CAPITOLO II
L'assedio di Famagosta
L'anno 1570 era cominciato nefasto per la Repubblica Veneta, la
più grande e formidabile nemica della potenza turca. Già da qualche tempo il ruggito
del Leone di San Marco si era affievolito ed a Negroponte prima, in Dalmazia e
poi nelle isole dell'Arcipelago greco aveva ricevute le prime ferite,
nonostante gli eroici sforzi dei figli della laguna.
Selim II, il potentissimo Sultano di Costantinopoli, assisosi
saldamente sul Bosforo, rintuzzate le armi degli ungheresi e degli austriaci,
ributtati nella Piccola Russia gli ortodossi, padrone dell'Egitto, di Tripoli,
di Tunisi, dell'Algeria e del Marocco e di mezzo Mediterraneo, non attendeva
che il momento opportuno per strappare per sempre ai figli del leone di San
Marco, i loro ultimi possessi d'oriente.
Sicuro della ferocia e del fanatismo dei suoi guerrieri e
fortissimo ormai sul mare, non gli fu difficile trovare un pretesto per romperla
coi veneziani, che già cominciavano a dare qualche segno di decadenza.
La cessione dell'isola di Cipro alla Repubblica, fatta da Caterina
Cornaro, fu la scintilla che diede fuoco alle polveri.
Il Sultano, temendo pei suoi possessi dell'Asia Minore, forte
della sua potenza, impose senz'altro ai veneziani di sgombrare l'isola,
incolpandoli di dare ricetto a corsari Ponentani che armavano galere a danno
dei fedeli della Mezzaluna.
Come era da prevedersi, il Senato veneziano aveva sdegnosamente
respinto il messaggio inviato dal barbaro discendente del Profeta ed aveva
raccolte le forze disperse in Oriente ed in Dalmazia, preparandosi animosamente
alla guerra.
Cipro non contava in quell'epoca che cinque città: Nicosia,
Famagosta, Baffo, Arines e Lamisso; ma solamente le due prime si trovavano in
istato di opporre una qualche resistenza, essendo fornite di torri e bastioni.
Furono quindi mandati ordini di rinforzarle il meglio possibile e
di formare un vasto campo trincerato a Lamisso per raccogliere le truppe
venete, che erano già in viaggio sotto il comando di Girolamo Zane e di
richiamare prontamente da Candia la flotta, che era guidata da Marco Quirini,
uno dei più abili marinai che avesse in quel tempo la Repubblica.
La guerra era stata appena dichiarata, quando gli aiuti mandati
dal Senato sbarcarono sani e salvi a Lamisso, sotto la protezione delle galee
del Quirini.
Si componevano quelle forze di ottomila fanti fra veneti e
schiavoni, di duemila e cinquecento cavalieri e di molta artiglieria. A difesa
dell'isola non vi erano allora che diecimila fanti, fra alabardieri e
archibugieri, quattrocento schiavoni dalmati e cinquecento stradioti a cavallo,
ma si erano aggiunti numerosi abitanti, fra i quali molti nobili veneziani che
non sdegnavano di esercitare il commercio.
Avendo appreso che i turchi erano di già sbarcati in falangi
immense, al comando del Gran vizir Mustafà, che godeva fama di essere il più
abile ed anche il più crudele dei generalissimi turchi, i veneziani, divise le
loro forze in due corpi, si erano affrettati a chiudersi in Nicosia ed in
Famagosta, risoluti ad attendere dietro a quei saldi bastioni l'urto poderoso
delle orde nemiche.
Nicolò Dandolo, col vescovo Francesco Contarini, aveva assunto la
difesa della prima; Astorre Baglione, con Bragadino, Lorenzo Tiepolo, ed il
capitano albanese Manoli Spilotto, si erano incaricati di tener duro nella
seconda fino all'arrivo di nuovi rinforzi che la Repubblica aveva solennemente
promessi.
Mustafà, che aveva forze imponenti, sette od otto volte superiori
a quelle dei veneziani, fu ben presto, quasi senza combattimento, sotto le mura
di Nicosia, che voleva espugnare per la prima, parendogli che quella piazza
dovesse offrire la maggior resistenza.
