L'elefante, atterrato l'ostacolo,
si era frettolosamente allontanato di una ventina di passi, poi si era voltato
presentando agli assediati la sua formidabile tromba, che stringeva
all'estremità una massiccia sbarra di ferro.
Seduto fra le due orecchie stava
il suo cornac, armato dell'uncino onde spingerlo all'attacco.
Dietro ed ai fianchi si erano
radunati trenta o quaranta seikki; però altri dovevano trovarsi nel cortile a
giudicare dalle grida e dai comandi che si udivano.
La porta era così ampia che
l'elefante poteva entrare senza fatica nella sala, la quale, forse in altri
tempi, aveva servito da scuderia a quei colossali pachidermi.
Avanti che il grosso animale
salisse il primo gradino, una ventina di seikki gli si gettarono dinanzi,
sparando all'impazzata fra i divani e le sedie, colla speranza di far scaricare
le carabine degli assediati; questi però, che erano bene al riparo dalle palle
degli avversari, si guardarono bene dal cadere nel tranello.
Non ricevendo risposta, i seikki,
dopo d'aver consumato senza alcun risultato un centinaio di cartucce,
lasciarono il passo al pachiderma, il quale s'avanzò coraggiosamente ostruendo,
col suo corpaccio, tutta la porta.
Era il momento atteso da Yanez.
- Ecco un'altra barricata, -
mormorò. - Non lasciamolo passare del tutto. -
Alzò la sua grossa carabina,
tenendosi inginocchiato dietro un divano e lasciò partire uno dopo l'altro i
due colpi, tosto imitato dai suoi uomini.
L'elefante colpito alle giunture
delle spalle, i due punti più vulnerabili, e crivellato dai proiettili dei
malesi, tentò di dare indietro per uscire da quella strettoia; ma le forze
improvvisamente gli mancarono e s'accasciò di colpo, ostruendo tutto il passaggio
colla sua massa enorme.
Al di fuori si levò un coro di
urla di rabbia, mentre il disgraziato animale, dopo d'aver lanciato tre o
quattro possenti barriti, cominciava a rantolare. Grosse lagrime gli cadevano
dagli occhi e la sua tromba, scossa da un tremito convulso, soffiava sangue:
indizio sicuro d'una prossima morte.
- Per Giove! - esclamò Yanez. -
Ecco un colpo magnifico che i seikki non s'aspettavano. Vedremo ora come
faranno a entrare. Sarano costretti ad assalirci dalla parte delle due porticine,
e quelle aperture non sarà difficile difenderle. Burni!
- Capitano.
- Prendi due uomini e va' a
demolire il palco dei suonatori. È necessario barricare le due porticine. -
Quindi volgendosi verso i due
malesi che gli stavano inginocchiati ai fianchi, spiando gli ultimi sussulti
del pachiderma, disse a loro:
- Non perdete di vista un solo
istante la porta, e fate fuoco sul primo che cercherà d'entrare. Potrete
facilmente vederlo perché sarà costretto passare sul corpo dell'elefante. Ed
ora vedremo come stanno le cose. -
Si alzò con precauzione e sporse
il capo fra due divani, lanciando un rapido sguardo verso la porta. L'elefante
rantolava ancora e dietro la sua massa si vedevano sorgere numerose carabine.
Era evidente però che i seikki aspettavano che il povero pachiderma avesse
esalato il suo ultimo respiro, prima di avventurarsi sul suo corpo, per timore
di ricevere qualche colpo di proboscide.
Burni e i suoi due uomini avevano
appena terminato di barricare le due porticine, accumulandovi dietro tavole,
pali grossissimi e gli ultimi divani, quando una nota metallica uscì dalle
fauci del pachiderma: la morte stava per sorprendere il disgraziato animale.
- È il suo barrito supremo, -
disse Yanez. - Tenetevi pronti a respingere l'attacco.
I seikki non tarderanno ad aprire
il fuoco.
- Ne vedo già uno che sta
arrampicandosi sul dorso dell'elefante - disse Burni.
Un guerriero seikko, sicuro ormai
che l'elefante era morto, oppure non più in grado di far uso della terribile
proboscide, erasi arrampicato sul gigantesco corpo e si avanzava strisciando.
