– Ve lo prometto – rispose
Faja.
 –
Prendete ora queste cinquecento piastre che dividerete coi vostri
pescatori, ed ora addio. Se non torneremo più sulla terra,
avremo dimostrato la possibilità di conquistare gli altri
mondi.
Strinse la mano all'alcade,
salutò gli isolani, che erano accorsi in buon numero sulla
spiaggia, poi raggiunse il suo compagno, chiudendo la porta della
cupola.
Faja ed i pescatori si erano
allontanati di parecchi metri, chiedendosi ansiosamente che cosa
stava per succedere; d'altronde l'irradiazione proiettata da tutti
quegli specchi era così ardente che le vesti degl'isolani
minacciavano di prender fuoco.
I due scienziati, che si scorgevano
benissimo attraverso la cupola di cristallo, eseguivano delle manovre
misteriose attorno a certi apparecchi che rassomigliavano a piccole
macchine a vapore, prive di camini.
Ad un tratto, gl'isolani videro le ali
che si trovavano intorno alla cupola, un po' sotto gli specchi,
girare vertiginosamente e la macchina intera inalzarsi con la
rapidità d'un uccello marino.
Scintillava come una massa di fuoco,
lanciando in tutte le direzioni fasci di luce accecanti che
impedivano quasi di osservarla, s'alzava sempre sopra l'isola,
mantenendo una verticale quasi perfetta.
Per parecchi minuti Faja ed i suoi
compagni poterono seguirla con gli sguardi, riparandosi gli occhi con
le mani, poi scomparve fra la luce solare come se si fosse fusa.
Indarno essi l'attesero, credendo di
vederla da un momento all'altro precipitare sull'isola o sul mare.
La notte scese e la cupola non fu più
veduta tornare.
Viaggiava fra gli spazi sconfinati del
cielo, oppure era caduta sull'oceano ad una grande distanza? Mistero!
Trascorse una settimana, poi un'altra,
infine molte altre senza che alcuna nuova pervenisse a Faja. A poco a
poco i due scienziati furono dimenticati e più nessuno ne
parlò. D'altronde tutti erano convinti che essi fossero caduti
in mare e che fossero già morti.
Tre mesi erano passati, quando un
giorno gl'isolani videro accostarsi all'isola, a tutto vapore, una
piccola nave da guerra della Marina spagnuola, che pareva provenisse
da Lanzarote, una delle più importanti isole del gruppo delle
Canarie.
Faja, che si trovava sulle rive
occidentali dell'isola, occupato a pescare, subito avvertito, era
accorso alla baia per ricevere il comandante della nave che
rappresentava per lui la patria lontana.
Era appena giunto, quando una
scialuppa montata da dieci marinai e dal capitano del bastimento
prese terra.
– Chi è l'alcade?
– chiese il comandante.
– Sono io, signore –
rispose Faja.
– Siete possessore d'un
documento consegnatovi tre mesi or sono dai signori Carvalho e Souza?
– Due scienziati brasiliani?
– Sì – rispose il comandante.
– L'ho io.
– Mandatelo a prendere e
raggiungetemi sulla mia nave.
Un quarto d'ora dopo Faja saliva sulla
piccola nave da guerra, portando il cilindro di metallo che non aveva
mai osato aprire, quantunque più volte ne avesse provato il
desiderio, vinto da una curiosità del resto perdonabile.
Il comandante lo aspettava nella sua
cabina, tenendo in mano un lungo cilindro di metallo, accuratamente
chiuso ed eguale in tutto e per tutto a quello che aveva ricevuto
Faja dai due scienziati brasiliani.
– Ascoltatemi – disse il
capitano, dopo d'averlo pregato di sedere. – Un mese fa, una
nave francese, che veniva dai porti dell'America del Sud, rinveniva a
quattrocento miglia dalle coste del Portogallo questo cilindro
galleggiante sull'Oceano e contenente un documento benissimo
conservato. Sapete leggere il portoghese?