Un assalto furibondo dato ai bastioni di Podacataro, di Costanzo,
di Tripoli e di Davile, andò a vuoto, anzi riuscì disastroso agli infedeli,
perchè avendo il tenente Cesare Piovene insieme al conte Roca fatta una
improvvisa sortita alla testa di numerose compagnie, inflisse loro gravissime
perdite.
Il 9 settembre 1570 Mustafà ritorna però alla carica ed al sorgere
dell'alba spinge le sue innumerevoli orde all'assalto del bastione Costanzo,
riuscendo ad impadronirsene dopo una mischia ferocissima.
I veneziani, vedendosi ormai perduti, avviarono trattative di
resa, alla condizione che si accordasse a tutti salva la vita.
Acconsentì il malfido vizir: invece, non appena le sue orde ebbero
occupata la città, scordando la promessa fatta, ordinava freddamente la strage
generale dei prodi difensori e della popolazione che li aveva aiutati.
L'eroico Dandolo fu il primo a essere immolato e ventimila persone
furono massacrate, trasformando la disgraziata città in un immenso cimitero.
Solo venti nobili veneziani, dai quali il crudele vizir sperava
dei vistosi riscatti e le più belle donne e fanciulle di Nicosia furono
risparmiate, e queste per essere inviate schiave a Costantinopoli.
Le orde islamite, imbaldanzite da quella facile vittoria, si erano
subito volte verso Famagosta colla speranza di prenderla in breve d'assalto.
Baglione e Bragadino però non erano rimasti colle mani alla cintola e in quel
frattempo avevano rinforzate le difese per resistere fino all'arrivo dei
rinforzi veneti.
Il 19 luglio del 1571, le sterminate orde turche comparivano
dinanzi alla città, cominciandone l'assedio e l'indomani ne tentavano
l'assalto, ma, come prima a Nicosia, venivano ributtate nei loro accampamenti,
con grande strage.
Il 30 luglio, dopo un continuo bombardamento ed un incessante
scoppiare di mine per indebolire le torri e i bastioni, per la seconda volta
Mustafà aveva guidato all'attacco le sue truppe ed il valore dei guerrieri
veneti aveva ancora trionfato. Tutti gli abitanti erano corsi alla difesa,
comprese le donne, le quali tenacemente avevano combattuto a fianco dei forti
guerrieri della Repubblica, niente atterrite dalle urla selvagge degli
assalitori, nè dalle loro formidabili scimitarre, nè dal tuonare tremendo delle
artiglierie.
Nell'ottobre gli assediati, che già erano riusciti, con frequenti
sortite, a tenere a distanza i turchi, ricevevano i promessi soccorsi
consistenti in mille e quattrocento fanti, comandati da Luigi Martinengo e in
sedici cannoni.
Era ben poca cosa per una città assediata da più di sessantamila
nemici, tuttavia quell'aumento di truppe era giovato assai a rialzare lo
spirito degli assediati già molto depresso, ed a indurli a resistere con
maggior vigoria.
Disgraziatamente i viveri e le munizioni scemavano a vista
d'occhio ed il bombardamento dei turchi non lasciava un istante di tregua ai
veneziani. La città era ormai un ammasso di rovine e ben poche case si
reggevano ancora in piedi.
Per di più, pochi giorni dopo giungeva a Cipro Alì pascià, grande
ammiraglio della flotta turca, con una squadra di ben cento galee, montate da
altri quarantamila guerrieri.
Famagosta ormai era stretta da tutte le parti da un cerchio di
fuoco e di ferro, che nessuna forza umana avrebbe potuto ormai più spezzare. Le
cose erano a questo punto, quando accadde il fatto narrato nel capitolo
precedente. . .
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Gli schiavoni, appena giunti sul bastione, gettate le alabarde che
erano affatto inutili in quel momento, si erano subito appostati dietro ai
pochi merli che ancora esistevano, armando i loro pesanti moschettoni e
soffiando vigorosamente sulle micce, mentre gli artiglieri, quasi tutti marinai
delle galere venete, continuavano a far tuonare le loro colubrine.
Capitan Tempesta, nonostante le prudenti raccomandazioni del suo
tenente, s'era spinto fino sull'orlo del bastione, tenendosi riparato dietro un
merlo semimozzo che ad ogni colpo di colubrina a poco a poco si sgretolava.
Nella pianura tenebrosa che si estendeva dinanzi alla disgraziata
città, votata ormai ad una fine miseranda, si vedevano brillare qua e là dei
punti luminosi, poi dei lampi accompagnati da formidabili detonazioni, e dai
sibili rauchi delle grosse palle di pietra.