Burni, che non lo perdeva di
vista, si rizzò in piedi, mirò qualche istante, tenendosi
semi-nascosto dietro un divano, poi lasciò partire un colpo
secco che risuonò nell'immensa sala.
L'indiano rotolò verso uno degli
stipiti della porta, lasciandosi sfuggire il fucile che teneva in mano, senza
fare nemmeno un gesto, né mandare un grido.
- Ecco uno che non griderà più, -
disse Yanez freddamente. - Se tutti i proiettili colpissero così bene, colle munizioni
che abbiamo, non resterebbe più un solo seikko a quel maledetto rajah. -
Altri due seikki avevano preso il
posto dell'ucciso. Vedendo alzarsi dietro i divani una nuvoletta di fumo,
fecero fuoco quasi contemporaneamente, credendo di colpire l'uccisore del loro
compagno, ma Burni si era nascosto dietro la barricata.
- A me, ora, - disse Yanez. - Vi
mostrerò io come tira il grande cacciatore. -
Due spari fortissimi seguirono
quelle parole. La grossa carabina del portoghese aveva fulminato anche quei nuovi
assalitori, facendoli ruzzolare uno a destra e l'altro a sinistra
dell'elefante.
Quei tre colpi meravigliosi
scatenarono un clamore assordante e rallentarono, nel medesimo tempo,
l'attacco. Il grande cacciatore del rajah, già ammirato per la sua straordinaria
audacia, cominciava a terrorizzare anche quei coraggiosi guerrieri, che tutti
gli indiani ritenevano invincibili.
- Ah! Se potessi avvertire la
Tigre della Malesia!... - esclamò Yanez. - Ma dove si troverà? Deve essere
impegnato in qualche grave affare il mio fratellino, se non ha mandato a noi
sue notizie. La va male! Come finirà questa brutta faccenda? Orsù, non
disperiamo e cerchiamo di resistere più che potremo! I lamenti sono affatto
inutili in questo momento. -
Una detonazione fortissima scosse
l'immensa sala, poi un largo tratto di soffitto precipitò al suolo, a breve
distanza dagli assediati.
I seikki, non osando attaccare
risolutamente i malesi, avevano messo in batteria, all'estremità del cortile
d'onore, un pezzo d'artiglieria ed avevano cominciato il fuoco.
La fronte di Yanez si era
annuvolata.
- Questo non me l'aspettavo, -
mormorò. - Speriamo che non adoperino delle granate. -
Una seconda detonazione rimbombò
più acuta della prima, ed un proiettile, dopo d'aver attraversato l'elefante quasi
a livello della spina dorsale, passò sibilando sopra la barricata dei divani,
conficcandosi profondamente nella parete opposta.
- Fino a quando potremo
resistere? - disse Yanez.
Un terzo sparo rimbombò nel
cortile e si vide uno spettacolo orribile. L'elefante era stato colpito da una
granata e questa, scoppiando nel suo corpo, aveva orrendamente squarciata la
massa, scagliando, contro gli stipiti della porta, enormi lembi di pelle e di
carne e spruzzando di sangue le vicine pareti, le porte di bronzo, i divani e
perfino le sedie.
La detonazione non si era ancora
spenta, quando dieci o dodici seikki si slanciarono sul corpo mutilato del
pachiderma, mandando urla feroci e facendo fuoco in tutte le direzioni.
I malesi avevano già alzate le
carabine per rispondere all'attacco; Yanez fu pronto a trattenerli:
- No: a colpo sicuro! -
I seikki, superato il corpaccio
del pachiderma, si erano slanciati sulle due porte di bronzo che, come abbiamo
detto, erano cadute addosso ai divani, e stavano per attraversarle quando una
voce secca, tagliente, si fece udire:
- Fuoco, malesi! -
Una scarica terribile, quasi a
bruciapelo, colpì il minuscolo drappello d'avanguardia.
Sei seikki caddero in mezzo ai
divani, più o meno fulminati. Gli altri, che avevano le carabine scariche,
balzarono rapidamente sull'elefante attraverso lo squarcio sanguinoso e
scapparono a gambe levate.
- Questi montanari sono testardi,
- disse Yanez. - Però io al loro posto sarei più prudente, sapendo d'aver
dinanzi degli uomini che tirano meravigliosamente ed a colpo sicuro.
- In guardia, capitano! - esclamò
Burni.
- Vengono ancora?
