Capitolo 21
Madera
Se la corrente che li spingeva ora con grande celerità
verso nord-nord-est si manteneva costante, gli aeronauti, dopo tante pericolose
avventure passate in quei pochi giorni dacché erravano sopra l’immenso oceano,
potevano ancora sperare di raggiungere le coste europee e di sfuggire alla
grande corrente dei venti alisei, che scende lungo le coste africane, piegando
verso le coste americane all'altezza del Tropico del Cancro. Con una rapida
marcia di quarantotto ore e fors’anche meno potevano attraversare la distanza
che li separava dal primo parallelo europeo, che taglia dritto le colonne
d’Ercole o meglio lo Stretto di Gibilterra. Per un vascello, forse pure dotato
d’una macchina a vapore di grande forza, sarebbe stata una pazzia quella
speranza, ma con il loro aerostato, che procedeva con la velocità del vento,
quello spazio ancora immenso era cosa da poco. Bastava che quella velocità di
quarantadue chilometri non diminuisse. Il Washington però, perdeva
continuamente gas e non si manteneva a quell’altezza di 3000 metri che a grande
fatica. Di quando in quando faceva delle brusche cadute, quantunque da poche
ore fosse stato alleggerito di altri cinquanta chilogrammi di zavorra, e penava
assai a riprendere il livello iniziale. Le estremità dei due fusi cominciavano
a disegnare delle pieghe, che diventavano di ora in ora più considerevoli. E
bensì vero che gli aeronauti possedevano trecentocinquanta chilogrammi di
zavorra e trecento metri cubi di idrogeno, immagazzinati nei cilindri, tuttavia
erano inquieti, perché il vento poteva improvvisamente cambiare ancora
direzione e respingerli nell’Atlantico.
Alle quattro pomeridiane l’ingegnere vedendo che il Washington
pur continuando la sua rapida marcia, scendeva a vista d’occhio, temendo che
sotto quella corrente favorevole soffiassero gli alisei, si decise a
rinvigorire i palloni, introducendo nelle loro manichette cinquanta metri cubi
di idrogeno ciascuno. Quell’operazione, oltre a far sparire le pieghe,
contribuì ad accelerare la marcia, poiché essendo l’aerostato salito a 3000
metri, aveva acquistato una maggiore velocità, dato che la corrente a quella
considerevole altezza è più forte.
Verso le otto, un’ora prima che il sole tramontasse,
l’ingegnere segnalava un gruppo di isole, che spiccava nettamente sul fondo
ceruleo dell’oceano. Quelle isole erano il gruppo di Madera, diventato così
celebre per la squisitezza dei suoi vini, che godono di una fama mondiale. Si compone
di due terre: Madera propriamente detta, lunga 58 chilometri e larga 22, con i
161.000 abitanti, oriundi per la maggior parte portoghesi, con Funchal,
capoluogo, popolata da 25.000 anime, situata sulla costa meridionale, e Porto
Santo. Le altre sono semplici scogliere e si chiamano Desertas. Là si gode
un’eterna primavera, e molti sono gli ammalati, specialmente i tisici, che vi
si recano. Malgrado siano di natura vulcanica e l’acqua scarseggi, sono assai
fertili e, oltre al vino, producono in abbondanza biade, patate, canna da
zucchero, ma questi prodotti a poco a poco vengono abbandonati, essendo meno
remunerativi delle viti. Danno altresì castagne del legno detto sangue di
drago, e aranci, e l’oceano che le circonda è ricco di pesci, specialmente sardine,
che si prendono in grande quantità.
La scoperta di queste isole, quantunque così vicine
alle coste africane ed europee, si deve puramente al caso. È probabile che gli
antichi fenici e i Cartaginesi, che visitarono le Canarie, le abbiano vedute
molti e molti secoli prima, ma al pari di queste ultime rimasero ignote fino al
1344. Fu in quell’epoca che Roberto Macham, gentiluomo inglese, fu spinto dai
venti sulle spiagge di Madera, mentre fuggiva su di una nave con alcuni amici e
la figlia del duca di Dorset, che dal padre era stata costretta a sposare
forzatamente un alto dignitario del regno, mentre essa aveva giurato eterno
amore al giovane gentiluomo. La notizia della scoperta venne recata in Europa
dai compagni di Macham, dopo che questi e la sua amante erano morti.
