Capitolo 24
La costa africana
O’Donnell che da qualche minuto teneva gli occhi fissi
sui grandi fusi, non s’ingannava. La corrente degli alisei aveva bruscamente
cambiato direzione, piegando verso sud. La vicinanza delle catene dei monti che
sorgono nell'interno della Senegambia, correndo parallelamente alla costa,
obbligava quella corrente, giunta a quel punto, a deviare lungo le spiagge;
oppure un’altra, proveniente dal settentrione, più rapida e più potente,
l’aveva rotta? Comunque fosse, il fatto sta che il Washington ancora una
volta veniva respinto da quelle coste e proprio nel momento che stava per
toccarle.
“Innalziamoci!” disse l’ingegnere, con voce agitata.
“Forse in alto possiamo ritrovare la corrente che ci trascinava all’est.”
“Gettiamo la zavorra?”
“Tutta, O’Donnell. Se ci lasciamo sfuggire
quest’occasione siamo perduti.”
“Vada la zavorra dunque! Poi accadrà quello che Dio
vorrà.”
Era forse una grande imprudenza privarsi di quel peso
che più tardi poteva sollevarli, ma bisognava tentare di tutto per non perdere
quelle coste che fuggivano come la Fata Morgana dei deserti africani. O’Donnell
ed il mozzo afferrarono i sacelli e li precipitarono nell’oceano. Il Washington
scaricato di quei centonovanta chilogrammi, s’alzò con rapidità fulminea. Gli
aeronauti si sentirono come soffocare in quella vertiginosa ascensione, mentre
attorno a loro la temperatura si abbassava bruscamente, diventando fredda, come
se un crudo inverno fosse piombato su quelle regioni del sole. L’aerostato
varcò i 3000 metri senza arrestarsi, poi i 4000, poi i 5000 e s’arrestò cento
metri più sopra. Gli aeronauti trasportati quasi di colpo in quelle alte
regioni, dove regna il cosiddetto “male della montagna”, caddero nel fondo
della scialuppa, colpiti da uno stordimento generale e da un principio di
asfissia. Si sentivano presi da nausee e da vertigini, la loro faccia era
congestionata, il ventre gonfio mentre i polsi battevano febbrilmente e come
volessero spezzarsi, mentre un freddo intenso li irrigidiva.
“Mister Kelly, dove siamo?” chiese O’Donnell con voce
fioca. “Siamo stati trasportati fra i ghiacci della baia di Hudson?”
“Siamo a 5100 metri, in una regione dove l’ossigeno
diminuisce la sua tensione, non penetrando più nel nostro sangue in quantità
sufficiente.”
“Mi sento tutto scombussolato e provo delle nausee.”
“E anch’io,” disse il mozzo. “Si direbbe che mi
assalga il mal di mare.”
“I nostri disturbi cesseranno presto poiché il Washington
fra poco scenderà in regioni più respirabili.”
“Andiamo verso l’est, almeno. Mister Kelly?” chiese
l’irlandese, facendo uno sforzo por sollevarsi.
“No!” rispose l'ingegnere coi denti stretti. “Siamo
immobili.”
“Non c’è corrente ?”
“Nessuna.”
“Ne troveremo più sotto?”
“Lo sapremo più tardi.”
“Oh! che spettacolo! L'Africa è a due passi!…E quel
fiume?”
“È il Gambia.”
“Si direbbe un gran nastro d’argento disteso su un
tappeto verde.”
“Sì, un nastro di 1500 chilometri di lunghezza e largo
24 alla foce.”
“Che panorama, Mister Kelly! Vale la pena di sfidare
le nausee per godere simile spettacolo.”
“Purché questo spettacolo non si muti per noi in un
altro terribile.”
“Perché?”
“Scendiamo.”
“Ancora!... Decisamente il nostro pallone è diventato
tisico.”
“Scherzate di fronte a una simile prospettiva?”
“Cerco di essere un po’ allegro all’ultimo istante,
considerato che l’essere di cattivo umore non porterebbe alcun cambiamento.”
“Vi ammiro, O’Donnell.”
“Grazie, Mister Kelly.”
“Di che cosa?”
“Di avermi prolungato la vita fino ad oggi.”
“Ma forse fra poco io vi trascinerò con me laggiù.”
“Bah! Abbiamo la scialuppa.”
“È vero, e ora che ci penso, conto di servirmene.”
“Per toccare la costa?”
“L’avete detto.”
''Ecco una splendida idea che c’è sempre sfuggita.
Quanto distiamo dal Gambia?”
“Forse quaranta miglia.”
“Una semplice passeggiata.”