- Sì, tornano all'attacco. -
Turbanti e canne di carabine
tornavano a mostrarsi dietro all'elefante. I seikki si preparavano di certo per
tentare uno sforzo supremo.
Dovevano essere furibondi per le
perdite subite, quindi ben più terribili di prima.
Un urlo feroce, il grido di
guerra di quelle intrepide tribù montanare, li avvertì che l'attacco stava per
essere ripreso.
Ed infatti, un momento dopo, una
valanga d'uomini scalava l'elefante, proteggendosi con un fuoco vivissimo, di
nessun effetto però per gli assediati, che si trovavano riparati prima dalle
porte di bronzo che erano rimaste inclinate, e poi da tutto quell'ammasso di
divani e sedie.
- Date dentro! - comandò Yanez ai
suoi uomini.
I malesi non si fecero ripetere
il comando. Meravigliosi tiratori, aprirono a loro volta il fuoco abbattendo un
uomo ogni colpo che sparavano.
I seikki, quantunque atterriti
dalla precisione di quel fuoco, che non cessava un solo istante, se non osavano
avanzare, si tenevano però ostinatamente sul dorso del pachiderma, rispondendo
colpo per colpo, mentre il pezzo d'artiglieria, piazzato in fondo al cortile,
tuonava mandando le palle sopra le loro teste, cercando di sfondare il soffitto
e di provocarne la caduta per schiacciare i difensori della sala.
Fortunatamente la volta era stata
troppo bene costruita e non rovinavano che qualche mattone e larghi pezzi di
calcinaccio, proiettili che non inquietavano affatto né Yanez, né i malesi.
Il fuoco era diventato terribile
d'ambo le parti e anche rapidissimo. Ogni seikko che cadeva, veniva subito
surrogato da un altro non meno ostinato, né meno valoroso del compagno e che
non tardava a capitombolare morto o ferito.
Una ventina di uomini erano già
stati posti fuori di combattimento, quando il segnale della ritirata venne
dato.
Quel comando giungeva in buon
punto, poiché i malesi si trovavano ormai imbarazzati a tener fronte a tanti
avversari, e si bruciavano le mani essendo diventate le canne delle carabine
ardenti.
Anche questa volta il fuoco dei
seikki non aveva ottenuto alcun risultato, poiché solo Burni era stato colpito
da una palla di rimbalzo, che gli aveva portato via il lobo dell'orecchio
destro, provocando un'emorragia che non poteva avere alcuna grave conseguenza.
- Capitano, - disse Burni, - come
ce la caveremo noi? Che cosa tenteranno i seikki?
- Eccoli radunati intorno al
pezzo, - gridò Yanez. - Amici, preparatevi a sgombrare o riceverete in pieno
petto una palla di buon calibro. -
I malesi furono solleciti ad
allontanarsi, riparandosi dietro le due estreme ali della barricata, che si
trovavano fuori dalla linea del portone. Avevano appena raggiunti i loro posti,
quando il cannone avvampò con un fragoroso rimbombo.
La palla rimbalzò sulle porte di
bronzo, scheggiando quella di destra, attraversò la barricata dei divani,
affondandone parecchi e andò a conficcarsi in una parete.
- Avranno però da fare, a
sfondare le porte di bronzo, capitano - disse il malese.
- Cederanno anche quelle. Il
pezzo che i seikki adoperano deve essere buonissimo, - osservò Yanez.
Un altro colpo seguì il primo e
la palla tornò a rimbalzare, sfondando però un'altra buona parte della
barricata.
- Se ne va, - disse Burni
scuotendo tristemente la testa.
I colpi si succedevano ai colpi,
facendo tremare le invetriate della sala. Le palle rimbalzavano da tutte le
parti, scrosciando sulle porte di bronzo, le quali a poco a poco cedevano, e si
conficcavano contro le muraglie aprendo dei buchi enormi.
Yanez ed i malesi, rannicchiati
dietro i divani, cupi, pensierosi, stringevano le loro carabine senza sparare
un solo colpo, ben sapendo che sarebbero state cartucce perdute senza alcun
profitto, poiché la massa del pachiderma impediva a loro di scorgere gli
artiglieri.
Il cannoneggiamento durò una
buona mezz'ora, poi quando le due porte caddero spezzate, e la barricata fu
sfondata, il fuoco fu sospeso ed un uomo, salito sui resti dell'elefante, si
presentò, tenendo infisso sulla baionetta un pezzo di seta bianca.
