Capitolo 26
Le isole Bissagos
L’arcipelago delle Bissagos forma un gruppo
considerevole di isole, situato non di fronte al Gambia, come si vede
generalmente nelle carte geografiche, ma tra la foce del Rio Grande e la costa
della Sierra Leone e più precisamente fra il Capo Rosso e la Punta Verga.
Quantunque queste terre si trovino così vicino ai
possedimenti francesi della Senegambia, sono pochissimo note, e ben pochi
esploratori si sono avventurati su quelle coste che godono di pessima fama. Si
sa che sono assai boscose e che sono abitate da una popolazione bellicosa e crudele,
dai Bigiuga, guerrieri valentissimi, i quali si sono impadroniti delle isole
fluviali, cacciando e sterminando i pacifici Biafri che prima le occupavano.
Come si vede, gli aeronauti del Washington
stavano per cadere su di un isola assai pericolosa: però al momento né
l’ingegnere né O’Donnell s’inquietavano. A loro bastava toccare terra prima di
venire respinti nell’Atlantico dove avrebbero trovato la morte.
Come si disse, nel momento in cui il sole scomparve,
il Washington cominciò a precipitare con grande velocità, come se tutto
d’un colpo si fosse riempito di ferro. Fortunatamente, invece di cadere su di
un terreno scoperto, piombava in mezzo a una fitta foresta, che alzava in aria
dei rami giganteschi.
“Non abbiate paura, O’Donnell,” disse l’ingegnere. “I
rami ci serviranno da paracadute.”
“Sono abituato ai capitomboli. Mister Kelly.” rispose
l’irlandese.
“Vi raccomando di non lasciare la rete prima che io
dia il segnale, o uno di noi sarà trascinato ancora in aria.”
L’aerostato cadeva sempre. La distanza scemava con
rapidità spaventevole: pareva agli aeronauti che la foresta volasse loro
incontro.
“Attenzione ai rami O’Donnell!” gridò l’ingegnere.
“Badate di non farvi infilzare.”
Un istante dopo il Washington precipitava sulla
cima del bosco. Trovando un punto d’appoggio, tentò di rialzarsi un'ultima
volta, ma le maglie della rete s’impigliarono fra i rami, e fu trattenuto
violentemente. Il vento però lo sbattè e lo trascinò per alcuni passi,
sventrandolo contro le punte degli alberi.
Il gas sfuggì con lunghi crepitii attraverso le
fenditure, la seta si sgonfiò rapidamente, e i due fusi si ripiegarono sui
rami, pendendo fino a terra come due immensi stracci.
“Povero Washington” esclamò O’Donnell,
con accento di dolore.
“È finita”
rispose l’ingegnere con un sospiro.
“Scendiamo, Mister Kelly?”
“Siete ferito?”
“No, signore.”
“A terra, dunque.”
Si erano aggrappati ai rami di un albero di dimensioni
colossali, un vecchio baobab. Scivolarono lungo i rami che s’incurvavano verso
terra e si lasciarono cadere in mezzo ad alcuni fitti cespugli. Stavano per
rialzarsi, quando si videro piombare addosso trenta o quaranta uomini di alta
statura, color della liquirizia, coperti da pochi cenci e armati di lance e di
fucili lunghissimi e di antico stampo. L’aggressione fu così rapida e
inaspettata, che O’Donnell e l’ingegnere si trovarono ridotti all’impotenza
prima di poter far uso delle loro armi.
“Che vuol dire?” chiese O’Donnell, furioso. “E così
che si trattano le persone che cadono dal cielo, in queste isole? Giù le zampe,
furfanti!”
I negri invece di obbedire strinsero più robustamente
i due aeronauti, emettendo grida formidabili e sgambettando come scimmie che si
divertano. Ridevano, si battevano il ventre, che risuonava come un tamburo, e
parlavano senza arrestarsi, ripetendo sovente la parola: tubaba!
“Tubaba!” esclamò O’Donnell. “Che vuol dire?
Voi capite qualche cosa, Mister Kelly?”
“No, O’Donnell, ma forse qualcuno conoscerà il
francese, questi negri, di quando in quando, hanno dei contatti coi trafficanti
della Senegambia.”
“Provate a interrogarli. Sarei curioso di sapere che
intendono fare di noi.”
“Che cosa desiderate da noi?” chiese l’ingegnere, in
francese.
Udendo quella domanda un grande negro, che portava al
collo una scatola vuota di sardine di Nantes e sul capo un berretto sformato e
stracciato che pareva essere appartenuto a qualche ufficiale di marina, rispose
nella stessa lingua: “Vogliamo condurvi da Umpane.”
