Capitolo 7
In mezzo all’Atlantico
L’Oceano Atlantico, che gli arditi aeronauti stavano
per attraversare, è il più noto ed il più frequentato di tutti, quantunque sia
stato interamente percorso solamente dopo la scoperta dell’America.
La sua esistenza era già nota agli antichi; ma fino al
quindicesimo secolo, anzi più tardi, se ne ignoravano i confini. Oggi si
conoscono esattamente la sua superficie, che è stata calcolata di 79.721.274
chilometri quadrati, la sua lunghezza che tocca dal nord al sud i 13.335
chilometri e le sue maggiori larghezze, che variano fra i 3500 e i 3600 chilometri,
ed anche le sue profondità.
Anticamente si credeva che il fondo degli oceani, date
le loro immense estensioni, fossero dappertutto uguale. Gli scandagli eseguiti
con grandi fatiche, ma con molte cure, dalle navi da guerra delle nazioni
europee ed americane hanno invece dimostrato che quei fondi hanno pianure,
montagne ed abissi come tutti i continenti.
L’Atlantico specialmente non ha un fondo regolare:
tutt’altro. Generalmente le valli di questo oceano diventano più profonde di
mano in mano che si allontanano dai continenti; ma esso ha dei pianori che
conservano la loro profondità per parecchie centinaia di miglia, anzi per delle
migliaia. La parte centrale del bacino settentrionale, per esempio, è un
immenso pianoro di forma irregolare, che si mantiene a circa 2000 braccia sotto
la superficie delle acque e si alza lentamente verso le Azzorre, che possono
chiamarsi il punto culminante, e verso le Isole Britanniche, le quali si
trovano appoggiate sopra un banco che ha solo cento braccia di profondità; il che
giustamente fa supporre che quel banco, o piattaforma, non sia altro che una
parte sommersa dell'Europa. Ma se l’Atlantico ha grandi pianori che si
mantengono a una costante profondità, ha più baratri immensi, spaventevoli, sia
nel bacino settentrionale sia in quello meridionale. Fra le Isole Britanniche e
l’Islanda ne fu misurato uno che diede una larghezza di 1200 miglia e una
profondità di tre chilometri; a 130 chilometri da Porto Rico, un altro diede
8341 metri; un terzo a 0° 11, di latitudine sud, verso il Capo Verde, diede
7370 metri; un quarto, fra Madera e le Canarie, diede 5000 metri, e un quinto,
fra le Azzorre e la costa del Portogallo, altrettanti.
Quale terribile fine per gli aeronauti, se l’aerostato
fosse scoppiato bruscamente o si fosse lacerato sopra uno di quegli immensi
baratri!
Fortunatamente quel magnifico vascello aereo,
fabbricato dall'ingegnere con cura strema, dotato di uria forza ascensionale
così potente ed equilibrato come era, si comportava quanto e forse meglio di un
vascello galleggiante sull’acqua. Spinto dal vento, che si manteneva
costantemente favorevole, soffiando sempre dal sud-ovest, si librava ancora
alla stessa altezza: però fra breve avrebbe dovuto abbassarsi a causa del
restringimento dell’idrogeno, che è molto sensibile ai cambiamenti di
temperatura.
L’oceano aveva assunto una tinta cupa, e non si
udivano che i suoi brontolii. Pareva che sotto l’aerostato si stendesse un
immenso velo nerastro, o meglio uno strato di veli, il quale lasciasse
trasparire, di quando in quando, dei vaghi riflessi, dovuti alle incerte luci
degli astri.
L’aria era di una purezza ammirabile, d’una
trasparenza cristallina, ed in alto scintillavano a milione le stelle, le quali
parevano seguissero il corso del vascello volante. All’orizzonte, una tinta
lievemente argentea annunciava il prossimo spuntare dell’astro notturno e si
rifletteva sulle lontane acque dell’oceano, che prendevano, in quella
direzione, una tinta madreperlacea d’un effetto ammirabile, veduta da
quell’altezza. O’Donnell, sorpreso e stupito, guardava quella scena senza
parlare, curvo sulla poppa del battello d’alluminio; Kelly continuava le sue
osservazioni e guardava particolarmente i suoi barometri per rendersi conto
della discesa dell’aerostato; il negro Simone, più che mai spaventato, batteva
i denti per il freddo, che diventava acuto, e per il terrore, tenendosi sempre
aggrappato, con la forza della disperazione, alle corde di sostegno.
“Tremila metri” disse ad un tratto l’ingegnere.
“E scendiamo ancora?”
“Sempre.”
“Che il nostro peso sia soverchio?”
“No: è l’idrogeno che si restringe per il freddo.”
“Che sfugga invece da qualche apertura?”
“Sentite odore di gas?”
“No.”
“Tutto dunque va bene.”
“Ma fino a quando scenderemo?”
“Lo sapremo più tardi.”
“Finiremo per toccare l’oceano?”
“Forse nelle notti seguenti; ma ora no: la forza
ascensionale del nostro aerostato è per ora troppo potente. Oh! Oh!”