Yanez si era già alzato, pronto a
fulminarlo, ma accortosi a tempo che si trattava d'un parlamentario, abbassò la
carabina chiedendo:
- Che cosa vuoi tu?
- Il rajah mi manda per intimarvi
la resa. La vostra barricata ormai non vi protegge più.
- Dirai a Sua Altezza che ci
proteggeranno le nostre carabine, e che il suo gran cacciatore ha ancora le
braccia ferree e la vista eccellente, per mettergli fuori di combattimento le
guardie reali.
- Il rajah mi ha mandato per
proporti delle condizioni, mylord.
- Quali sono?
- Accorda a te la vita, purché tu
ti lasci condurre alla frontiera del Bengala.
- Ed a' miei uomini?
- Hanno ucciso, non sono uomini
bianchi e pagheranno colla loro vita.
- Va' a dire allora al tuo
signore, che il suo grande cacciatore li difenderà finché avrà una cartuccia e
un soffio di vita. Sgombra o ti fucilo sul posto! -
Il parlamentario fu lesto a
scomparire.
- Amici, - disse Yanez con voce
perfettamente tranquilla, - qui si tratta di morire: la Tigre della Malesia
penserà a vendicarci.
- Signore, - disse Burni, - la
nostra vita ti appartiene e la morte non ha mai fatto paura alle vecchie tigri
di Mompracem.
Cadere qui o sul mare è tutt'una,
è vero camerati?
- Sì,- risposero i malesi ad una
voce.
- Allora prepariamoci all'ultima
difesa, - disse Yanez. - Quando non potremo più sparare, attaccheremo colle
scimitarre. -
Ai colpi di cannone di poco
prima, era successo un profondo silenzio. I seikki si consigliavano e stavano
preparando la colonna d'attacco.
Essi, invece di esporsi al tiro
di quelle infallibili carabine, avevano trascinato il pezzo d'artiglieria
vicino alla porta, e siccome l'elefante, ormai quasi interamente distrutto
dalle granate, non impediva più il puntamento, si preparavano a mitragliare i
difensori della sala.
- Ecco la fine! - disse Yanez,
che si era accorto della manovra. - Cerchiamo di morire da prodi. -
Una bordata di mitraglia scrosciò
sugli avanzi della barricata, fulminando Burni che si era avanzato per vedere
come stavano le cose.
Seguì una seconda scarica che fece
cadere un altro malese, poi il parlamentario tornò a mostrarsi fra il corpaccio
dilaniato dell'elefante, gridando per la seconda volta:
- Il rajah mi manda per intimarvi
la resa. Se rifiutate vi stermineremo tutti. -
La difesa era insostenibile.
- Noi siamo pronti ad arrenderci,
- rispose finalmente il portoghese, - a condizione però che i miei uomini
abbiano, al pari di me, la vita salva.
- Il mio signore te lo promette.
- Ne sei ben certo?
- Mi ha dato la sua parola.
- Eccomi. -
Balzò sopra gli avanzi della
barricata seguito dai suoi malesi, superò l'elefante e saltò sul gradino,
fermandosi dinanzi al cannone ancora fumante.
Il cortile era pieno di seikki ed
in mezzo a loro si trovava il rajah coi suoi ministri, i quali reggevano delle
torce.
Yanez gettò a terra la carabina,
respinse gli artiglieri che cercavano di afferrarlo e mosse verso il principe a
testa alta, colle braccia strette sul petto, dicendo con un accento sardonico:
- Eccomi Altezza. I seikki hanno
vinto l'uccisore di tigri e di rinoceronti, che esponeva la sua vita per la
tranquillità dei vostri sudditi.
- Tu sei un valoroso, - rispose
il rajah evitando lo sguardo fiammeggiante del portoghese. - Poche volte mi
sono divertito come questa sera.
- Sicché Vostra Altezza non
rimpiange i seikki, che sono caduti sotto il mio piombo.
- Li pago - rispose brutalmente
il principe. - Perché non dovrebbero distrarmi?
- Ecco una risposta degna d'un
rajah indiano, - rispose Yanez ironicamente. - Che cosa farete ora di me?