“Sì, caro amico, se non troviamo più sotto una
corrente che ci spinge verso terra, apriremo le valvole e caleremo
sull’oceano.”
“Aspettiamo, dunque!”
Il Washington calava lentamente: il gas
sfuggiva attraverso il tessuto e dalle lacerazioni; già le estremità dei due
grandi fusi ricadevano, formando grandi pieghe. La costa africana non era
lontana più di quaranta miglia e si distingueva ormai nettamente. Il Gambia,
questa grande arteria che attraversa la parte inferiore (la superiore è la
costa del Senegal) della regione conosciuta sotto il nome di Senegambia,
appariva distintamente per un tratto immenso. Si vedevano i suoi affluenti di
destra e di sinistra scorrere attraverso le folte boscaglie. Con l’aiuto del
cannocchiale, si scorgevano perfino le lontane cascate del Barraconda, che si
trovavano a 400 chilometri dalle foci e le isole degli Elefanti, degli
Ippopotami, degli Uccelli, di Saffo.
Alle cinque, un clamore assordante e parecchi spari
giunsero agli orecchi degli aeronauti. Si curvarono sui bordi della scialuppa e
s’accorsero di essere sopra Bathurst, la principale borgata dell’isola di Santa
Maria. Si scorgevano la chiesa, la scuola, le abitazioni dei negri e le
fattorie inglesi e francesi. Numerosi punti neri popolavano le vie e si
agitavano correndo ora da un lato ora dall’altro e dei lampi balenavano di qua
e di là.
“È la popolazione che ci invita a scendere,” disse
l’ingegnere.
“Scendiamo, Mister Kelly.”
“Vedo davanti al villaggio grossi punti neri, e quelli
là sono navi.”
“E che importa?”
“Mi preme salvarvi. O’Donnell. Forse fra quelle navi
si trova qualche stazionario inglese o qualche incrociatore e non vi lascerebbe
scappare.”
“Volete che sappiano chi siamo?”
“Il nostro viaggio deve aver fatto molto rumore anche
in Europa; la vostra fuga sarà stata notificata a tutti i consoli delle città
delle coste europee e africane, e le navi da guerra saranno state a loro volta
informate.”
“Lo credete?”
“So quanto sono cocciuti gli inglesi, amico mio. Sono
certo che sono stati dati ordini severi per riprendervi nel caso che il pallone
scendesse su uno dei loro territori o in vista d’una delle loro navi.
L’Inghilterra, dovreste saperlo, non perdona ai feniani.”
“È vero, Mister Kelly, ma io non vorrei che, per
salvare me, naufragaste in mezzo all’oceano.”
“Saprò regolarmi e cercherò di scendere lontano da
quelle coste, ma non tanto da non poterle riafferrare.”
In quell’istante, l’aerostato si piegò verso sud-est e
si mise a filare in quella direzione lentamente, allontanandosi dall’isola.
“Il vento!” esclamò O’Donnell.
“E spira in favore” disse l’ingegnere.
“Dio sia...” L’irlandese non finì. Una formidabile
detonazione era echeggiata sull’oceano, soffocandogli la frase.
“Che cosa succede?” chiese impallidendo.
“Una nave a vapore!” gridò Walter.
Una nave si era staccata dall’isola e seguiva
l’aerostato a tutto vapore.
“Che vengano in nostro aiuto?” chiese O’Donnell.
“In nostro aiuto?” esclamò l’ingegnere. “No,
O’Donnell, quella nave ci dà la caccia per prenderci. Io non mi ero ingannato!”
“E una nave da guerra inglese?”
“Sì, vedo sul ponte le giacche rosse della fanteria
marina.”
“Dunque voi credete?...”
“Che quella nave sappia già chi siamo noi e
soprattutto chi siete voi.”
“È impossibile, signore!”
“E perché?”
“Non vi è un solo pallone nel mondo e chissà quanti
altri hanno fatto delle ascensioni dopo la nostra partenza.”
“Ma il mio Washington ha una forma speciale e
noi soli abbiamo tentato questa grande traversata.”
Un’altra
detonazione echeggiò sull’oceano. L’ingegnere tese le orecchie ma non udì fischio
di proiettile.
“È un colpo a salve,” disse. “Sapete che cosa
significa per le genti di mare?”
“Un’intimidazione di fermarsi?”
“Sì, e per noi di scendere, sotto pena di venire
cannoneggiati.”
“Era destino che io dovessi ricadere nelle loro mani,”
disse O’Donnell con rassegnazione. “Mi prendano dunque.”
“Non vi hanno ancora in mano, O’Donnell.”
“Che cosa volete fare, Mister Kelly?”
“Salvarvi.”
