prodotto dalla polvere, i cacciatori
videro le due belve scagliarsi innanzi, poi ruzzolarono l'uno addosso all'altro
giù per la scala.
Tremal-Naik,
che fu il primo a giungere in fondo, udendo verso il pianerottolo un mugolìo
minaccioso, sparò più per illuminare, fosse pure per un istante la galleria,
che colla convinzione di colpire.
Un urlo vi rispose, poi una massa
crollò giù dalla scala cadendo addosso a Sandokan che si era fermato sul
penultimo gradino.
- Ah! Canaglia! - urlò il pirata
che aveva avuto il tempo d'impugnare la scimitarra prima di cadere.
Alzò l'arma e la lasciò cadere
con forza su quel corpo che si dibatteva al suo fianco urlando.
- Prendi! Prendi! -
Due volte la scimitarra,
maneggiata da quel braccio di ferro, tagliò a fondo.
- Fuggiamo! - disse in quel
momento Tremal-Naik. - Le nostre armi sono scariche. -
Tutti e tre si erano slanciati
attraverso al corridoio, correndo all'impazzata. Stavano per entrare nella
pagoda, quando udirono una scarica echeggiare al di fuori.
- I nostri uomini hanno fucilata
l'altra, - disse Sandokan correndo verso la porta.
Non si era ingannato. Sul vasto
pianerottolo giaceva una gigantesca pantera, una delle più grosse che avesse
visto fino allora, immersa in una pozza di sangue.
La sua splendida pelliccia era
crivellata di proiettili.
- Sahib, - disse Bindar,
facendosi innanzi, - si temeva che ti fosse accaduta qualche disgrazia.
- La pagoda è nostra, - rispose
semplicemente Sandokan. - Occupiamola.
- Sarà morta l'altra? - chiese
Kammamuri.
- La mia scimitarra è lorda di
sangue e quando io meno un colpo, nemmeno una tigre può resistere.
Fa' mettere, per maggior
precauzione, delle sentinelle dinanzi alle due porte e cerchiamo di riposare
qualche ora. Ne abbiamo bisogno. -
I malesi ed i dayachi sciolsero i
pacchi, stendendo a terra tappeti e coperte di lana e perfino cuscini destinati
ai loro capi, mentre alcuni altri accendevano alcune torce piantandole fra le
macerie.
Il vecchio Sambigliong fece la
scelta degli uomini di guardia, portandone tre dinanzi alla porticina che
conduceva sulla gradinata della porta maggiore, non essendo improbabile che
altre fiere si presentassero.
Sandokan e
Tremal-Naik, dopo essersi bene assicurati che il fakiro ed
il comandante dei seikki avevano i legami intatti, si sdraiarono sui tappeti,
non senza aver avuto la precauzione di mettersi a fianco le armi, quantunque si
ritenessero perfettamente sicuri contro una invasione da parte delle guardie del
rajah.
Il resto della notte infatti
trascorse tranquillo. Solo alcuni sciacalli, attirati da quella luce insolita,
che brillava nell'interno della pagoda, osarono salire la gradinata e mandare
qualche urlo.
Non essendo pericolosi, gli
uomini di guardia non si scomodarono a salutarli con un colpo di fucile,
desiderando economizzare le loro munizioni.
Preparata e divorata la
colazione, Sandokan inviò nella jungla una metà dei suoi uomini, per
assicurarsi contro qualunque sorpresa, poi si fece condurre dinanzi il fakiro.
Il povero uomo, che già
s'aspettava di dover subire un interrogatorio, tremava come se avesse la febbre
e dalla fronte gli cadevano grosse gocce di sudore.
- Siediti, - gli disse
ruvidamente Sandokan, che stava comodamente sdraiato su un tappeto a fianco di
Tremal-Naik. - È giunta l'ora di fare i conti.
- Che cosa vuoi da me, signore? -
gemette il disgraziato guardando con fervore l'antico capo dei pirati di
Mompracem, che lo fissava come se cercasse di ipnotizzarlo.
- Un uomo che avesse la coscienza
tranquilla non tremerebbe come te, - disse Sandokan accendendo il cibuc e
lanciando in aria una fitta nuvoletta di fumo. - Narrami ora come hai fatto tu,
che hai un braccio solo disponibile, a rapire quella fanciulla.
- Una fanciulla! - esclamò il
fakiro alzando gli occhi in aria. - Che cosa vieni a raccontarmi tu sahib?
Ti ho già detto che io non so
nulla, affatto nulla.
