Capitolo 23
Gli ultimi sforzi del Washington
La situazione degli aeronauti del Washington diventava
di momento in momento più grave, e la riuscita della grandiosa traversata stava
per naufragare, quando già stavano per avvistare al costa del continente
africano.
Pareva
proprio che la fatalità perseguitasse quegli audaci figli dell’aria. Afferrati
dalla grande corrente degli alisei, che li trascinava verso il sud e che più
tardi doveva respingerli nell’Atlantico centrale, appena toccato il 30°
parallelo, potevano considerarsi come perduti.
Il Washington, già infiacchito dalla continua
perdita di gas, che ora diventava più rapida a causa di quelle disgraziate
palle, non doveva sorreggersi ancora molto. I suoi giorni, forse le sue ore di
vita erano contate. Fra breve, consumata la poca zavorra che ancora restava e i
pochi metri cubi d’idrogeno che possedevano nei cilindri, gli aeronauti
sarebbero caduti in mezzo all’immenso Atlantico per non più sollevarsi. È bensì
vero che possedevano la scialuppa, ma con quella scarsa provvista d’acqua si
preparavano per loro tristi giorni.
E la corrente lungi dal calmarsi, aumentava
rapidamente la corsa, come se fosse ansiosa di ricacciarli lontano da quelle
coste da loro tanto sospirate e delle quali avevano scorto le prime isole!
Quale ironia del destino!..
Il Washington filava alla velocità di
sessantadue chilometri all’ora, mantenendosi ad una distanza di circa
quattrocento chilometri dal continente africano. Alle otto aveva già raggiunto
il 20° parallelo e correva in direzione delle Isole del Capo Verde, che
dovevano fra breve comparire sull’orizzonte meridionale. Alle dieci
l’ingegnere, che interrogava ansiosamente la superficie dell’oceano, le segnalò
verso il sud-est. Apparivano come punti nebbiosi ma ingrandivano rapidamente,
prendendo maggior consistenza.
Quelle isole si trovano a circa 500 chilometri dalla
costa africana; esse sono quattordici ed hanno complessivamente una superfìcie
di 43.385 chilometri quadrati e una popolazione di 70.000 anime, per la maggior
parte negri. Sono isole di origine vulcanica, d’aspetto montuoso, coperte di
boscaglie, il clima è caldissimo e poco salubre. Malgrado ciò, producono riso,
granturco, banane, agrumi, poponi e anche dell’uva, che sotto quel clima
bruciante matura due volte all’anno. La loro principale ricchezza consiste però
nel sale, che gli abitanti ricavano in grande copia mediante l’evaporazione.
Se il Washington si fosse trovato sul filo
delle isole, l’ingegnere si sarebbe affrettato a scendere piuttosto di
lasciarsi trasportare in mezzo all’Atlantico, ma il vento lo spingeva fra esse
e la costa africana, mantenendolo ad una distanza di oltre quaranta chilometri
da Bonavista, che è l'isola più avanzata verso l’est.
Alle nove gli aeronauti distinguevano nettamente il
monte Fogo, che s’innalza per 2982 metri sull’isola omonima, e con l’aiuto dei
cannocchiali scorsero anche parecchi punti biancastri agitarsi sulle onde
dell’oceano e dirigersi verso di loro.
“Che quegli abitanti ci abbiano visti?” disse
O’Donnell.
“Lo credo” rispose l’ingegnere. “L’atmosfera è pura e
il nostro Washington si può distinguere ad una grande distanza.”
“Che
disgrazia il non poterci fermare!” disse O’Donnell, sospirando. “Saremmo certi
di venire raccolti.”
“Non possediamo più le àncore, mio povero amico.”
“Dannati naufraghi! Ci è costato caro, ben caro
l’averli aiutati!”
“E vero, O’Donnell, ma inutili sono i rimpianti.”
“Credete che quei naufraghi riescano a salvarsi?”
“Lo credo, avendoli incontrati a breve distanza dalle
Canarie; e poi questo tratto d’oceano è frequentato dalle navi a vela che
scendono fino alle isole del Capo Verde per approfittare degli alisei.”
“Potessimo incontrarne una anche noi!”
“Speriamo!”
“Continuando a scendere in questa direzione, non troveremo
più alcuna terra?”
“Nessuna. Ma la nostra direzione non tarderà a
cambiare, O’Donnell, e verremo spinti verso l’ovest.”
“Pure, Mister Kelly, mi sembra che il vento ci spinga
invece verso l’est. Guardate il monte dell’isola Fogo, che pare si allontani
sulla nostra destra.”
“By God!” esclamò l'ingegnere. “È vero.”
“Che qualche nuova corrente ci abbia presi?”
“Non lo credo, ma è un fatto, però, che noi ci
avviciniamo alla costa africana, descrivendo una linea obliqua. Che l’aliseo
vada ad urtare contro il Capo Verde, prima di piegare verso l’occidente?
Sarebbe una bella fortuna, amico mio.”
“Se giungeremo in tempo ad avvistarla.”
“Perché?”
“Perché cadiamo, e rapidamente Mister Kelly.”
“Ancora!” esclamò l'ingegnere, con accento di dolore.
Si chinò sul bordo della navicella e fece un gesto di rabbia. “Miserabili!”
esclamò. “Quei naufraghi ci hanno rovinati.”
“Che si siano riaperti gli strappi?”
“Non credo, ma il gas sfugge attraverso le cuciture.”
“Volete, signore, che vada a spalmarle di vernice?”
chiese il mozzo.
