Capitolo 9
Trascinati verso l'equatore
Durante quella seconda giornata il Washington
continuò a filare verso il nord-est, ma tendendo a prendere una direzione
decisiva verso l’est, seguendo il 48° parallelo.
Pareva che la grande corrente d’aria studiata
dall’ingegnere che si manteneva fra i 3000 e i 4000 metri, avesse la stabilità
costante dei venti alisei, i quali soffiano fra le coste d’Africa e d’America,
ma in direzione contraria. Ne avrebbe avuto anche la durata? Ecco quello che
l’ingegnere non sapeva: però sperava molto. L’oceano si manteneva sempre
deserto. Solamente gli uccelli marini lo solcavano, ma tenendosi sempre assai
lontani dal pallone, che forse scambiavano per qualche mostro di nuova specie.
Un grande albatros, le cui ali spiegate misuravano due metri e mezzo, spinto
dalla curiosità, s’alzò fino agli aerostati, descrivendovi attorno due giri; e
l’ingegnere, che temeva il robusto becco di quel volatile, che poteva lacerare
con somma facilità la seta, lo mise in fuga con un colpo di rivoltella.
Di quando in quando, dalla superficie dell’oceano si
vedevano emergere le teste di voraci pescecani, senza dubbio attirati
dall’ombra immensa che l’aerostato proiettava sulle acque. Quei mostri, che
misuravano perfino undici metri, mostravano le loro immense bocche irte di
formidabili denti e capaci di contenere un uomo intero ripiegato, e mandavano
rauchi sospiri, che facevano impallidire quel poltrone di Simone.
Verso le quattro pomeridiane, quando meno ci
pensavano, la corrente aerea, che fino allora si era mantenuta rapida,
spingendoli innanzi con la velocità di quarantadue miglia all’ora, bruscamente
si ruppe, o meglio si divise in due, una che tendeva a rimontare verso il nord,
l’altra che scendeva verso il sud-est. Il pallone, dopo essere rimasto alcuni
minuti quasi immobile, ritornò indietro, come fosse respinto da un’altra corrente
che soffiava dall’est, poi fu preso da quella che scendeva verso le regioni
calde e trascinato in quella direzione con una velocità di sessanta miglia
all’ora.
“Abbiamo virato di bordo?” chiese O’Donnell
all’ingegnere, che aveva la fronte aggrottata.
“Sì,” rispose questi, incrociando le braccia.
“E andiamo...?”
“Per ora scendiamo verso il tropico; ma poi...?”
“Non andremo a cadere sulle coste africane?”
“Chi vi dice che questa corrente non cambi? Se ci
porta fino ai venti alisei, noi torneremo verso l’America, poiché soffiano da
levante a ponente.”
“È una cosa grave, Mister Kelly.”
“Lo so.”
“Sperate in un cambiamento?”
“Spero.”
“Non si può tentare nulla per cambiare direzione?”
“Che cosa volete tentare se non abbiamo direzione
propria, né moto proprio? Dobbiamo lasciarci portare dalle correnti e finire
dove esse vorranno.”
“C’è pericolo che ci trascinino per l’Atlantico fino
all’esaurimento del nostro gas.”
“È possibile anche questo, O’Donnell. Fortunatamente
noi possediamo la scialuppa, e l’oceano non c’inghiottirà!”
“Che pensate di fare ora?”
“Nulla, fuorché di lanciare i miei due piccioni
messaggeri.”
“A quale scopo?”
“Ah! Non vi ho ancora detto che alcuni miei amici
attendono mie notizie per mettersi in mare e venire, all’uopo, in mio soccorso.
Hanno noleggiato un battello a vapore e si tengono pronti a salpare.
Apprendendo che noi andiamo verso il sud-est, metteranno la prora in quella
direzione per raccoglierci, se fossimo costretti a salvarci nella scialuppa.”
“Avete pensato a tutto, Mister Kelly.”
