Capitolo 19
Il naufrago
Il Washington pareva aver incontrato una buona
corrente aerea. Infatti, la sua velocità, che poche ore prima era di dieci o di
dodici chilometri, aumentava di minuto in minuto, allontanandolo da quella pericolosa
zona delle calme del Tropico e lo trascinava non più verso le regioni ardenti
dell'equatore, ma verso climi più freschi, essendo cambiata la sua direzione.
Ora filava con una rapidità di 42 chilometri all’ora,
tendendo ad avvicinarsi alle coste settentrionali dell’Africa e più
precisamente a quelle dell’Impero marocchino o del gran deserto del Sahara. È
vero che la distanza da superare era immensa poiché, secondo l’ultimo calcolo
fatto dall'ingegnere avevano raggiunto appena il 21° meridiano, ma con
l’aerostato si possono superare in sole dodici ore parecchie centinaia di
miglia, anche con vento moderato.
“Se continuiamo così,” disse l’ingegnere
all’irlandese, che aveva finito di mangiare e che ora fumava un’eccellente
sigaretta, comodamente sdraiato a prua, “vi prometto di farvi vedere ben presto
terra.”
“La costa africana?”
“Non ho questa pretesa, O’Donnell, ma se il vento si
mantiene stabile, noi avvisteremo domani sera o dopodomani, le prime Canarie.”
“Siamo spinti verso quelle isole?”
“Sì.”
“Bella occasione per andare a vuotare una bottiglia di
eccellente Madera.”
“Beone!”
“Quanto distiamo dal continente africano?”
“Circa 1400 miglia in linea retta, ma noi seguiamo ora
una linea obliqua che raddoppierà la distanza”.
“Una miseria per il nostro pallone. Per Giove e
Saturno, è stata una grande e meravigliosa invenzione quella dei palloni,
Mister Kelly.”
“Lo credo, O’Donnell.”
“È ai fratelli Montgolfier che si deve il merito della
scoperta?”
“Spetta a loro il merito di aver fatto librare il
primo pallone, ma prima di essi altri valenti uomini avevano cercato di
innalzarsi nelle alte regioni dell’aria, e forse non sono riusciti per il poco
sviluppo raggiunto ai loro tempi dalla fisica e dalla meccanica. Come sempre,
gli italiani, che furono alla testa di ogni scoperta, figurano tra i primi ed è
uno dei loro grandi uomini, Leonardo da Vinci, che espresse la possibilità di
mantenersi in aria. Francesco Lana, anche questi italiano, nel 1670, in una sua
memoria pubblicata nella città di Brera, proponeva di fare il vuoto entro due
solidissime lastre di rame assicurando che si sarebbero innalzate. Poi vengono
gli inglesi, Cavendish nel 1766 dimostra che l’aria infiammabile è più leggera
dell’atmosfera; Black nel 1767 asserisce che un pallone si sarebbe innalzato.
L’onore di lanciare il primo spetta a un italiano, Cavalli, nel 1782, ma la sua
scoperta viene soffocata dall’entusiasmo suscitata dai fratelli Giacomo e
Giuseppe Montgolfìer i quali, il 5 giugno 1783, cioè un anno dopo, lanciano la
prima mongolfiera ad aria calda.”
“Ma allora il merito di aver innalzato il primo
pallone spetta a Cavalli e non ai fratelli Montgolfìer?”
''Sì O’Donnell, ma gli italiani hanno sempre avuto la
disgrazia di non far valere i meriti delle loro invenzioni e di lasciarsele poi
rubare dagli stranieri. Ai francesi spetta invece il merito di aver dato una
grande spinta alla meravigliosa scoperta, e primi fra tutti figurano Blanchard
e Pilâtre. Questo Blanchard, un astuto e audace normanno, pretendeva anzi di
aver trovato il modo di dirigere i palloni.”
“Ma se questo modo non si è trovato nemmeno oggi!”
esclamò O’Donnell.