“È inutile, Walter: fra mezz’ora saremmo da capo.
Rinforziamo i fusi col gas che ci rimane.”
“Quanta zavorra ci rimane da gettare?”
“Circa duecento chilogrammi. Aiutatemi, amici.”
“Una parola, Mister Kelly. Se si introducesse il gas
nei palloncini interni, non si otterrebbe un effetto migliore e più durevole?”
“Avete ragione, O’Donnell. L’idea è buona e non so
come mi sia sfuggita. Affrettiamoci, che l’oceano ci è vicino.”
Il Washington cadeva. Il suo gas, dopo tanti
giorni. perdeva rapidamente la sua forza ascensionale, come un uomo che un
lungo digiuno sfinisce.
Scendeva di minuto in minuto, descrivendo delle larghe
oscillazioni e virando frequente di bordo.
Gli aeronauti che udivano sempre più distinti i
muggiti delle onde, diedero prontamente mano alla manovra, che doveva essere
l’ultima, perché dopo non doveva rimanere nella navicella più di un metro cubo
d’idrogeno.
L’ingegnere, aiutato dai suoi amici, aprì le due
manichette dei palloncini e lasciò sfuggire l’aria, provocando una nuova e più
rapida caduta dei fusi e introdusse, invece di quella, l’idrogeno che ancora
possedeva.
La forza ascensionale del Washington si
manifestò bruscamente, come per incanto. L’aerostato, che si trovava già a soli
venticinque o trenta metri dall’oceano, fece un balzo immenso nell’aria
elevandosi a duemilacinquecento. Il lancio in mare della pompa premente, che
non era più di nessuna utilità, ora che i palloncini interni non potevano più
ricevere l’aria, e di alcune casse vuote, lo portò a 3000 metri.
Quel salto straordinario ebbe il vantaggio di far
trovare una nuova corrente aerea, che spingeva diagonalmente, sopra gli alisei,
in direzione della costa africana. La speranza, per un momento perduta,
cominciò a rinascere nei cuori degli aeronauti.
La velocità di quella corrente era molto
considerevole, più forte di quella che spirava anteriormente, poiché toccava i
settanta chilometri all’ora.
Essendo lontani circa quattrocento chilometri dalla
costa africana, potevano giungervi prima delle quattro pomeridiane.
“Come dormirei volentieri sotto un frondoso albero!”
esclamò O’Donnell. “E forse questa sera potrò distendere le mie gambe sopra un
soffice e fresco tappeto d’erba!”
“Se il vento non cambia direzione, noi ceneremo in Africa,
O’Donnell” aggiunse l’ingegnere.
“E accenderemo un bel fuoco!”
“E fors’anche vi metteremo sopra un arrosto. La
selvaggina abbonda in Africa”
“Mangerei una bistecca di leone, Mister Kelly. Ma dove
cadremo?”
“Nella Senegambia, se manteniamo la rotta attuale.”
“C’è pericolo di venire massacrati dai negri?”
“No: quei negri sono sudditi francesi e non ardiranno
toccarci.”
“Hurrah per la Senegambia, dunque!”
“Non ci siamo ancora.”
“Ci giungeremo, Mister Kelly: il cuore me lo dice.”
“Ma il cuore sovente s’inganna, O’Donnell.”
Intanto il Washington continuava la sua corsa
verso la costa africana, mantenendo la diagonale che pareva dovesse passare nei
pressi del Capo Verde. Per quanto il gas continuasse a sfuggire attraverso le
cuciture, pure si manteneva a quella grande altezza mercé i due palloncini, che
serbavano la forza ascensionale sempre a quel livello.
Alle
due, O’Donnell, che puntava dì frequente il cannocchiale verso l’est, volendo
scoprire la costa africana, segnalò delle macchie grigiastre che apparivano
sulla superfìcie dell’oceano e verso il nord a una grande distanza.
“L’Africa!” esclamò con voce alterata dalla
commozione.
“Di già?” chiese l’ingegnere.
Prese il cannocchiale che O’Donnell gli porgeva e
guardò attentamente nella direzione indicata.
“Sì,” diss’egli “laggiù si stende il continente
africano. Quella striscia che si vede al nord dev’essere il Capo Verde.”
“E quelle isole?” chiese O’Donnell. “Sono quelle che
si stendono dinanzi alla foce del Gambia: Santa Maria e Sanguonar, ne sono
certo.”
“Dunque noi ci troviamo ora?...”
“A 13° 30’ di latitudine e a 19° di longitudine.”
“Troveremo dei bianchi laggiù?”
“Sì, e numerosi. I francesi hanno parecchie fattorie
sulle isole degli Elefanti, degli Ippopotami degli Uccelli e di Saffo, e una
importantissima ad Albreda; e ne hanno pure gl’inglesi lungo il fiume, e
posseggono una piccola colonia, quella di Bathurst, sull’isola di Santa Maria.”
“Mi spiacerebbe cadere nelle loro mani, Mister Kelly.
Voi sapete che sono ricercato dalla polizia.”
“Cadremo su territorio francese o sulle terra del
piccolo reame di Bar. Ecco la foce del fiume, chee comincia a disegnarsi
nettamente. Fra venti minuti ci libreremo sopra le isole dell’estuario.”
“No, Mister Kelly.”
“Perché?”
“Mi pare che il vento abbia fatto un salto, come
dicono i marinai.”
“Ma ci spinge sempre all’est.”
“No, Mister Kelly” disse O’Donnell con voce soffocata.
“Pieghiamo verso il sud.”
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