Gli aeronauti, senza bisogno di cannocchiali,
distinguevano nettamente le due isole maggiori e le altre minori, essendo
l’orizzonte limpidissimo. Quantunque fossero lontani oltre ottanta miglia,
l’ingegnere additò ai suoi compagni il monte Ruino, che è il più elevato di
tutti.
“È laggiù che si raccoglie quel vino squisito, Mister
Kelly?” chiese l’irlandese.
“Sì, amico mio.”
“Ne producono molto quelle isole?”
“Quando le annate sono buone, quei vigneti danno circa
5000 pipe2, ossia 2.685.000 litri. Nel 1852 quelle isole corsero il
pericolo di perdere interamente i loro raccolti a causa della comparsa dell’oidium
tuckeri, ma gli abitanti vi posero riparo piantando i vitigni
americani.”
“Richiede
delle cure speciali quel vino per riuscire così squisito?”
“Quasi nessuna, O’Donnell. Basta esporlo per qualche
tempo a un’alta temperatura per renderlo più delizioso, e aggiungervi poi una
certa dose di alcool, circa dieci litri in ogni pipa. Anticamente anzi, perché
prendesse meglio il caldo, che non dev’essere inferiore ai 50°, s’imbarcavano
le botti piene di madera e si trasportavano al di là dell’equatore, e su quelle
botti gli inglesi, che hanno sempre esercitato l’esportazione di quel prezioso
nettare, applicavano un cartellino su cui era scritto: “Twice passed the
line” per indicare che aveva passato due volte la linea dell’equatore e che
quindi era perfettamente stagionato.”
“Che sia il terreno che rende così buono quel vino?”
Così deve essere, e pare che la sua fertilità derivi
da un terribile incendio che durò sette anni.”
“Ma chi lo accese?”
“I primi navigatori portoghesi: Zarco, Fechevra e
Pestrello, per distruggere i grandi boschi che coprivano Madera. Quelle ceneri
bastarono per concimare immensamente quei terreni.”
“E a chi venne in mente di piantare delle viti su
quelle isole?”
“Ai portoghesi, che piantarono nel 1425 alcune talee
fatte venire dall’isola di Cipro. In seguito ne piantarono altre di specie
diversa, ottenendo così parecchi tipi di vino.”
“Ma non sono molti anni che questi vini sono diventati
celebri.”
“Tutt’altro, caro amico. Fin dal 1445 il navigatore
veneziano Ca’da Mosto li fece conoscere, vantandone le squisitezze, e Francesco
I, re di Francia, che fu il primo che lo bevette in Europa e confermò la sua
straordinaria bontà, rendendolo di colpo famoso.”
In quell’istante l’aerostato virò bruscamente di
bordo, descrivendo mezzo giro su se stesso e imprimendo alla navicella un largo
dondolìo.
“Cadiamo?” chiesero O’Donnell e il mozzo.
“No,” rispose l’ingegnere; “ma...”
“Cambia la corrente?”
L’ingegnere rispose con un gesto disperato. Si
precipitò verso la bussola e impallidì. “Torniamo al sud!” esclamò con voce
sorda.
“Al sud!” esclamò O’Donnell. “Si è rotta la corrente?”
“Peggio ancora.”
“Che avviene dunque?”
“Una cosa assai grave: i venti alisei ci hanno
afferrato e ci respingono nell’Atlantico!”
“Per centomila corna di cervo!... Siamo perseguitati
dal destino?”
Per parecchi minuti un cupo silenzio regnò
sull’aerostato, che il vento trascinava con grande rapidità verso le regioni
equatoriali. L’ingegnere e l’irlandese si sentivano vinti e si chiedevano con
angoscia quale sorte doveva a loro serbare il destino, che pareva avesse
giurato la loro perdita, dopo aver fatto balenare in loro la speranza di
condurli verso le coste europee.