“Eppure Blanchard diceva di averlo trovato e per
dimostrarlo intraprese la traversata della Manica. Dotato di una certa
immaginazione, munisce il suo pallone di una specie di parapioggia, la sua
navicella di un timone e di remi che erano mossi da una manovella di sua
invenzione, e fa le prime ascensioni, le quali naturalmente lo persuadono
dell’inutilità dei suoi oggetti. Nondimeno assicura di aver ottenuto dei
brillanti successi e il 7 gennaio 1785 s’innalza sulla roccia di Shakespeare,
sulle rive inglesi della Manica, in compagnia del dottor Jeffrey, prendendo con
sé un sacco di dispacci. Quella volta però al suo parapioggia aveva sostituito una
specie di ventilatore, ripromettendosi di operare meraviglie. Il vento li
spinge sopra la Manica, ma per errore di equilibrio, gli aeronauti sono
costretti a gettare subito dieci sacchi di zavorra, poi gettano i viveri, le
tappezzerie di seta della navicella, i loro mantelli e finalmente anche quel
famoso ventilatore, i remi e il timone che essi sapevano essere di nessuna
utilità, e discendono a Calais, dopo aver seguito semplicemente il filo del
vento. Blanchard proclamò sfrontatamente di aver scoperto il modo di dirigere
gli aerostati e il pubblico ebbe il torto di credergli. Gli abitanti di Calais
gli conferirono la cittadinanza, quel Consiglio municipale acquistò ad alto
prezzo il pallone che si conserva tuttora nel Museo di quella città, fu eretta
una colonna in memoria di quella traversata e il re di Francia assegnò al furbo
aeronauta una pensione annua di mille scudi. Quella semplice traversata bastò
per rendere Blanchard celebre e in seguito milionario.”
“Che cosa saremmo diventati noi se avessimo annunciato
ed eseguito, a quei tempi, la traversata dell'Atlantico?”
“Uomini immortali, O’Donnell,” disse l’ingegnere
ridendo.
“E invece ci prendono a cannonate!”
“L'italiano Zambeccari, lo sventurato aeronauta che
morì bruciato, un uomo intelligente e ardito, tiene uno dei primi posti tra i
primi navigatori dell’aria, per le sue innumerevoli ascensioni e le sue
scoperte. Egli diede ai palloni e alle mongolfiere esatte proporzioni, regolando
la forza ascensionale degli uni e delle altre, e modificò notevolmente il
sistema adottato da Pilâtre, sostituendo alla paglia, che questi bruciava nel
camino per dilatare il gas, una lampada ad olio minerale, ed eliminando il tubo
conduttore, avendo constatato la sua assoluta inutilità. Poi viene Robert, poi
altri italiani, i Lunardi, gli Andreoli e tanti altri, che apportarono dei
miglioramenti negli aerostati e si studiarono di cercarne, ma senza
soddisfacenti risultati finora, la direzione.”
“Una domanda. Mister Kelly.”
“Parlate.”
“Se si costruisse un pallone immenso, di una forza
ascensionale enorme, potrebbe giungere fino alla luna?”
“Avete intenzione di andarvi a stabilire sulla luna,
O’Donnell?” chiese l’ingegnere, schiattando in una fragorosa risata. “Il vostro
progetto sarebbe inattuabile, amico mio, perché pare che a una certa altezza
l’idrogeno si tramuti in aria calda.”
“Per quale motivo?”
“I fisici non sono ancora riusciti a spiegare questo
strano fenomeno. Io so che fu lanciato un pallone dotato di una certa forza
ascensionale, privo della navicella e di aeronauti ma munito di strumenti atti
a precisare e a conservare le altezze che doveva toccare. Quell’aerostato
raggiunse i 20.000 metri, poi cadde precipitosamente, e quando fu ripreso si
trovò che conteneva aria calda.”
“Allora rinuncio al mio progetto, Mister Kelly,” disse
O’Donnell.
“Vi credo, tanto più che a 20.000 metri sareste morto
congelato e asfissiato, senza vedere la luna ingrandita di un millimetro.”
Mentre così discorrevano, la notte era calata e
l’aerostato aveva ripreso la sua discesa con una certa rapidità, trovandosi nel
mezzo di una corrente di aria piuttosto fredda, quantunque non avesse
abbandonato gli ardenti paraggi del tropico. Alle nove aveva già toccato i
mille metri e non accennava ad arrestarsi; alle dieci, solo seicento metri lo
dividevano dall’oceano. O’Donnell, che era assai stanco si coricò a poppa,
mentre l’ingegnere si sedeva a prua fumando una sigaretta, in attesa che
trascorresse il suo quarto di guardia. Il vento si manteneva sempre fresco,
trasportando il Washington con la velocità di sedici miglia all’ora, ma
aveva subito una notevole modificazione nella direzione poiché ora soffiava
verso il nord.
Mister Kelly non si inquietava però, anzi si
rallegrava quantunque non si avvicinasse alle coste africane. Egli sperava di
raggiungere i paralleli europei e di trovare, più tardi, una corrente che lo
spingesse verso la Spaglia o il Portogallo.