I turchi, sempre più inferociti dalla lunga resistenza opposta
dalla piccola guarnigione veneta, stavano scavando nuove trincee per assalire
più da vicino il bastione, che quantunque semidiroccato, non accennava ancora a
sfasciarsi mercè l'enorme massa di materiali che le valorose donne rovesciavano
ogni notte nei fossati per rinforzarlo.
Di tratto in tratto degli uomini audaci, che avevano fatto
volontariamente sacrificio della loro vita per guadagnarsi con maggior
sicurezza il meraviglioso paradiso del Profeta, salivano carponi la scarpa del
bastione e, approfittando della notte tenebrosa, preparavano mine per
rovesciare quella massiccia muraglia che i cannoni non erano capaci di
sfondare.
Gli schiavoni, che avevano buoni occhi, non li risparmiavano e
molti ne fulminavano coi loro moschettoni, ma altri fanatici, punto atterriti,
li sostituivano subito e delle esplosioni tremende, che scuotevano perfino le
colubrine piazzate dietro i pochi merli, si succedevano, diroccando ora un
angolo ed ora uno sperone od il margine del profondo fossato.
Le donne di Famagosta però erano là, pronte a gettare sassi e
corbe colme di terra, onde riempire le buche aperte da quegli scoppi; sempre
impassibili, sempre risolute, docili al comando dei prodi difensori, guardando
serenamente le palle infuocate che solcavano l'aria e che nel cadere si
spezzavano in mille frantumi, essendo per la maggior parte di pietra.
Capitan Tempesta, muto, impassibile, guardava i fuochi che
illuminavano l'immenso campo turco. Che cosa cercava di scoprire? Lui solo
probabilmente lo sapeva.
Ad un tratto si sentì urtare un gomito, mentre una voce gli
sussurrava agli orecchi, in un pessimo dialetto napoletano:
— Eccomi, padrona.
Il giovane si era voltato vivamente, colla fronte aggrottata, poi
ad un tratto un grido a malapena frenato gli sfuggì:
— Tu, El-Kadur?
— Sì, padrona.
— Taci! Non chiamarmi così. Nessuno deve sapere chi io veramente
sia.
— Hai ragione, signora... signore.
— Ancora? Vieni!
Afferrò l'uomo che aveva pronunciato quelle parole, e lo trasse,
tenendolo sempre stretto per un braccio, giù dal bastione conducendolo in una
casamatta, che era illuminata da una torcia e che in quel momento era deserta.
Quell'individuo, che il giovine capitano non aveva ancora
lasciato, era un uomo alto e magrissimo, colla pelle assai abbronzata, i
lineamenti duri, il naso affilato e gli occhi piccoli e nerissimi. Vestiva come
i beduini dei deserti arabi, teneva sulle spalle un ampio mantello di lana
oscura, con cappuccio adorno d'un fiocco rosso e sul capo portava un turbante
bianco e verde. Dalla cintura o meglio dalla fascia rossa, che gli stringeva i
fianchi, si vedevano uscire i calci di due lunghe pistole, di forma quasi
quadra, come quelle usate dagli algerini e dai marocchini, e l'impugnatura d'un
jatagan.
— Dunque? — chiese Capitan Tempesta, quasi con violenza, mentre i
suoi occhi s'illuminavano d'un lampo strano.
— Il visconte Le Hussière è sempre vivo rispose El-Kadur. — L'ho
saputo da uno dei capitani del vizir.
— Che ti abbia ingannato? chiese il giovane capitano, con voce
tremula.
— No, signora.
— Non chiamarmi signora, te lo dissi già.
— Qui non vi è nessuno che possa ascoltarci.
— E dove l'hanno condotto? Lo sai, El-Kadur?
L'arabo fece un gesto desolato.
— No, signora, non ho ancora potuto saperlo; tuttavia non dispero.
Sono diventato l'amico d'un comandante che, quantunque mussulmano, beve Cipro a
barili, infischiandosene del Corano e del Profeta, e una sera od un'altra
riuscirò a carpirgli il segreto. Ve lo giuro, padrona.