- Sicché tu non ti sei recato in
casa d'una signora indiana per liberarla dal mal occhio.
- Può darsi, ma non ti saprei
dire quale.
- Allora te lo dirà un uomo che
assistette alla cerimonia.
- Fallo venire, - rispose il
gussain, con voce però tutt'altro che ferma.
- Kubang! - gridò Sandokan.
Il malese, che fino allora si era
tenuto nascosto dietro un cumulo di macerie, si alzò e si mise di fronte al
fakiro chiedendogli:
- Mi riconosci tu? -
Tantia lo fissò a lungo, con uno
sguardo che tradiva una profonda inquietudine, poi raccogliendo tutta la sua
energia rispose:
- No: non ti ho mai veduto.
- Tu menti - gridò il malese. -
Quando tu passasti il bacino dinanzi agli occhi della giovane indiana, mi
trovavo a soli tre passi di distanza da te. -
Il gussain ebbe un leggero
fremito, però rispose subito.
- T'inganni: un viso che avesse
avuto quella brutta pelle non mi sarebbe sfuggito così facilmente.
Te lo ripeto: io non ti ho mai
veduto.
- Un uomo che ha un braccio
anchilosato e che tiene nel suo pugno un ramoscello non si dimentica facilmente
- rispose il malese. - Sei stato tu, lo affermo solennemente.
- Difenditi ora, - disse
Sandokan. - Vedi che quest'uomo ti accusa. -
Il gussain crollò le spalle,
sorrise ironicamente, poi rispose:
- Quest'uomo o è pazzo od ha
giurato di perdermi. Tantia però non è così stupido da cadere nell'infame
agguato preparato da questo miserabile.
- È troppo furbo per
compromettersi, - disse Tremal-Naik. - L'interrogatorio
però è appena cominciato e non finirà tanto presto.
- È vero, - disse Sandokan. -
Accusa Kubang.
- Io dico che quest'uomo si è
presentato nel palazzo della giovane indiana, - riprese il malese, - che ha
chiesto di riposarsi, che fu lasciato solo e che alla notte scomparve portando
via la padrona: che neghi se l'osa!
- L'oso, - rispose il fakiro.
- Sicché non vuoi confessare per
conto di chi hai agito, - disse Sandokan.
- Io non sono che un povero uomo
che non ha altro desiderio che di andarsene al più presto nel cailasson. La mia
carcassa non servirebbe nemmeno per una cena alla tigre.
- Kammamuri, - disse Sandokan, -
quest'uomo non ha ancora fatto colazione. Portagli una terrina di carri.
Come ha ceduto Kaksa Pharaum,
cederà anche questo ostinato. -
Il maharatto che stava
rimescolando un certo intingolo, che si trovava in una pentola di ferro e che
gli faceva lagrimare abbondantemente gli occhi, empì un recipiente e lo posò
dinanzi al gussain.
- Mangia, - disse Sandokan. - Poi
riprenderemo il discorso. -
Tantia fiutò il riso condito con
droghe fortissime e scosse la testa dicendo con voce risoluta:
- No! -
Sandokan si levò dalla fascia una
pistola, l'armò e accostando le fredde canne ad una tempia del prigioniero gli
disse:
- O mangi o ti faccio scoppiare
la testa.
- Che cosa contiene questo carri?
- chiese il fakiro coi denti stretti.
- Mangialo, ti dico.
- Tu mi prometti che non contiene
alcun veleno?
- Non ho alcun interesse a
sopprimerti, anzi desidero che tu viva.
Ti decidi o no? Ti accordo un
minuto. -
Il fakiro esitò un istante, poi
prese il cucchiaio che Kammamuri gli porgeva sorridendo ironicamente e si mise
a mangiare facendo delle orribili smorfie.
- Troppo pimento in questo carri,
- disse. - Tu hai un cattivo cuoco.
- Me ne provvederò un altro, -
rispose Sandokan. - Per ora accontentati di quello che ho. -
Il fakiro, vedendo che non
deponeva la pistola, continuò a mangiare quella miscela infernale, che doveva
bruciargli lo stomaco. Essendo però gli indiani abituati a mettere molto
pimento nei loro cibi, specialmente nel carri, il gussain ne risentiva
certamente meno gli effetti ardenti.
Quand'ebbe finito si batté colla
sinistra il ventre dicendo:
- Anche questa minestra passerà.
- Vedremo se il tuo stomaco sarà
così solido, - rispose Sandokan. - Ora a te Tremal-Naik. -
Il bengalese e Kammamuri
afferrarono il gussain sotto le ascelle e lo misero in piedi.