– Sì, signore –
rispose Faja.
– Leggete – disse.
Faja, con uno stupore facile ad
immaginarsi, lesse le seguenti parole:
«Lanciato sulla terra a
novemilacinquecento metri. La nostra macchina funziona sempre
perfettamente, mercè il calore proiettato dai nostri specchi e
condensato nei nostri motori.
«Se nulla accade di contrario,
noi fra tre ore avremo lasciato la zona d'aria respirabile e
continueremo la nostra ascensione verso la luna o verso un astro
qualsiasi.
«Se non potremo mai più
tornare sulla terra o se il freddo ci assidererà, come
temiamo, chi vorrà sapere chi noi siamo e con quale macchina
ci siamo alzati, si rivolga all'alcade di Allegranza (isole
Canarie), a cui abbiamo rimesso i nostri documenti prima di lasciare
definitivamente la terra.
«Carvalho e Souza»
«Membri dell'Accademia
Scientifica di Rio de Janeiro».
– Che cosa ne dite? –
chiese il comandante.
– Che ciò che hanno
scritto quei due scienziati è perfettamente vero –
rispose Faja.
– Questo documento –
riprese il comandante – è stato rimesso al Governo
spagnuolo, perchè cercasse spiegare questo mistero, e per
ordine del Ministero della Marina sono qui venuto per accertare se
questi documenti realmente esistono.
– Quei due scienziati sono
partiti tre mesi or sono, su una macchina in forma di cupola, munita
di specchi immensi e di certe ali in forma di eliche, e tutti
gl'isolani hanno assistito all'innalzamento di quei due uomini.
– Vediamo questo documento.
Il comandante prese il cilindro e lo
svitò senza fatica, dopo d'aver spezzato quattro suggelli in
piombo che portavano le iniziali di Carvalho e di Souza. Dentro vi
erano quattro fogli in pergamena, accuratamente arrotolati e coperti
da una calligrafia eguale a quella che si scorgeva sul documento
raccolto in mare dalla nave francese. Un quinto, invece, conteneva un
disegno ben dettagliato d'una macchina che Faja riconobbe subito: era
precisamente di quella di cui si erano serviti i due scienziati per
inalzarsi.
Il capitano spiegò i fogli e
cominciò a leggere:
«Rio de Janeiro, 24 luglio 1887.
«La notizia della fondazione della Società solare,
costituitasi a Parigi, e la scoperta degl'insolatori, fatta
dall'americano Calver, ha suggerito a noi l'idea di costruire una
macchina che potesse funzionare senz'altro bisogno che del calore del
sole e permettere di tentare un'esplorazione nello sconfinato
firmamento.
Le splendide prove date
dagl'insolatori, che ora funzionano così magnificamente in
varie città africane, mettendo in moto delle macchine che
vengono usate per la distillazione dell'acqua, ci hanno convinti
della possibilità della cosa.
Dopo lunghi studi e lunghe esperienze,
noi siamo riusciti a costruire degl'insolatori di tale potenza, da
poter accumulare tanto calore da fondere perfino il ferro. Portare
l'acqua allo stato d'ebollizione anche la più intensa, e
mettere in moto delle macchine poderose senza aver bisogno del
carbone; era dunque un gioco per noi.
«Ottenuta la forza, abbiamo
costruito dei motori e quindi una macchina volante, munita di eliche
sufficienti per l'inalzamento.
«La riuscita è stata così
completa da tentare un grandioso progetto che da lunghi anni turbava
il nostro cervello: di muovere, cioè, alla conquista della
luna, o per lo meno di tentare un'esplorazione fuori dei confini
dell'aria respirabile.
«A tale uopo e per poter
resistere senza esporci ai freddi intensi che supponiamo, a ragione,
di dover sfidare nel nostro inalzamento, abbiamo munito la nostra
macchina volante di una cupola di cristallo, assolutamente chiusa,
portando con noi cilindri di ossigeno per rinnovare l'aria interna.