Capitan Tempesta o meglio la capitana — giacchè non era un uomo —
si era lasciata cadere sull'affusto d'un cannone, prendendosi la testa fra le
mani. Due lagrime le scendevano sul suo bel viso, che in quel momento era
diventato pallidissimo.
L'arabo, ritto dinanzi a lei, col mantello stretto intorno
all'agile corpo, la guardava con profonda commozione. Il suo viso duro e
selvaggio tradiva un'angoscia inesprimibile.
— Potessi, signora, col mio sangue ridarti la tranquillità e la
felicità, sarei ben lieto disse, dopo un momento di silenzio.
— Lo so che tu mi sei devoto, El-Kadur — rispose Capitan Tempesta.
— Fino alla morte, signora, sarò lo schiavo più fedele.
— Non schiavo, amico.
Gli occhi nerissimi dell'arabo si illuminarono d'un lampo intenso,
diventando quasi fosforescenti.
— Io ho rinnegato senza rimpianti la mia stolta religione, disse,
dopo un altro breve silenzio — e non ho mai dimenticato che il duca d'Eboli,
tuo padre, mi strappò, quand'ero fanciullo, al mio crudele padrone che tutti i
giorni mi batteva a sangue. Che cosa devo fare ora?
Capitan Tempesta non
rispose. Pareva che seguisse un pensiero profondo che evocava in lui dei
dolorosi ricordi, a giudicarlo dall'espressione angosciosa del suo bel viso.
— Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia,
quella sirena incantatrice dell'Adriatico e che non avessi mai lasciate le
azzurre acque del golfo di Napoli... disse ad un tratto, come parlando fra sè.
— Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente.
Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi
dei nobili veneti! La rivedo come fosse ieri, e quando vi penso sento scorrermi
nelle vene un fremito che prima non avevo mai provato.
Egli era là, dinanzi a me, bello come un dio della guerra, seduto
sulla prora della gondola e mi guardava sorridendo e mi rivolgeva delle frasi
deliziose, che mi scendevano in fondo al cuore come una musica celeste. Per me
aveva dimenticato le preoccupazioni che in tutti suscitavano le tragiche
notizie giuntemi quel giorno e che avevano fatto impallidire perfino i vecchi del
Senato, del Consiglio e lo stesso Doge.
Eppure sapeva che l'avevano scelto a venire qui a misurarsi
coll'esercito sterminato degli infedeli; sapeva che qui forse la morte lo
attendeva per falciargli la sua giovine e brillante esistenza, eppur sorrideva,
ammaliato dai miei occhi.
Che cosa ne faranno di lui questi mostri? Lo faranno morire
lentamente fra i più atroci martirî? È impossibile che lo tengano solamente
prigioniero: egli che era diventato il terrore dei pascià, egli che aveva
inflitto tante sanguinose sconfitte a queste orde barbariche, a questi lupi
sbucati dai deserti dell'Arabia.
Povero e valoroso Le Hussière!
— L'ami molto dunque? disse l'arabo che l'aveva ascoltata in
silenzio, senza staccarle di dosso gli occhi.
— Se l'amo! — esclamò la giovane duchessa, con voce appassionata.
— Amo come le donne del tuo paese.
— Forse di più ancora, signora — rispose El-Kadur, soffocando un
nuovo sospiro. — Un'altra donna non avrebbe fatto quello che facesti tu, non
avrebbe lasciato il bel palazzo di Napoli, non si sarebbe vestita da uomo, non
avrebbe assoldato coi propri denari una compagnia e non sarebbe venuta qui a
rinchiudersi in questa città assediata da centomila infedeli, a sfidarvi la
morte.
— Potevo io restare tranquilla in patria, quando io sapevo che
egli era qui e che correva un così grave pericolo?
— E non pensi, signora, che un giorno i turchi riusciranno a
superare i bastioni e che si rovesceranno sulla città assetati di sangue e di
stragi? Chi ti salverà quel giorno?
— Siamo tutti nelle mani di Dio, — disse la duchessa, con voce
rassegnata. — D'altronde se Le Hussière venisse ucciso, io non sopravviverei,
El-Kadur.
Uno spasimo aveva fatto fremere la pelle abbronzata dell'arabo.
— Signora, disse, alzandosi — che cosa devo fare? È necessario che
io approfitti delle tenebre per tornare al campo dei turchi.
— Cercare sempre per sapere ove lo hanno condotto disse la
duchessa. — Dovunque si trovi, noi andremo a salvarlo, El-Kadur.