- Che cosa volete ancora da me? -
chiese il disgraziato con terrore.
- Oh! Non abbiamo ancora finito?
- disse Tremal-Naik. - Credevi di cavartela così a buon
prezzo? Vuoi evitare il resto? Allora confessa.
- Vi ho detto che io non so
nulla! - strillò Tantia. - Io non ho preso parte al rapimento di quella donna.
Potete strapparmi la lingua,
tormentarmi, io non potrò dirvi quello che io non ho fatto.
- Lo vedremo, - disse
Tremal-Naik.
Lo spinsero fuori dalla pagoda e
gli fecero scendere la scalinata fermandolo dinanzi ad una buca molto profonda,
che due malesi stavano scavando.
- Basterà, - disse Sandokan ai
due pirati, dopo d'aver dato uno sguardo a quello scavo. - L'uomo non è grasso,
tutt'altro anzi. -
Il gussain aveva fatto due passi
indietro guardando con smarrimento Sandokan, Tremal-Naik e
Kammamuri.
- Che cosa volete fare di me? -
chiese battendo i denti. - Ricordatevi che io sono un fakiro, ossia un
sant'uomo, che gode la protezione di Brahma.
- Chiamalo che venga a liberarti,
- disse Sandokan.
- Voi non godrete le delizie del
cailasson, quando la morte vi avrà colpiti.
- Io mi accontento del paradiso
di Maometto.
- Il rajah mi vendicherà.
- È troppo lontano e poi in questo
momento non ha tempo di occuparsi di te. Vuoi parlare sì o no?
- Che siate maledetti tutti! -
urlò il gussain furibondo. - Lancio contro di voi il malocchio!
- La mia scimitarra lo spezzerà,
- rispose Sandokan. - Calatelo dentro. -
I due malesi s'impadronirono del
fakiro, che non poteva opporre che una resistenza debolissima, avendo un solo
braccio disponibile e lo cacciarono nella buca lasciandogli sporgere solamente
la testa e il braccio sinistro che nessuno avrebbe potuto ormai piegare senza
spezzarglielo.
Ciò fatto cominciarono a gettare
dentro palate di terra in modo da avvolgere completamente quel magrissimo corpo
e d'immobilizzarlo.
Il gussain che forse aveva
indovinato a quale spaventevole supplizio lo condannavano i suoi carnefici, cacciava
urla spaventevoli che non producevano però nessun effetto sull'anima di
Sandokan, né su quella di Tremal-Naik.
- La pentola ora, - disse la
Tigre della Malesia, quando il fakiro fu interrato.
Uno dei due malesi corse nella
pagoda e tornò portando una specie di vaschetta di metallo, colma d'acqua
limpidissima e la mise dinanzi a Tantia, alla distanza di qualche passo.
- Quando avrai sete te la
prenderai, - disse allora Sandokan.
Vedendo l'acqua il gussain
stralunò gli occhi e le sue labbra s'incresparono.
- Datemi da bere! - ruggì. - Ho
il fuoco nel ventre.
- Allunga il tuo braccio
anchilosato e serviti, - rispose Sandokan. - Nessuno te lo impedisce.
- Spezzatemelo allora! Io non
posso abbassarlo.
- È un affare che riguarda te. Vieni
Tremal-Naik: quest'uomo comincia a diventare noioso. -
A cinquanta passi dalla gradinata
s'alzava uno splendido lauro sotto il quale i malesi avevano stesi alcuni
tappeti e collocati alcuni cuscini.
Sandokan e Tremal-Naik,
seguiti da Kammamuri, si diressero verso quella pianta e si sdraiarono sotto la
fitta ombra accendendo le loro pipe. Il gussain non cessava di urlare come un
dannato, chiedendo acqua.
Il pimento cominciava a fare i
suoi effetti, tanagliandogli le viscere.
- All'altro ora, - disse la Tigre
della Malesia. - Kammamuri va' a prendere il demjadar.
- Terremo la corte di giustizia
sotto quest'albero? - chiese Tremal-Naik scherzando.
- Siamo più sicuri qui che nella
pagoda - rispose Sandokan.
- Eh non so, amico! Tu dimentichi
che siamo in mezzo ad una jungla.
- Finché i miei uomini battono i
bambù non abbiamo nulla da temere.
- Pronunceremo un'altra sentenza?
- Tutto dipenderà dalla buona o
cattiva volontà del prigioniero. -
Kammamuri tornava in quel momento
col capitano dei seikki.