“Chi è questo Umpane?”
“Il re dell'isola.”
“Come si chiama quest'isola?'
“Orango.”
“Ci avete teso un agguato?”
“Vi abbiamo veduti cadere e siamo corsi qui per
mangiare l’uccello che vi portava.”
L’ingegnere scoppiò in una risata.
“Va a mangiarlo il nostro uccello” disse.
“È fuggito? Non vedo che la sua pelle.”
“Sì, è fuggito dopo essersi sbarazzato della sua prima
pelle” disse l’ingegnere sempre ridendo. “Dove andiamo ora?”
“Alla tabanca di Umpane.”
“Conduceteci da lui, dunque.”
Ad un
comando del negro che pareva fosse il capo, il drappello si mise in marcia, circondando
i due aeronauti, ai quali avevano preso le armi, e portando con sé le spoglie
del pallone dopo averle fatte in lunghi pezzi. Aprendosi il passo fra i fitti
cespugli che ingombravano il bosco, e girando e rigirando fra i tronchi
giganteschi dei baobab, delle palme d’elais e dei manghi che crescevano sulle
rive delle paludi, dopo mezz’ora giunsero dinanzi a un villaggio situato a
breve distanza dalle sponde dell’oceano e composto di un centinaio di capanne
più o meno vaste e di lunghi fabbricati che parevano magazzini. Udendo le grida
del drappello, una folla di negri si precipitò fuori dalle capanne, recando dei
rami accesi e circondando i prigionieri senza però, per il momento, manifestare
intenzioni ostili. Le grida divennero così acute, che l’ingegnere e O’Donnell
furono costretti a turarsi gli orecchi.
“Che concerto!” esclamò l’irlandese, più seccato che
spaventato.
“Una banda di scimmie urlanti non farebbe di più.”
“Dov’è il re?” chiese l’ingegnere al negro dal
berretto.
“Laggiù” rispose questi additando una grande capanna
circolare, difesa da una palizzata di bambù e appoggiata a un boschetto di
aranci.
“Conducimi da lui.”
Il negro e la sua scorta respinsero la folla con una
grandine di legnate e condussero gli aeronauti verso la grande capanna. Il re,
senza dubbio informato del loro arrivo, li aspettava sulla porta.
Era un brutto negro di trentacinque o trentott’anni,
coi lineamenti feroci, gli occhi obliqui che tradivano la doppiezza dell’anima,
il naso ricurvo come il becco d’un pappagallo e la carnagione d’un nero lucido
perfetto. Portava ai fianchi un sottanino ornato di perle di vetro, di denti di
animali selvaggi e di code di scimmie, alle gambe un paio di lunghi stivali
sfondati, sul capo un vecchio cappello a cilindro, ammaccato e senza tesa,
adorno di etichette, di scatole di sardine, e in mano un bastone da capomusica.
In attesa degli stranieri, stava rosicchiando con visibile soddisfazione un
pezzo di sapone profumato. Vedendo i due aeronauti, mosse loro incontro seguito
da parecchi dignitari e da alcuni guerrieri armati di vecchi fucili, e li
guardò per alcuni istanti con curiosità, poi interrogò il capo della truppa, il
grande negro dal berretto. Vedendo che la conversazione si prolungava assai e
non comprendendo che cosa dicessero, l’ingegnere si fece innanzi e domandò: “In
conclusione, che desidera Sua Maestà negra?”
“Nulla per ora” rispose il negro dal berretto. “Domani
il grande sacerdote deciderà della vostra sorte.”
“Che intendi dire? È la libertà incondizionata che noi
reclamiamo, essendo uomini liberi; al tuo re nulla dobbiamo: ci lasci dunque
andare per i fatti nostri.”
“Deciderà il grande sacerdote.”
“Me ne infischio del vostro sacerdote.”
“Bada, bianco, che tu sei straniero qui e che i
Bigiuga sono potenti.”
In quell’istante dalla parte dell’oceano risuonò una
detonazione, che pareva prodotta da un cannoncino. L’ingegnere e O’Donnell si
volsero da quella parte, mentre i negri alzavano urla acute, e al pallido
chiarore della luna, che allora si alzava all’orizzonte, videro approdare il
cutter che s’era volto in soccorso del Washington mentre questo stava
per precipitare nelle onde.
“Siamo salvi” gridò O’Donnell.
Una voce argentina, ma squillante, partì dalla piccola
nave: “Mister Kelly!... Mister O’Donnell...”