“Il vento poteva spingermi verso l’Atlantico
meridionale o verso il Polo Nord, mettendomi in grave imbarazzo. Un pallone,
per quanto ben costruito, non rimane in aria delle settimane, e il Washington
poteva vuotarsi prima di toccare terra e io cadere in mezzo all'oceano e forse
senza viveri.”
“Giungeranno fino all’Isola Brettone i vostri
piccioni?”
“Distiamo in linea retta circa ottocento miglia:
possono quindi, se non cadono sotto i colpi degli uccelli da preda, giungervi
in meno di tredici o quattordici ore, calcolando la loro velocità media di
sessanta miglia all’ora.”
“Non si stancheranno?”
“Hanno fatto delle traversate ben più lunghe i colombi
messaggeri.”
“È un mezzo di comunicazione ammirabile, Mister Kelly,
che fa molto onore a colui che per primo se ne servì.”
“È un mezzo antichissimo, O’Donnell.”
“Antichissimo? Io lo credevo affatto moderno.”
“Vi basti sapere che si servivano dei piccioni
messaggeri gli antichi greci. I ginnasti e i lottatori che prendevano parte ai
giochi olimpici, adoperavano i piccioni per avvertire i lontani parenti e amici
delle loro vittorie. Si sa che Anacreonte, il quale visse cinquecentotrent’anni
prima dell’era volgare, lasciò scritto che ai suoi tempi gli ateniesi si
servivano dei piccioni per corrispondere coi paesi lontani. Anche i romani
nelle guerre, e specialmente negli assedi, ne fecero uso.”
“In mancanza del telegrafo e delle ferrovie
adoperavano le ali dei volatili. Gli antichi non erano poi tanto indietro
quanto si dice.”
“Coi piccioni fu anche istituito un servizio regolare
di posta; e questo avvenne in Oriente, sotto il califfo Mustafà fra il 1170 e
il 1180. Venivano adoperati dei colombi della razza di Bagdad. Ma il merito di
aver introdotto un vero servizio postale, sotto la direzione di veri maestri di
posta, spetta al potente sultano Nur Eddin fra il 1146 e il 1174. Si dice che
quei volatili fossero così pregiati, che si pagavano perfino mille denari. Quel
servizio postale durò fino al 1258, cioè fino alla distruzione di Bagdad per
opera dei Mongoli. In Egitto invece la posta coi piccioni durò fino al 1500.”
“E in Europa, quando venne introdotta?”
“Nei primi anni di questo secolo, per opera
specialmente dei grandi banchieri. Si istituì un servizio postale regolare tra
Parigi, Bruxelles e Anversa e un altro tra Londra, Anversa e Colonia. In
quest’ultimo tragitto i colombi messaggeri impiegavano tutt’al più sei ore.
Tale metodo durò fino all'introduzione delle ferrovie, poi fu dimenticato: si
continuò tuttavia ad allevare i piccioni messaggeri, e nella guerra del 1870-71
tra la Francia e la Germania questi volatili resero grandi servigi. Fu col loro
mezzo e coi palloni che Parigi, assediata dal nemico, poté corrispondere con le
truppe dell’Ovest. Ora quasi tutti gli eserciti europei hanno dei piccioni viaggiatori.”
“E voi sperate di dare notizie ai vostri amici con
quelli che avete?”
“Sì, se giungeranno all’isola senza venire presi dagli
albatros o da qualche altro uccello di rapina. Affrettiamoci, O’Donnell: ogni
minuto che passa ci allontaniamo vieppiù dall’Isola Brettone.”
Aprirono con precauzione la gabbia e trassero i due
piccioni, ai quali l'ingegnere legò, sotto le ali, due biglietti accuratamente
arrotolati e sui quali aveva già precedentemente scritto un riassunto delle
vicende toccate all’aerostato e notato la sua direzione. Ciò fatto, li
lasciarono liberi. I due piccioni, che non dovevano trovarsi a loro agio a
quell’altezza, s’abbassarono precipitosamente verso la superficie dell’oceano,
e giunti a circa seicento metri si misero a descrivere parecchi giri
concentrici, come se fossero indecisi sulla direzione che dovevano prendere. Ad
un tratto partirono di comune accordo verso il nord-est, con estrema rapidità.