- A questo penseranno i miei
ministri, - rispose il principe. - Io non voglio avere questioni col
governatore del Bengala. T'avverto però che finché non si saranno decisi, tu
sarai mio prigioniero.
- Ed i miei uomini?
- Li farò rinchiudere intanto in
una stanza appartata.
- Assieme a me?
- No, mylord, almeno per ora.
- Perché?
- Per maggior sicurezza. Siete
uomini troppo astuti voi per lasciarvi insieme.
- Avverto però V. A. che anche i
miei servi sono sudditi inglesi, essendo nati a Labuan.
- Io non so che cosa sia questo
Labuan, - rispose il principe. - Tuttavia terrò conto di quanto tu mi dici. -
Fece poi un segno colla mano e
tosto quattro ufficiali piombarono sul portoghese, afferrandolo strettamente
per le braccia.
- Conducetelo dove voi sapete, -
disse il rajah. - Non dimenticatevi però che è un uomo bianco e per di più un
inglese. -
Yanez si lasciò condurre via
senza opporre resistenza.
Era appena entrato in una delle
sale pianterrene, quando i seikki si scagliarono, coll'impeto di belve feroci,
contro i tre malesi, strappando a loro di mano le carabine e legandoli
solidamente.
Quasi nel medesimo istante, da
una delle ampie porte che s'aprivano sul cortile, usciva un colossale elefante,
montato da un cornac barbuto e d'aspetto feroce.
Appeso alla tromba reggeva un ceppo,
poco dissimile a quello su cui i macellai usano spaccare i quarti di bue. Quel
bestione era l'elefante-carnefice.
In tutte le corti dei principotti
indiani vi è un simile animale, ammaestrato sul miglior modo di mandare
all'altro mondo tutti coloro che danno ombra a quei crudeli regnanti.
Mentre i seikki si ritiravano per
lasciargli il passo, il gigantesco pachiderma depose, proprio nel centro del
cortile, il ceppo, posandovi poi sopra una delle sue zampacce, come per
provarne la solidità.
- Avanti il primo, - disse il
rajah che stava comodamente seduto su una poltrona, con un sigaro fra le
labbra. - Voglio vedere se questi uomini, che si battono col coraggio delle
tigri, saranno altrettanto coraggiosi dinanzi alla morte. -
Quattro seikki afferrarono uno
dei tre malesi e lo trascinarono dinanzi all'elefante, facendogli appoggiare la
testa sul ceppo e trattenendolo con tutto il loro vigore.
Il gigantesco carnefice, ad un
ordine del cornac, fece due o tre passi indietro, alzò la proboscide cacciando
fuori un lungo barrito, poi s'avanzò verso il ceppo, levò la zampa sinistra e
la lasciò cadere sulla testa del povero malese.
Il cadavere fu gettato da un
lato, e coperto con un largo dootèe; poi l'uno dopo l'altro, furono
giustiziati, nel medesimo modo, i due altri malesi.
- Teotokris sarà ora contento, -
disse il rajah. - Andiamo a riposarci. -
Cominciava allora ad albeggiare.
Egli si alzò e entrò in uno degli
edifici laterali, seguìto dai suoi ministri e dai suoi ufficiali, mentre i
seikki si preparavano a portare via i loro camerati, caduti sotto il piombo
delle tigri di Mompracem.
Il principe si era forse appena
coricato, quando un uomo entrava frettolosamente nel palazzo reale e saliva a
quattro a quattro i gradini, che conducevano nell'appartamento di Yanez.
Era Kubang che tornava, dopo aver
assistito all'attacco del palazzo di Surama, e alla fuga di Sandokan e di
Tremal-Naik verso il fiume.
Udendo bussare frettolosamente,
il chitmudgar, che dopo le prime fucilate sparate nella sala si era
precipitosamente rifugiato lassù, non osando prendere le parti del gran
cacciatore, aveva subito aperto.
Il pover'uomo, che da una
finestra che prospettava sul cortile d'onore, aveva assistito alla resa di
Yanez, e all'esecuzione dei tre malesi, era disfatto per l'intenso dolore e
piangeva come un fanciullo.
- Ah, mio povero sahib! - esclamò
vedendosi dinanzi Kubang; - vuoi morire anche tu, dunque?
- Che cosa dici chitmudgar? -
chiese il malese, spaventato dal pianto di quell'uomo.
- Il tuo signore è stato
arrestato.