“Cosa avete?”
L'ingegnere non rispose. I suoi occhi si erano fissati
sulle due bussole, e la sua fronte si era corrugata.
“Che la corrente da me studiata, e che soffiava
costantemente dal sud-ovest verso il nord-est, finisca qui?” mormorò. “Ciò
sarebbe grave.”
“Ma che cosa avete?” insistette l'irlandese. “Ho da
darvi una seria comunicazione, O’Donnell.” rispose l’ingegnere. “Noi abbiamo
virato di bordo, come dicono i marinai.”
“E cosa importa?”
“Voi sapete dove ci spingerà ora il vento?”
“Io no.”
“Intanto ci riconduce verso l’America.”
“In direzione del banco!”
“No: verso il nord-ovest, dritti allo stretto di
Davis, fra la Groenlandia ed il Labrador.”
“Brutta scoperta, in fede mia! Cosa pensate di fare?
Mi spiacerebbe assai ritornare nel Canada.”
“Se ci trovassimo vicini alla superficie dell’oceano,
getterei le mie ancore: ma siamo tanto alti che tutte le nostre funi riunite
non toccherebbero l’acqua.”
“E non ci si può abbassare di più?”
“Sì, ma dovremmo sacrificare una parte del nostro gas,
e capirete che per noi è troppo prezioso per lasciarlo fuggire.”
“A quale distanza ci troviamo dal banco di Terranova”
“A centosettanta miglia.”
“E ritorniamo?”
“Con una velocità di sessanta miglia all’ora.
Continuando in questa nuova direzione, avvisteremo il Labrador fra quattro o
cinque ore.”
“Dannato vento! Speriamo che cambi. Mister Kelly,
quantunque non mi dispiaccia di andare al polo invece che in Europa. Sarebbe
una magnifica scoperta.”
“Che per il momento lascio ad altri, O’Donnell, non
avendo portato con me vesti adatte a quei terribili freddi, né una cucina
portatile per farci qualche bevanda calda. Se il vento ci spinge in quella
direzione, scenderemo alla prima terra e riprenderemo il tentativo più tardi,
su un’altra costa.”
“Mi spiacerebbe assai.”
“E anche a me. Speriamo però che la corrente si
ristabilisca col levar del sole.”
“Che la vostra corrente si mantenga a 3500 metri?”
“Può essere che al di sotto di quell’altezza ne esista
un’altra, quella che ora ci porta al nord-ovest.”
“Gettiamo zavorra e innalziamoci.”
“Sarebbe una grande imprudenza, O’Donnell: ci
priveremmo di un peso che più tardi potrebbe esserci di estrema necessità, e
quando il sole dilaterà il nostro idrogeno, noi saliremmo a tale altezza da non
poter resistere. A 8000 metri la rarefazione dell’aria è mortale, o poco meno;
a 9000 nessuno di noi resisterebbe.”
“Lasciamo dunque che il vento ci porti al nord-ovest,
e domani vedremo.”
“Continuiamo a scendere?”
“Sì,” rispose l’ingegnere. “E da questa discesa spero
assai di fermare l’aerostato. Eccoci già a 2500 metri, e non ci arrestiamo
ancora: l’idrogeno si raffredda rapidamente: tanto meglio!”
Infatti il pallone, o meglio i due palloni, a causa
dell’umidità della notte, che li rendeva più pesanti, e del freddo acuto che
restringeva l’idrogeno, calava a vista d’occhio, facendo dei bruschi salti. Si
arrestava un momento, poi scendeva, come se le sue forze venissero
improvvisamente meno e l’idrogeno perdesse la sua potenza ascensionale, poi
tornava a fermarsi per riprendere, qualche minuto dopo, le sue ricadute.
O’Donnell, quantunque avesse grande fiducia in quel
vascello aereo e nel suo inventore, cominciava a diventare inquieto. In quanto
a quel poltrone di Simone, ad ogni ricaduta mandava sordi gemiti e guardava con
occhi smarriti la cupa superficie dell’oceano, che si avvicinava rapidamente.
Quel povero diavolo si riteneva ormai perduto ed aspettava, con inesprimibile
angoscia, il momento in cui l’aerostato sarebbe stato inghiottito.
L’ingegnere invece era tranquillo, anzi benediceva in
cuor suo quell’umidità e quel freddo, che gli permettevano di gettare le sue
ancore e arrestare quella marcia verso regioni affatto opposte a quelle che
sperava di raggiungere.
Alle 9 di sera l’aerostato non era che a mille metri
dall’oceano. Si udivano distintamente i sordi muggiti delle cupe ondate, e si
distingueva nettamente la spuma che le copriva.
Alle 10 era a 500 e alle 11 e un quarto a 300. La
discesa si arrestò: l'equilibrio si era ristabilito.
“Giù le ancore” disse l’ingegnere.
“Avremo funi sufficienti?” chiese O’Donnell,
respirando liberamente.
“Unendo le tre funi delle guide-ropes e tutte
le altre, ne avremo a esuberanza.”
“Non scenderà più l’aerostato?”