Alcune procellarie e alcuni alcioni si precipitarono verso di loro, attratti
forse dalla curiosità; ma rimasero subito indietro. Per alcuni istanti, sullo
sfondo azzurro cupo dell’oceano, si videro spiccare quei due punti bianchi, che
rimpicciolivano rapidamente, poi sparvero verso il lontano orizzonte,
confondendosi con le tenebre che cominciavano a calare.
“Buon viaggio, gentili messaggeri!” gridò O’Donnell.
“Quanto v’invidio le vostre ali!”
“E anch’io, O’Donnell!” disse l’ingegnere. “Se avessi
le loro ali, filerei verso l’Europa, mentre invece chissà dove andranno a
terminare.”
“Vediamo, Mister Kelly: quanti giorni credete che si
sosterranno i vostri palloni?”
“È impossibile precisarlo: tutto dipende dalle
circostanze e dalla impermeabilità più o meno esatta della nostra seta. Se
tutto va bene, gettando la nostra zavorra, che ha un peso considerevole, ed
adoperando il mio idrogeno compresso nei cilindri, io spero i sorreggermi una
dozzina e forse più di giorni.”
“In dodici giorni possiamo percorrere una distanza
immensa e toccare qualche terra.”
“Ma crederete che questa corrente d’aria si mantenga
regolare? Può spezzarsi, un’altra corrente spingerci verso l’ovest, una terza
più tardi verso l’est, un’altra al sud, una quinta al nord, e via di questo
passo. Noi possiamo errare innanzi e indietro, a destra e a sinistra,
attraverso l’immenso oceano, fino all’esaurimento del nostro gas e senza aver
incontrato una terra. Finché la corrente del nord-est si manteneva costante, io
speravo di giungere in Europa in pochi giorni: ora siamo in balìa dei venti e
nelle mani di Dio.”
“La prospettiva non è bella. Mister Kelly: ma nel caso
che la nostra situazione diventasse disperata e che l’aerostato si abbassasse
per non più rialzarsi, getteremmo l’ultima riserva. Sessanta chilogrammi sono
qualche cosa, per un pallone.”
“Di quale riserva intendete parlare?”
“Della mia, Mister Kelly. Per Bacco! Spiccherò un bel
salto e voi risalirete.”
“Siete pazzo, O’Donnell. Non avremo bisogno di
ricorrere a un sì terribile espediente. Ci rimane la scialuppa, e quella può
portarci tutti, comodamente, alla costa più vicina. Orsù, bando ai tristi
pensieri e mettiamoci a tavola.”
Mentre divoravano la cena, l’aerostato ricominciava la
discesa. La notte era calata, abbassando bruscamente la temperatura, e
l’idrogeno si condensava con pari rapidità. Alle nove il Washington da
3500 metri era disceso a soli 400. Colà una nuova corrente d’aria, che soffiava
radendo la superficie dell’oceano, lo avvolse e lo trascinò verso il sud con
una velocità di trenta chilometri all’ora. L’ingegnere che temeva di venire
trascinato nell’Atlantico meridionale ad incrociare i venti alisei, fece
gettare le ancore. Come la prima sera, Simone montò il primo quarto di guardia.
Alla mezzanotte lo sostituì O’Donnell, e alle tre del mattino l’ingegnere gli
diede il cambio. Il Washington filava lentamente verso il sud, con un
leggero dondolamento, e di quando in quando si abbassava di parecchi metri,
rimontando quasi subito. I due coni, trascinati, opponevano sempre una forte
resistenza.