- Il capitano! - esclamò il
malese facendo un salto.
- Ed i tuoi compagni sono stati
tutti giustiziati. -
Kubang diede indietro come se
avesse ricevuto una palla di fucile in mezzo al petto.
- Povera Tigre della Malesia! -
esclamò con voce strozzata, - povero capitano Yanez! -
Poi rimettendosi prontamente e
afferrando strettamente le braccia del chitmudgar, gli disse:
- Narrami ciò che è avvenuto,
tutto, tutto. -
Quando fu informato del
combattimento avvenuto nella notte, il malese si passò più volte una mano sugli
occhi, strappando via qualche lagrima, poi chiese:
- Credi tu che il rajah
giustizierà anche il mio padrone? È necessario, prima che lasci questo palazzo,
che io lo sappia.
- Io non so nulla, tuttavia
secondo il mio modesto parere, il rajah non oserà alzare la mano su un mylord
inglese. Ha troppa paura del governatore del Bengala.
- Dove hanno rinchiuso il mio
padrone?
- Se non m'inganno devono averlo
condotto nel sotterraneo azzurro, che si trova sotto la terza cupola del
cortile d'onore.
- Un luogo inaccessibile?
- Sicuro di certo.
- Bene guardato?
- So che giorno e notte vegliano
dei seikki dinanzi alla porta di bronzo.
- Vi sono dei carcerieri?
- Sì, due.
- Incorruttibili?
- Eh, questo poi non lo posso
sapere.
- Sotto la terza cupola mi hai
detto?
- Sì, - rispose il chitmudgar.
- Potresti farmi uscire senza che
mi vedano?
- Per la scala riservata ai
servi, che mette dietro il palazzo.
- Un'ultima domanda.
- Parla, sahib.
- Dove potrei rivederti?
- Ho una casetta nel sobborgo di
Kaddar, che è tutta dipinta in rosso, ciò che la fa spiccare fra tutte le
altre, che sono invece bianchissime, e dove tengo una donna che mi è assai
affezionata e che due volte alla settimana posso vedere. Là potrai trovarmi
quest'oggi, dopo mezzogiorno.
- Tu sei un brav'uomo, - disse il
malese. - Ora fammi fuggire.
- Seguimi: il sole è appena sorto
ed i servi non si saranno ancora alzati. -
Attraversarono un piccolo
terrazzo che s'allungava sul di dietro dell'alloggio di Yanez, si cacciarono
entro una scaletta aperta nello spessore delle muraglie, e così stretta da non
permettere il passaggio che ad un solo uomo alla volta, e scesero nei giardini
del rajah, che avevano una notevole estensione e che, stante l'ora mattutina,
erano deserti.
Il chitmudgar condusse il malese
verso una porticina di metallo, adorna delle solite teste di elefante e l'aprì,
dicendogli:
- Qui non vi sono sentinelle. Ti
aspetto nella mia casetta. Io mi sono affezionato al tuo padrone e tutto quello
che potrò fare per liberarlo dalla sua prigionia, te lo giuro su Brahma, mio
sahib, lo tenterò.
- Tu sei il più bravo indiano che
io abbia conosciuto fino a oggi, - rispose Kubang, commosso. - Il padrone, se
un giorno sarà libero, non ti dimenticherà. -
S'avvolse nel dootèe e
s'allontanò frettolosamente, senza volgersi indietro, avviandosi verso la casa
di Surama, colla speranza d'incontrare in quei dintorni qualcuno di sua
conoscenza.
Stava per giungervi scorgendo già
le ultime colonne di fumo che s'alzavano sopra le rovine del palazzo,
interamente divorato dal fuoco, quando un uomo che veniva in senso contrario
con molta premura, gli sbarrò bruscamente il passo.
Kubang, già troppo esasperato
dalla catastrofe che aveva colpito il suo padrone, stava per sparare una
pistolettata sull'insolente, quando un grido di gioia gli sfuggì:
- Bindar!
- Sì, sono io sahib, - rispose
subito l'indiano. - Surama e la Tigre della Malesia sono ormai in viaggio per
la jungla di Benar e venivo ad avvertire il tuo padrone.
- Troppo tardi, amico - rispose
Kubang con voce triste. - Egli è prigioniero ed i miei camerati sono stati
massacrati. Pare che tutto sia stato scoperto e che quel cane di greco sia
vincitore su tutti.