Se non sopraggiungeva un miracolo, la loro situazione
si poteva considerare disperata. La grande corrente degli alisei, che fino ad
allora avevano cercato di evitare, non li avrebbe più lasciati, e doveva
respingerli in mezzo all’Atlantico, per poi gettarli sulle lontane coste
dell’America centrale e forse su quelle del continente meridionale. Si
sarebbero mantenuti in aria tanto tempo da riattraversare l’oceano? Non era
possibile, coi mezzi limitati che ormai possedevano. Una caduta in mezzo
all’Atlantico ora sembrava inevitabile, e quale disastro allora, privi quasi di
acqua come erano!
L’ingegnere vinto dalla tristezza che lo invadeva, si
era lasciato cadere a prora della scialuppa, con la testa stretta fra le mani;
O’Donnell gettava sguardi disperati alle isole che sparivano a poco a poco fra
le tenebre calanti rapidamente come un branco di corvi; il solo Walter, il
povero mozzo raccolto morente sull’oceano, era tranquillo e pareva chiedersi il
motivo della disperazione che accasciava i suoi salvatori.
“Mister O’Donnell,” mormorò timidamente, “è forse il
peso della mia persona che ha prodotto il cambiamento di direzione
dell’aerostato?”
“No, povero ragazzo,” disse l’irlandese, sforzandosi
di sorridere. “È il vento che, invece di avvicinarci alle coste africane o
europee, ci trascina verso l’America.”
“Non possiamo fermarci, gettando l’ancora, e attendere
un vento più favorevole?”
“A quest’altezza è impossibile, Walter. Tutte le
nostre funi riunite non giungerebbero a toccare la superficie dell'oceano. Più
tardi, quando l’idrogeno si sarà condensato, cercheremo di fermarci.”
“Volete che annodi le funi?”
“Sì,” disse l’ingegnere scuotendosi. “Bisogna fermarci
e non lasciarci trascinare in mezzo all’Atlantico.”
“Sperate in un cambiamento di vento, Mister Kelly?”
chiese O’Donnell.
“Spero in un uragano.”
“Segna una vicina perturbazione il barometro?”
“L’ho notato stamane.”
“E romperà la grande corrente?”
“Lo spero, O’Donnell: se non sulla superficie
dell’oceano, forse in alto, a tremila, quattromila, a seimila metri, o più
sopra.”
“Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore,
sacrificando un po’ di gas?”
“Ora? Sarebbe un’imprudenza, amico mio, perdere
dell’idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l’Atlantico invece
di portarci verso l’Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington
per cercare in alto una nuova corrente.”
“Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister
Kelly.”
“Non importa: l’Africa l’abbiamo alla nostra sinistra
e per lungo tempo non l’abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle
coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che
l’Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le
àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo.”
“E se
quell’uragano ci spingesse invece all’ovest?”
“Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà.”
“Ritenete che il Washington non possieda forze
sufficienti per riattraversare l’Atlantico?”
“Lo dubito, O’Donnell. È vero che i venti, durante gli
uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano
le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri
mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all’oceano, a meno che qualche
nave non ci raccogliesse.”
“To’! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà
che non ci cerchino a quest’ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all’Isola
Brettone.
“Magra speranza, O’Donnell. L’Atlantico è immenso e i miei
amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che
sulle nostre forze.”
“Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si
condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la
discesa.”
“Ci troviamo in una corrente d’aria assai calda, e il
nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo,
O’Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le
funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni.”
Il Washington come aveva giustamente notato
O’Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse
abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando
verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all’ora. Se quel
vento non rallentava, il Washington doveva perdere l’intero vantaggio
acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che
aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa
dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o
trecentocinquanta metri all’ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava.
A mezzanotte l’ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si
scorgeva verso l’est.
“Una nave?” chiese O’Donnell.
“No,” rispose Mister Kelly, che aveva puntato un
cannocchiale in quella direzione. “È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di
Teneriffa o dell’isola del Ferro.”
“Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!”
Alle tre del mattino l’aerostato si trovava a soli
duecento metri dalla superficie dell’oceano. L’ingegnere fece gettare i due
coni, che si riempirono subito d’acqua, immobilizzando il vascello aereo.
“Riposiamo,” disse poi. “Non corriamo alcun pericolo.”
I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e
che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono
profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.
|