Verso le cinque, mentre l’ingegnere stava accendendo
una sigaretta, l’aerostato provò una scossa così brusca da rovesciare alcuni
barili e parecchi altri oggetti. Il battello si era inclinato verso prua, e i
due immensi fusi si erano abbassati di parecchi metri, risalendo poscia
lentamente.
“Che cosa accade?” si chiese il Mister Kelly, al colmo
dello stupore. “Se non ci trovassimo in pieno oceano direi che il battello ha
urtato, ma contro che cosa?” Guardò attorno e non vide nessun ostacolo.
L’atmosfera sola circondava il vascello aereo. Alzò il capo e s’accorse che i
due palloni erano immobili; sentiva la brezza mattutina sibilare attraverso i
cordami.
“Cosa può averci arrestati?” si domandò, maggiormente
stupito. “Che i due coni si siano arenati su qualche banco situato a fior
d’acqua?” Stava per spiegare la carta dell’Atlantico settentrionale, al fine di
accertarsi se in quella latitudine e longitudine segnalasse qualche scoglio o
qualche banco, quando una seconda scossa, più violenta della prima, lo atterrò.
L’inclinazione della scialuppa verso prua fu tale, che O’Donnell e il negro
Simone rotolarono l’uno addosso all’altro.
“By God! “esclamò l’irlandese, sbarazzandosi
precipitosamente della coperta di lana che lo copriva. “Si cade?”
“Massa!...massa! Aiuto!” si mise a strillare
Simone, il quale credeva che il pallone precipitasse nell’oceano.
“Il caso è strano!” esclamò l’ingegnere, che si era
prontamente rialzato. “Se le mie ancore fossero munite di punte, si potrebbe
supporre che qualche pescecane avesse addentato qualche braccio; ma sono coni
lisci.”
“Un pescecane?” chiese O’Donnell. “Siamo presi a
rimorchio, Mister Kelly?”
“No, poiché siamo perfettamente immobili.”
“Che cosa accade dunque?”
“Ecco quello che cerco di spiegare, ma invano,
O’Donnell.”
“Diamine! che qualcuno si sia aggrappato ai coni?”
“Chi mai?”
“Non vedete alcuna nave?”
“No, non vedo che l’oceano.”
Un’altra scossa fece inclinare i due aerostati verso
la prua. Non vi era più da dubitare. Qualche mostro aggrappatosi al cono che
era stato calato a prora del battello cercava di trascinare con sé il Washington,
il quale, però, data la sua forza eccezionale, non cedeva, tornando sempre al
precedente livello. Quelle scosse potevano causare qualche grave danno: o
guastare la seta dei due fusi, o spezzare le funi, o disarticolare la
scialuppa. I tre aeronauti afferrarono la guide-rope di prua e operarono
una energica trazione, ma il mostro che imprimeva all’aerostato quelle scosse
doveva essere estremamente pesante e dotato di una forza eccezionale, poiché
non abbandonò il cono.
“Ma in che modo è rimasto aggrappato?” chiese O
Domiell. “Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?”
“Un pescecane non può avere tale gola da
assorbire un cono che contiene duecento trenta litri.”
“Sarà una balena.”
“Nemmeno, poiché la balena ha il canale
tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro
braccio.”
“Sarà un capodoglio. So che quei cetacei
hanno delle gole enormi.”
“A quest’ora ci avrebbe trascinati
sottacqua o avrebbe troncato la fune.”
“Ma quale mostro volete che sia?”
“Non lo so.”
“Che cosa decidete di fare? Tagliare la
corda e abbandonare l’ancora?”
“Sarebbe una grande imprudenza perdere uno
dei nostri coni. Manderò Simone a vedere.”
“Lui!... quel pauroso!... Con il vostro
permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly.”
“Ci sono trecentocinquanta metri da
discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O’Donnell.
Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono
senza stancarsi.”
“Ma come salirà poi?”
“Lo solleveremo noi fino alla navicella,
ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa
accade laggiù.”
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