“Ma non vedete che il pallone scende e che il vento ci
porta con una velocità di appena dieci miglia l’ora? Fra pochi minuti quella
nave sarà qui.”
“Sfido l’equipaggio a salire fino a noi.”
“Ma presto lo vedremo.”
“Non così presto.”
“Non abbiamo più zavorra da gettare.”
“Abbiamo i barili, i cilindri, le casse, le armi, le
munizioni e in ultimo il battello. Ah! signori inglesi, non ci prenderete così
facilmente.”
“Ma se ci prendono, vi arresteranno come mio
complice.”
“Bah! Sono americano io, non sono loro suddito e non
oseranno toccarmi.”
“Grazie, Mister Kelly,” esclamò O’Donnell con voce
commossa. “Vi devo la vita.”
“Lanciate andare i ringraziamenti, mio buon amico, e
prepariamoci a vuotare la scialuppa. È necessario, per salvarvi, toccare le
coste africane e scendere assai lontano dalle rive.”
“Il vento ci spinge verso la costa?”
“Non direttamente, ma fra poche ore io spero di
scendere fra i boschi dell’interno.”
Intanto la nave, che bruciava tonnellate di carbone
per accrescere la sua velocità, si avvicinava molto rapidamente. Era un incrociatore
della portata di mille o milleduecento tonnellate, attrezzato a goletta, assai
lungo e stretto. A poppa, sul picco della randa, sventolava la bandiera inglese
e sull’albero di maestra il grande nastro delle navi da guerra. Non era
possibile ingannarsi sulle sue intenzioni, dopo quei due colpi a salve. Senza
dubbio la partenza del Washington era stata segnalata a tutte le navi da
guerra inglesi nei porti occidentali dell’Europa e dell’Africa. Ormai sapevano
che il feniano O’Donnell era fuggito con l’ardito aeronauta e tutte dovevano
aver ricevuto l’ordine di arrestarlo, prima che scendesse in qualche Stato.
Vedendo quel grande aerostato venire dall’ovest, il
comandante della nave doveva aver sospettato d'avere a che fare col Washington
il solo che doveva venire dalla parte dell’oceano, e si era prontamente messo
in caccia, deciso forse di rovinarlo a colpi di cannone, prima che andasse a
cadere in mezzo alle grandi foreste della Senegambia, su territorio francese e
dove non avrebbe potuto lanciare i suoi uomini senza suscitare delle gravi
complicazioni diplomatiche.
Il Washington cadeva. Non era più che a
milleduecento metri dalla superficie dell’oceano e non s’arrestava.
Ormai gli aeronauti distinguevano nettamente
l’equipaggio inglese schierato sulla tolda dell'incrociatore, gli ufficiali
ritti sulla passerella di comando e il cannone di prua che aveva fatto fuoco.
“Affrettiamoci,” disse l’ingegnere. “Quegli uomini non
scherzano e ci prenderanno a cannonate se s’accorgono che noi, invece di
scendere, cerchiamo di innalzarci.”
In quell’istante una voce tuonante s’alzò sul ponte
dell’incrociatore.
“Scendete!”
L’ingegnere non si degnò di rispondere e spiegò la sua
bandiera dell’Unione.
“Scendete o facciamo fuoco!” ripete la voce.
“Ve lo dicevo, O’Donnell che quei volponi si sono
accorti chi siamo e donde veniamo?” disse l’ingegnere.
Si curvò sulla poppa della scialuppa, imboccò un
megafono e gridò: “Che desiderate?”
“Che scendiate,” rispose una voce tuonante.
“Con quale diritto?”
“Di nave da guerra.”
“Sono suddito dell’Unione Americana io, e non ho conti
da rendere alle navi di S. M. Britannica.”
“Voi portate un suddito inglese: il condannato Harry
O’Donnell.''
“Non lo conosco.”
“Scendete o facciamo fuoco.''
“Andate all’inferno!” urlò l’ingegnere furioso.
Poi, volgendosi verso O’Donnell, che conservava un
sangue freddo ammirabile, e al mozzo disse rapidamente: “Gettate!”
L’irlandese e Walter a quel comando rovesciarono
nell’oceano i cilindri, le casse, i barili, le vesti di ricambio, i materassi,
le coperte, tutto quanto ingombrava la scialuppa. Sul ponte della nave s’alzò
un clamore furioso, poi scoppiarono quindici o venti colpi di fucile, ma
l’aerostato era già fuori di portata. Scaricati da quel peso, aveva fatto un
salto immenso, toccando i 3700 metri.
“Buon viaggio!” gridò l’ingegnere ironicamente. “Spero
di farvi correre!...”
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