“Non credo: anzi lo alleggeriremo d’un peso notevole e
lo costringeremo, per di più, a fermarsi. Aiutatemi, O’Donnell.”
I due grandi coni d’alluminio, della capacità totale
di quattrocentosessanta litri, vennero trasportati uno a prua e l’altro a poppa
e legati alle lunghe corde, che erano state rapidamente annodate.
L’ingegnere e l’irlandese, aiutati da Simone che si
era finalmente deciso a muoversi, calarono nell’oceano i due grandi coni, i
quali tosto si capovolsero, riempiendosi d’acqua.
L’aerostato scaricato di quel peso, tese subito le due
corde e interruppe bruscamente la sua fuga verso il nord-ovest. I due immensi
fusi virarono di bordo e si piegarono verso la direzione del vento; ma i due
coni tennero fermo, opponendo una resistenza incredibile.
Per alcuni istanti il vascello aereo rimase
perfettamente immobile; poi il vento, che urtava con violenza le sue immense
superfici, si diede a trascinarlo nella direzione primitiva. Ma la velocità
della marcia era minima: l'ingegnere constatò che l’aerostato percorreva a mala
pena tre miglia all’ora.
“Questo risultato sorpassa le mie previsioni” disse.
“In una sola ora di buon vento possiamo riguadagnare ciò che perdiamo in otto o
dieci ore di marcia contraria. Volete ora un consiglio, O’Donnell?”
“Parlate, Mister Kelly.”
“Avvolgetevi in una grossa coperta di lana e dormite,
finché Simone veglia. Non corriamo alcun pericolo e possiamo chiudere gli occhi
in attesa del nostro quarto di guardia.”
“Mi terrete compagnia?”
“Fino alla mezzanotte. Alle quattro del mattino voi mi
sostituirete.”
“Non domando di più. Buona notte, Mister Kelly, e se
vi occorre qualche cosa, tiratemi le gambe senza riguardo, o fatemele tirare da
Simone.”
I due aeronauti si avvolsero nelle loro coperte per
ripararsi dall'umidità e dal freddo della notte e s’addormentarono
profondamente, mentre il Washington filava lentamente verso nord-ovest,
trascinando le due ancore, che fendevano le onde con sordi fragori.
A mezzanotte Simone, che a poco a poco riprendeva
coraggio e che non aveva osato chiudere gli occhi per tema di svegliarsi in
fondo all’oceano, chiamò l’ingegnere.
“Nulla di nuovo?”chiese questi al negro.
“Nulla, massa” rispose l’interrogato.
“Andiamo sempre verso il nord-ovest?”
“Sì.”
“Va a dormire, e non fare brutti sogni.”
Si sedette a poppa del battello, accese una sigaretta
e gettò uno sguardo sull’oceano, che brontolava a meno di 250 metri di
distanza, mentre il raffreddamento dell’idrogeno continuava con l’abbassarsi
della temperatura notturna.
Nessun lume si scorgeva sulla nera superficie
dell’Atlantico.
Solo all’orizzonte le acque riflettevano il primo
quarto della luna, tingendosi di una luce biancastra, e la luce rossastra od
azzurrognola delle stelle prossime al tramonto.
Il silenzio era solamente rotto dal fragore prodotto
dalle ancore, che cercavano di opporre resistenza al vento, il quale spingeva
l’aerostato e dai brontolii sordi delle onde.
Alzò il capo e vide i due immensi fusi dondolarsi
lentamente con le punte volte verso il nord-ovest. Il vento produceva dello
pieghe sulla loro superficie, ingolfandosi nella seta; ma era debole e non
poteva produrre alcun guasto. L’ingegnere avrebbe potuto eliminarle, gonfiando
i due palloncini con la piccola pompa premente, ma non essendovi alcun
pericolo, sarebbe stata una fatica vana. Più tardi, il calore solare si sarebbe
incaricato di rendere lisce quelle superfici.
L’ingegnere continuò a fumare tranquillamente, dolcemente
cullato dalla navicella, che il vento faceva oscillare, in attesa di venire
sostituito dall’irlandese, il quale russava sonoramente sotto un banco,
strettamente avvolto nella sua coperta di lana.
Già verso l’oriente una luce incerta cominciava ad apparire,
tingendo il cielo di riflessi madreperlacei e facendo impallidire gli astri,
quando l’ingegnere fu bruscamente strappato dalle sue meditazioni da un lontano
muggito, che pareva si avvicinasse rapidamente.
Si alzò e guardò sotto di sé; ma nulla scorse sulla
nera superficie dell’oceano. Girò intorno lo sguardo e vide, verso l’ovest, tre
punti luminosi solcare l’orizzonte con fantastica celerità.
“Uno steamer,” mormorò “una nave che va in
Europa, o che si dirige verso gli stabilimenti della baia di Hudson.”
Ad un tratto mandò un grido. Una fiamma rossa era
balenata fra quei tre punti luminosi, seguita poco dopo da una detonazione, e
un proiettile era passato, fischiando, fra i due aerostati, ricadendo in mare
con un sordo tonfo.
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