“Walter!” esclamarono gli aeronauti.
Un uomo bianco armato di fucile e di rivoltelle, era
sbarcato e muoveva rapidamente verso i negri, seguito dal mozzo e da otto negri
armati di fucili a retrocarica.
“Indietro!” gridò in lingua portoghese. “Dov’è
Umpane?”
I Bigiuga, che pareva lo conoscessero, fecero largo e
l’uomo bianco avanzò verso gli aeronauti stupiti stendendo la mano e dicendo:
“Sono felice di liberarvi da queste canaglie, Mister Kelly e Mister O’Donnell.
Ora accomoderò ogni cosa.”
“Grazie, signore” risposero i due aeronauti, vivamente
commossi e stringendogli la mano.
“So chi siete.” riprese lo sconosciuto “e donde
venite, e lo sapevo prima che raccogliessi il vostro mozzo. L’ardita vostra
impresa era conosciuta anche sulle coste africane.”
Poi mentre l’ingegnere e l’irlandese abbracciavano il
mozzo lo sconosciuto si volse verso Umpane, dicendogli con voce brusca: “È così
che tratti i miei amici? Bisognerà che mi decida a non approdare più alla tua
isola e che vada a vendere altrove il mio arak e la mia polvere da
sparo.”
“Ma questi nomini sono caduti dal cielo” disse il re,
pure in portoghese, “Forse che ti apparteneva quel grande uccello?”
“Sì era mio” rispose il bianco con grande serietà.
“Allora ne manderai uno al tuo amico Umpane?”
“Nel mio prossimo viaggio te ne porterò uno.”
“E non fuggirà lasciandomi la pelle?”
“T’insegnerò il modo di impedirgli di fuggire. Ma tu
devi consegnarmi questi due bianchi che sono miei amici.”
“Lo permetteranno le divinità dell’isola?”
“Interrogale.”
Ad un cenno del re si fece innanzi un vecchio negro,
che si era affrettato a coprirsi con un pezzo di seta del Washington
ornandolo di code di scimmie, di denti umani, di scaglie di testuggine e di
perle di vetro. Alla cintola portava un coltellaccio, che pareva essere stato
affilato di recente.
“Che
cosa sta per succedere, signore?” chiese l’ingegnere al portoghese.
“Si sta per decapitare un disgraziato gallo, Mister
Kelly” gli rispose.
“E che cosa ha a che fare un gallo con noi?”
“Questi superstiziosi negri pretendono che le divinità
dell’isola risiedano nel corpo d’un gallo, e manifestino le loro intenzioni coi
contorcimenti dell’innocente vittima. Se il gallo, nel dibattersi, cadrà dalla
vostra parte, gli dei vi permetteranno di andarvene: se si allontana, allora
sarà una faccenda seria. Fortunatamente conosco quel volpone di sacerdote e con
un regalo farò in modo che le cose vadano bene.”
“Lo credete?”
“L’ho già fatto avvertire che riceverà una delle mie
rivoltelle.”
In quell’istante fu recata la vittima. Era un grosso
gallo tutto nero, che faceva sforzi disperati per liberarsi dalle mani di due
alti dignitari che lo tiravano per le zampe e per la testa. Il grande sacerdote
scambiò un rapido sguardo col portoghese, poi con un colpo di coltello decapitò
la vittima, la quale andò proprio a cadere ai piedi dell’ingegnere e di
O’Donnell.
“Le divinità li proteggono, Umpane” disse il sacerdote
con accento solenne.
“Andate,” disse il re con un certo malumore. “Siete
liberi. Ma trattengo le vostre armi e la pelle del grande uccello.”
“Te
le lasciamo di cuore” disse il portoghese.
Poi
mentre uno dei suoi uomini donava al grande sacerdote la rivoltella, disse:
“Affrettiamoci signori. Quella canaglia di Umpane potrebbe pentirsi.”
I negri ad un cenno del re aprirono le file. e i due
aeronauti, il portoghese, il mozzo e l’equipaggio si diressero rapidamente
verso il Cutter e s’imbarcarono.
“Ti raccomando il grande uccello!” gridò Umpane.
“Tè lo manderò” rispose il portoghese ridendo. “Vedrai
come sarà magnifico!...”
Le àncore vennero strappate dal fondo, la randa e la
controranda vennero orientate, e il piccolo legno s’allontanò rapidamente dal
pericoloso arcipelago, portando seco gli eroi di quel meraviglioso viaggio
compiuto attraverso l’Oceano Atlantico.
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