Non perdere un momento, va' a
raggiungere subito la Tigre della Malesia e avvertilo subito di quanto è
avvenuto.
- E tu?
- Io rimango qui a sorvegliare il
greco. Ho modo di sapere quello che può accadere alla corte. La mia presenza in
Gauhati può essere più utile che altrove.
- Hai bisogno di denaro? Ho riscosso
or ora per conto del capo.
- Dammi cento rupie.
- E dove potrò io trovarti?
- Nel sobborgo di Kaddar vi è una
casetta tutta rossa, che appartiene al chitmudgar, che era stato messo a
disposizione del capitano Yanez. Là andrò a stabilirmi.
Ora parti senza indugio e va' ad
avvertire la Tigre. Quell'uomo libererà di certo il capitano. -
Bindar gli contò le cento rupie,
poi partì a corsa sfrenata dirigendosi verso il fiume, dove contava di
acquistare o di noleggiare qualche piccolo battello.
Kubang proseguì il suo cammino
per raggiungere il borgo, il quale trovandosi lontano dal palazzo reale, aveva
meno probabilità, in quel luogo, di venire scoperto.
Sua prima cura però fu quella di
entrare da un rigattiere baniano e di cambiare il suo costume troppo vistoso,
con uno mussulmano; poi dopo d'aver fatto colazione in un modestissimo bengalow
di passaggio, riprese la marcia addentrandosi nelle tortuose viuzze della città
bassa.
Eccetto che nei grandi centri, o
nei dintorni dei palazzi reali o delle più celebri pagode, le città indiane non
hanno strade larghe.
La pulizia è una parola poco
conosciuta, sicché quelle viuzze, prive d'aria, sempre sfondate e polverose,
essendo rare le piogge, somigliano a vere fogne.
Una puzza nauseante si alza da
quei labirinti, anche perché di quando in quando si trovano delle vaste fosse,
dove vengono gettate le immondizie delle case, il letame delle stalle e le
carogne d'animali morti. Guai se non vi fossero i marabù, quegli infaticabili
divoratori, che da mane a sera frugano entro quei mondezzai, ingozzandosi fino
quasi a scoppiare.
Fu solamente verso le tre del
pomeriggio che Kubang, che aveva parecchie volte sbagliata via, non conoscendo
che imperfettamente la città, riuscì finalmente a scoprire la casetta rossa del
chitmudgar.
Era una minuscola costruzione a
due piani, che sembrava più una torre quadrata che una vera casa, che si
elevava in mezzo ad un giardinetto dove sorgevano sette od otto maestose palme,
che spandevano all'intorno una deliziosa ombra.
- È un vero nido, - mormorò
Kubang. - Speriamo che il proprietario vi sia già. -
Aprì il cancelletto di legno che
non era stato fermato e s'inoltrò sotto le piante.
Il maggiordomo stava seduto
dinanzi alla sua casetta, insieme a una bella e giovane indiana dalla pelle
vellutata, appena un po' abbronzata, con lunghi capelli neri adorni di
mazzolini di fiori.
- Ti aspettavo, sahib, - disse
l'indù muovendo sollecitamente incontro al malese. - Sono due ore che sono
giunto.
Ecco la mia donna, una brava
fanciulla, che sarà ben lieta di riceverti come ospite, se tu, come credo,
avrai intenzione di fermarti qui.
Almeno saresti sicuro,
specialmente ora che hai cambiato pelle.
- È una offerta che io accetto
ben volentieri, avendo dato appuntamento qui agli amici del mio padrone.
- Saranno sempre ben ricevuti da
me e dalla mia donna.
- Hai raccolte notizie sul
capitano?
- Ben poche. Posso solo dirti che
è sempre rinchiuso nel sotterraneo della terza cupola, però...
- Continua.
- Ho trovato il modo di poter far
pervenire a lui tue notizie, se credi che possano essergli utili.
- E come? - chiese il malese con
ansietà.
- Il rajah ha rinnovato i
carcerieri che vi erano prima, e uno è un mio parente.
- E si presterà al pericoloso
giuoco?
- È troppo furbo per lasciarsi sorprendere.
Con un po' di rupie, sarà a nostra disposizione.
- Dammi un pezzo di carta.
- Più tardi: ora pranziamo. -
|