«Riusciremo nella nostra
temeraria impresa? Noi ne siamo fermamente convinti.
«I nostri insolatori ci
forniranno abbastanza calore per poter far funzionare le nostre
macchine anche di notte e per poter resistere ai grandi freddi, per
quanto intensi possano essere. Quindi non possiamo temere di morire
assiderati, nè di vedere le nostre macchine arrestarsi, il che
accadendo, il nostro viaggio terminerebbe in una spaventevole caduta.
Noi speriamo un giorno di ridiscendere
sulla terra. Se ciò non dovesse avvenire, considerateci pure
come morti.
«Carvalho e Souza»
Il capitano, terminata la lettura, si
era alzato, fermandosi dinanzi a Faja.
– Che cosa ne dite voi di tutto
ciò? – gli chiese.
– Io nulla posso dire, signore,
fuorchè d'aver veduto quei due scienziati inalzarsi dinanzi i
miei occhi. È a voi, signor comandante, che volevo chiedere se
credete che essi possano essere riusciti nel loro intento.
– Io sono convinto che non
abbiano potuto attraversare la massa d'aria che circonda la nostra
terra e che abbiano finito per ricadere, ammenochè continuino
a girare intorno al globo. Si faranno delle ricerche e vedremo se si
potrà sapere qualche cosa di quei due audaci.
La sera stessa la piccola nave da
guerra lasciava Allegranza, conducendo con sè l'alcade,
e faceva rotta per Cadice.
Il Governo spagnuolo e gli scienziati
d'Europa si erano già vivamente preoccupati per fare delle
indagini a fine di chiarire la sorte toccata ai due brasiliani, tanto
più che due altri documenti, affatto simili al primo, erano
stati pescati, uno nell'Atlantico meridionale e l'altro nell'Oceano
Pacifico a duecentocinquanta miglia dalle coste del Chilì.
Furono mandati ordini in tutte le
colonie e furono pregati i capitani delle navi di fare ricerche negli
oceani, con la speranza di trovare almeno qualche frammento di quella
macchina straordinaria, ma senza risultato.
Fu solo quattordici mesi dopo che si
potè sapere qualche cosa dell'esito di quel viaggio che aveva
tanto commosso il mondo scientifico.
Una nave inglese, proveniente dai
porti della Cina, aveva raccolto un uomo che aveva trovato su
un'isoletta disabitata delle isole Condor, a sud della penisola
indomalese.
Era un vecchio di sessanta e più
anni, che aveva il volto coperto da una lunga barba e non aveva
indosso alcun indumento.
Dapprima era stato preso per un
naufrago, poi da alcune frasi sconnesse il comandante della nave
aveva potuto capire che quell'uomo, che doveva essere diventato
pazzo, non era approdato su quell'isolotto con una nave, nè
con una scialuppa.
Asseriva di essere caduto dal cielo
dopo una lunga corsa attraverso gli spazi celesti, e di essere di
nazionalità brasiliana e di chiamarsi Souza.
Condotto a Calcutta ed interrogato
lungamente, aveva confermato, dopo lunghe esitazioni, quanto aveva
narrato al capitano che lo aveva trovato nell'isolotto deserto.
Disgraziatamente quell'uomo era pazzo
e non riusciva a dare chiare spiegazioni sul modo con cui era giunto
su quella terra. La sola frase che ripeteva, era sempre la medesima
– Sono caduto dal cielo.
Condotto a Rio de Janeiro, non fu
possibile stabilire se si trattava veramente del membro
dell'Accademia scientifica che quindici mesi prima era partito
assieme a Carvalho per tentare quel viaggio meraviglioso. Alcuni suoi
vecchi amici avevano affermato di riconoscerlo per Souza, altri lo
avevano negato; era bensì vero però che il viso del
povero pazzo era coperto di cicatrici che parevano prodotte da
profonde bruciature; e che dovevano renderlo irriconoscibile, anche
ai suoi stessi amici.
Ad ogni modo vani furono tutti i
tentativi per identificarlo.
|