Verso le undici, volendo guardare i suoi strumenti per
accertarsi dell’altitudine e della velocità del vento, accese una candela. Si
era appena alzato per accostarsi alla murata di babordo, alla quale erano
appesi gli strumenti, quando gli parve di udire echeggiare un grido. Sorpreso
al massimo grado, guardò in alto, credendo che lo avesse emesso qualche grosso
uccello marino, ma non vide nulla traversare il cielo stellato: guardò giù, ma
nulla distinse sulla nera superficie dell’oceano.
“È strano,” esclamò. “Che qualche nave passi sotto di
noi? Una nave! Ma si vedrebbero i fanali di posizione, mentre sull’oceano non
scorgo alcun punto luminoso.”
Ascoltò alcuni minuti, tendendo gli orecchi e questa
volta udì distintamente una voce umana che sbalzava dall’oceano.
“O’Donnell!” gridò.
L’irlandese che aveva il sonno leggero si svegliò bruscamente.
“Tocca il quarto?” chiese.
“Non ancora, ma volevo chiedervi se avete udito un
grido.”
“No, Mister Kelly: dormivo come un ghiro.”
“Udite...”
Un grido come una chiamata disperata, era giunto ai
loro orecchi. Pareva che venisse dal nord, cioè nella direzione in cui
l’aerostato veniva spinto.
O’Donnell benché non fosse superstizioso mormorò:
“Che sia la voce del negro?... Si dice che i morti
sull’oceano riappaiono.”
“Fole di marinai,” disse l’ingegnere.
“Ma chi supponete che sia? Qualche grosso pesce
forse?”
“No: era un grido umano.”
“Zitto...”
“Ancora?”
Nelle tenebre si udì distintamente una voce argentina,
una voce quasi da fanciullo, a gridare: “Help!... Help!”
Kelly
e l’irlandese si curvarono sul bordo della scialuppa e scrutarono avidamente la
nera distesa dell'Atlantico, sperando di scorgere qualche cosa, ma l’oscurità
era troppo intensa.
“È un inglese!” esclamò O’Donnell.
“O un americano,” disse l’ingegnere.
“E mi parve la voce di un fanciullo.”
“Forse è un naufrago.”
“E lo lasceremo perire, Mister Kelly?”
“Ah no!” Fece con le mani una specie di portavoce e
gridò con voce tonante: “Chi siete?”
“Un naufrago,” rispose la voce di prima.
“Siete solo?”
“Solo.”
“Potete mantenervi a galla fino all’alba?”
“Monto un canotto.”
“Siete un ragazzo?”
“Un mozzo.”
“Vi salveremo.”
“Grazie, buon signore!”
“Non perdiamo tempo, O’Donnell,” disse l’ingegnere.
“Il vento ci trasporta con notevole difficoltà e non bisogna scendere fuori di
vista.”
“Sacrificheremo dell’altro gas?”
“È necessario, O’Donnell. Fortunatamente l’idrogeno è
condensato, e non ne perderemo molto per abbassarci di cinque o di seicento
metri.”
Impugnò le due funicelle che pendevano dai due fusi e
con uno strappo aprì le due valvole di sfogo. Tosto in alto udirono dei leggeri
scoppiettii e si sparse intorno alla navicella un acuto odore d’idrogeno.
“Spegnete la candela,” disse l’ingegnere.
O’Donnell obbedì, poi calò le due àncore a
cono per rallentare la discesa e frenare il pallone. Il Washington si abbassava
con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici.
“Basta,”
disse l’ingegnere, lasciando andare le due funicelle.
Le due valvole si chiusero, ma l’aerostato continuò ad
abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero
e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri
dalla superfìcie dell’oceano.
“Vedete nulla?” chiese O’Donnell all’ingegnere che
aveva puntato un canocchiale da notte.
“Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera
scivolare sull’oceano.”
“È lontana?”
“Tre o quattro chilometri.”
“Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un
ragazzo si trova perduto in mezzo all’Atlantico e solo?”
“Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?”
“Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel
mozzo ?”
“Accendete una torcia: gli servirà da faro.”
La sottile striscia nera avanzava sempre verso il
pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche
nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia
di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la
quale manovrava i remi con grande energia.
“Coraggio, giovanotto!” gridò Mister Kelly.
“Grazie signore,” rispose il naufrago.
In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il
canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per
riposarsi, poi si arrampicò con l’agilità di un gatto e raggiunse la navicella.
O’Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella
scialuppa.
“Grazie,” ripeté il naufrago.
Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e
sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: “Da bere!... Da bere,
signori!... Muoio di sete!”
|