— Domani notte sarò qui.
— Se sarò ancora viva disse la giovane.
— Che cosa dici, padrona! — esclamò l'arabo, con accento
spaventato.
— Mi sono impegnata in una avventura che potrebbe finir male. Chi
è quel giovane turco che tutti i giorni viene a sfidare i capitani cristiani?
— Muley-el-Kadel, figlio del pascià di Damasco. Perchè questa
domanda, padrona?
— Perchè domani andrò a misurarmi con lui.
— Tu! — esclamò l'arabo, col viso trasfigurato. — Tu, signora?
Questa notte andrò a ucciderlo nella sua tenda onde non venga a sfidare i
capitani di Famagosta.
— Oh! Non temere, El-Kadur. Mio padre era la prima lama di Napoli
ed ha fatto di me una spadaccina, che può tener testa anche alle spade dei più
famosi capitani del Gran Turco.
— Chi vi costringe a misurarvi con quell'infedele?
— Il capitano Laczinki.
— Quel cane d'un polacco, che pare nutra verso di te un segreto
rancore? Agli occhi d'un figlio del deserto nulla sfugge ed avevo indovinato in
lui il tuo nemico.
— Sì, il polacco.
El-Kadur aveva fatto un salto innanzi, mandando un ruggito da
belva, mentre il suo viso assumeva una espressione così feroce e selvaggia che
colpì la giovine duchessa.
— Dove si trova ora quell'uomo? — chiese con voce strozzata.
— Che cosa vorresti fare, El-Kadur? chiese la capitana con voce
dolce.
L'arabo, con un gesto rapido si levò dalla fascia l'jatagan,
facendo scintillare la lucente lama alla luce della lampada.
— Questo acciaio questa notte berrà sangue polacco, — disse, con
voce cupa. — Quell'uomo non vedrà alzarsi il sole di domani, così la sfida non
avrà più luogo.
— Tu non lo farai gli rispose la capitana, con voce ferma. — Si
direbbe che Capitan Tempesta ha avuto paura e che ha fatto assassinare il
polacco. No, El-Kadur, tu lo lascerai vivere.
— E dovrò io vedere la mia padrona, misurarsi in un combattimento
mortale con quel turco? chiese l'arabo con selvaggio accento. — Potrei io
vederla cadere morente sotto i colpi di scimitarra di quell'infedele? La vita
di El-Kadur è tua, fino all'ultima stilla di sangue, padrona, ed i guerrieri
della mia tribù sanno morire in difesa dei loro signori.
— Capitan Tempesta deve mostrare a tutti che non ha paura dei
turchi, — rispose la duchessa. — È necessario, per allontanare qualsiasi
sospetto sul mio vero essere.
— Lo ucciderò, padrona, — rispose l'arabo con voce sibilante.
— Te lo proibisco.
— No, signora.
— Te lo comando: obbedisci, — disse la duchessa.
L'arabo piegò il capo e qualche cosa d'umido apparve sotto le sue
palpebre.
— È vero disse — sono uno schiavo e debbo obbedire.
Capitan Tempesta gli si avvicinò e, posandogli su una spalla la
sua bianca mano, gli disse con voce raddolcita:
— Non schiavo: sei mio amico.
— Grazie, signora, rispose El-Kadur — farò quello che vorrai, ma
ti giuro che se il turco ti atterra, io gli brucerò le cervella. Lascia almeno
che il tuo fedele servo ti vendichi, nel caso che ti succedesse qualche
disgrazia. Che cosa varrebbe la mia vita senza di te?
— Farai quello che meglio crederai, mio povero El-Kadur. Va',
parti prima che sorga l'alba. Se tu tardassi non potresti più raggiungere il
campo degli infedeli.
— Ti obbedisco, signora. Io saprò presto dove hanno condotto il
signor Le Hussière, te lo prometto.
Uscirono dalla casamatta e risalirono sul bastione, dove le
colubrine ed i moschettoni continuavano a tuonare con crescente fracasso,
rispondendo vigorosamente alle artiglierie dei turchi, colpo per colpo, onde
impedire che minassero le mura, semicadenti, della sfortunata città.
Capitan Tempesta si avvicinò al signor Perpignano che dirigeva il
fuoco dei moschettieri e gli disse:
— Fate sospendere per qualche minuto il fuoco. El-Kadur deve
ritornare ai campi turchi.