Era questi un bel tipo di
montanaro indiano, d'una robustezza eccezionale, con una lunga barba nerissima
che dava maggior risalto alla sua pelle appena abbronzata e con due occhi pieni
di fuoco.
Essendogli state slegate le mani,
salutò militarmente Sandokan e Tremal-Naik, portando la
destra sull'immenso turbante bianco colla calotta rossa ricamata in oro, che
gli copriva la testa.
- Siedi amico, - gli disse la
Tigre della Malesia. - Tu sei un uomo di guerra e non già un gussain. -
Il demjadar che conservava una
calma degna d'un vero soldato, obbedì senza batter ciglio.
- Io voglio sapere da te se hai
preso parte al rapimento d'una principessa indiana insieme col fakiro.
- Io non ho mai avuto alcun
rapporto con quell'uomo, - rispose il seikko quasi con disprezzo. - Io sono
mussulmano come tutti i miei compatriotti e non mi occupo dei santoni.
- Dunque tu non sai nulla di quel
rapimento.
- È la prima volta che odo
parlare di ciò. Poi io non mi occuperei di tali cose.
Affrontare dei nemici sia pure;
lottare con delle donne che non possono
difendersi, mai! I seikki della montagna sono guerrieri.
- Chi ti ha incaricato di
assalirci?
- Il rajah.
- Chi aveva detto a S. Altezza che
noi abitavamo nella pagoda sotterranea?
- Io sono abituato a obbedire
alle persone che mi pagano e non di chiedere i loro affari, - rispose il
seikko.
- Quanto ti dà il rajah all'anno?
- Duecento rupie.
- Se vi fosse un uomo che te ne
offrisse mille, lasceresti il rajah? -
Gli occhi del demjadar
lampeggiarono.
- Pensaci, - disse Sandokan, a
cui non era sfuggito quel lampo che tradiva una intensa cupidigia. - Mi
risponderai su ciò più tardi.
Ora voglio sapere altre cose.
- Parla, sahib.
- Sei tu che comandi la guardia
reale?
- Sì, sono io.
- Di quanti uomini si compone?
- Di quattrocento.
- Tutti valorosi? -
Un sorriso quasi di disprezzo
spuntò sulle labbra del demjadar.
- I seikki della montagna sanno
morire bene e non contano i loro nemici, - disse poi.
- Quanto ricevono i tuoi uomini
dopo un anno di servizio?
- Cinquanta rupie.
- Che cosa hai pensato
dell'offerta che ti ho fatta? -
Il demjadar non rispose: pareva
facesse qualche calcolo difficile.
- Sbrigati, non ho tempo da
perdere, - disse Sandokan.
- Il rajah del Mysore ed il
guicovar di Baroda, che sono i più generosi principi dell'India, non mi
darebbero tanto, - rispose finalmente il seikko.
- Sicché tu accetteresti per una
tale somma di lasciare il rajah dell'Assam e di passare sotto altre persone?
- Sì, purché paghino. Noi siamo
mercenari.
- Anche se quella persona si
servisse di te e dei tuoi uomini per dare addosso al rajah dell'Assam? -
Il demjadar alzò le spalle.
- Io non sono un assamese, -
rispose poi. - La mia patria è sulle montagne.
- Risponderesti della fedeltà dei
tuoi uomini se si offrissero a loro duecento rupie per ciascuno?
- Sì, sahib, assolutamente -
rispose il demjadar. - Tutti quei montanari li ho arruolati io e non
obbediscono che a me.
- Ti farò versare oggi un acconto
di cinquecento rupie, ma per ora tu non devi lasciare il mio campo e non
cesserà la sorveglianza intorno a te.
- Non sarebbe necessaria perché
tu hai la mia parola, però fa' come vuoi. È meglio non fidarsi, ed io al tuo
posto farei altrettanto.
- Ora puoi andartene: devo
occuparmi del fakiro. Kammamuri! - chiamò poi; il maharatto che stava
accoccolato dinanzi a Tantia ascoltando, impassibile alle urla feroci che
mandava il disgraziato, fu lesto ad accorrere.
- A che punto siamo? - gli chiese
Sandokan, mentre il demjadar si allontanava.
- Il gussain non può più
resistere: è idrofobo.
- Andiamo a vedere se si decide a
parlare. Vieni Tremal-Naik: noi non avremo perduta la
nostra giornata.
- Comincio a sperare che la
corona di Surama non sia lontana, - disse il bengalese.
- Anch'io, amico: ormai non è più
che una questione di pazienza. -
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