— Nient'altro, signora? chiese il veneziano.
— No, ma non chiamatemi che Capitan Tempesta. Non siete che in tre
soli a sapere ch'io sia; voi, Erizzo ed El-Kadur. Silenzio: potrebbero udirvi.
— Perdonatemi, capitano.
— Fate cessare il fuoco per un solo minuto. Non sarà già la rovina
di Famagosta.
La duchessa non comandava più come una donna, bensì come un
vecchio capitano, incanutito sui campi di battaglia, con frasi secche ed
incisive, che non ammettevano alcuna replica.
Il signor Perpignano passò
l'ordine agli artiglieri e agli archibugieri, mentre l'arabo, approfittando di
quella momentanea tregua, si spingeva fino all'orlo del bastione accompagnato
da Capitan Tempesta.
— Guàrdati dal turco, signora le sussurrò prima di scavalcare la
merlatura. — Se morrai tu, morrà anche il povero schiavo, dopo averti però
vendicata.
— Non temere, amico rispose la duchessa. — Conosco la terribile
scuola della spada, meglio di tutti i capitani rinchiusi in Famagosta. Addio,
va', te l'ordino.
L'arabo, per la terza volta, represse un sospiro, più lungo forse
degli altri due, s'aggrappò alle pietre sporgenti e scomparve nell'oscurità.
— Quanta affezione in quell'uomo, mormorò Capitan Tempesta — e
forse quanto amore segreto. Povero El-Kadur! Era meglio che tu fossi rimasto
per sempre nei deserti del tuo paese.
Ritornò lentamente indietro, mettendosi al riparo d'un merlo,
continuando le grosse palle di pietra dei turchi a cadere sul bastione e si
assise su un cumulo di sassi, appoggiando il mento e le mani sul pomo della sua
spada.
Intanto le detonazioni si succedevano alle detonazioni, Artiglieri
ed archibugieri coprivano la tenebrosa pianura di ferro e di piombo o di
uragani di mitraglia, per fermare gli audaci minatori islamici, che si
avanzavano con un coraggio più unico che raro, sfidando intrepidamente i tiri
dei veneziani e degli schiavoni.
Una voce lo trasse dalle sue meditazioni.
— Sicchè, ancora nulla, capitano?
Era il signor Perpignano che si era avvicinato, dopo d'aver dato
il comando agli schiavoni di non far risparmio di munizioni.
— No — rispose Capitan Tempesta.
— Sapete almeno se egli sia vivo?
— El-Kadur mi ha detto che Le Hussière è sempre prigioniero.
— E di chi?
— Lo ignoro ancora.
— Mi sembra strano che quei terribili combattenti, che non
accordano quasi mai quartiere, lo abbiano risparmiato.
— È quello che penso anch'io, — rispose Capitan Tempesta — e forse
è quello che mi rode più il cuore.
— Che cosa temete, capitano?
— Non lo so, eppure il cuore delle donne che amano difficilmente
s'inganna.
— Non vi comprendo.
Invece di rispondere alla domanda, Capitan Tempesta si alzò,
dicendo:
— L'alba fra poco spunterà ed il turco verrà sotto le mura a
lanciare la sua sfida. Andiamo a prepararci al combattimento. O tornerò
vittoriosa o rimarrò morta e le mie angosce saranno finite.
— Signora, — disse il tenente — accordatemi la grazia di
combattere il turco. Se anche soccombessi, nessuno mi piangerebbe giacchè sono
l'ultimo discendente dei conti di Perpignano.
— No, tenente.
— Il turco vi ucciderà.
Un sorriso sdegnoso sfiorò le belle labbra della fiera duchessa.
— Se io non fossi stata così forte e risoluta, Gastone Le Hussière
non mi avrebbe amata — disse. — Io mostrerò ai turchi ed ai comandanti veneti come
sa battersi Capitan Tempesta. Addio, signor Perpignano. Non dimenticherò mai nè
El-Kadur, nè il mio prode tenente.
S'avvolse tranquillamente nel suo ferraiuolo, posò la sinistra
sulla spada con un gesto superbo e scese dal bastione, mentre le artiglierie
degli assediati e degli assedianti tuonavano con crescente furore, illuminando,
di quando in quando, sinistramente la notte.
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