CAPITOLO VIII
El-Kadur
Un momento dopo, il tenente di Capitan Tempesta, diroccata con
un'ultima scossa la trincea di macigni, entrava nella casamatta, esponendosi
alla luce della fiaccola.
Il disgraziato giovane era ridotto in uno stato miserando.
Aveva il capo fasciato con uno straccio lordo di sangue e di
polvere, la cotta di maglia a brandelli, che gli cadeva da tutte le parti, gli
stivaletti sbrindellati e per spada un troncone che non aveva che tre pollici
di lama, macchiato di sangue anche quello fino all'impugnatura.
Il suo volto, in quelle dodici o quindici ore, era diventato così
sparuto, come se avesse sofferto la fame per otto giorni.
— Voi, signore! — aveva esclamato l'arabo. — In quale stato vi
rivedo!
— Ed il capitano? — chiese invece il tenente, con premura.
— Dorme tranquillo. Non svegliamolo, signor Perpignano. Ha molto
bisogno di riposo. Guardatelo!
Il tenente stava per appressarsi alla duchessa, quando questa, destata
dal rumore, aprì gli occhi.
— Voi, Perpignano! — esclamò, facendo un moto di gioia. — Come
siete uscito vivo dalle mani dei turchi?
— Per un puro miracolo, Capitan Tempesta, — rispose il veneziano.
— Se mi avessero però scoperto non mi avreste riveduto più di certo, poichè
quanti fuggiaschi sono riusciti a scovare fra le macerie e nelle cantine delle
case, altrettanti ne hanno macellati.
L'infame Mustafà non ha fatto grazia a nessuno.
— A nessuno! — esclamò la duchessa con indicibile angoscia. — Nemmeno
ai capitani?
— Nemmeno a quelli, — rispose il tenente, frenando a stento un
singhiozzo. — Il miserabile Vizir ha tagliato di sua mano l'orecchio destro al
prode Bragadino e reciso un braccio, poi lo ha fatto scorticare vivo alla
presenza dei giannizzeri.
La duchessa aveva mandato un grido d'orrore:
— Infami! Infami!
— Poi ha fatto decapitare Astorre Baglione, Martinengo, tagliare a
pezzi il Tiepolo e Manoli Spilotto e gettare le loro povere carni in pasto ai
cani.
— Mio Dio! esclamò la duchessa, coprendosi gli occhi come se
cercasse di sfuggire a qualche spaventosa visione.
— E gli altri, signor tenente? — chiese El-Kadur.
— Tutti sterminati.
Mustafà non ha risparmiato che le donne ed i bambini che manderà schiavi a
Costantinopoli.
— Tutto è finito dunque per il Leone di San Marco? gemette la
duchessa.
— La bandiera della Repubblica dell'Adriatico ha cessato per
sempre di sventolare su Cipro.
— E nessuno più tenterà di vendicare una sì terribile disfatta?
— Le navi della Repubblica, Capitan Tempesta, daranno un giorno a
queste tigri asiatiche quello che si meritano. Le galere di Venezia bagneranno
l'Arcipelago di sangue turco, non temete. La Serenissima laverà l'onta e Selim
II sconterà le inaudite crudeltà commesse dal suo gran vizir.
— Ma Famagosta è un cimitero.
— Un orrendo cimitero, Capitan Tempesta, — rispose il veneziano,
con voce profondamente commossa. — Le vie sono piene di cadaveri e sulle mura
sfasciate fanno orribile mostra le teste di coloro che l'abitarono e la
difesero strenuamente.
— E voi, come siete sfuggito alle scimitarre del turco?
— Ve lo dissi già, per un vero miracolo. Quando ormai tutto era
perduto ed i giannizzeri superavano i bastioni che nessuno più poteva
difendere, ho seguito nella fuga i pochi superstiti che avevano fatto fronte
agli assalitori sulla rotonda di San Marco.
— Fuggivo anch'io all'impazzata, senza sapere ove avrei potuto
trovare un rifugio, ritenendomi perduto, quando una voce umana sorse fra le
macerie d'una casa quasi completamente sfasciata.
— Qui, giovane! — m'avevano gridato. — Attraverso una inferriata,
quasi sepolta da ammassi di macigni, vidi due uomini che mi facevano dei
segnali disperati.
Vi era là la salvezza. Smossero le sbarre e mi trassero, o meglio
mi portarono in una specie di cantina oscurissima, non potendo io, per le
ferite e l'estrema stanchezza, reggermi quasi più in piedi.
— Chi erano quegli uomini generosi? chiese la duchessa.
— Due marinai della flotta veneziana che erano qui giunti coi
rinforzi capitanati da Martinengo: un mastro ed un gabbiere.
— Dove sono ora?
— Sempre nascosti in quella tenebrosa cantina, avendo chiusa
l'inferriata con dei massi affinchè i turchi non riescano a scoprire l'entrata.
— E come sapevate che io mi trovavo qui? — chiese la duchessa.
— Glielo avevo detto io, — disse El-Kadur.
— Sì ed io, anche in mezzo al furore della lotta, non mi ero
dimenticato il numero di questa casamatta rispose Perpignano.
— Perchè non sono venuti anche i due marinai?
— Non l'hanno osato, capitano, e poi temevano di trovare questo
rifugio già invaso dai giannizzeri di Mustafà.
— È lontana quella cantina?
— Appena trecento passi.
— Quegli uomini possono esserci di grande aiuto, signor
Perpignano.
— Lo credo anch'io, duchessa rispose il veneziano, dandole forse
per la prima volta il suo vero titolo di nobile donna.
La giovane rimase per qualche istante silenziosa, come se
riflettesse profondamente, poi, volgendosi verso l'arabo che era sempre
immobile presso di lui, gli chiese bruscamente:
— Sei sempre deciso?
— Sì, padrona rispose il figlio del deserto. — Solo quell'uomo
potrà salvarci.
— E se ti ingannassi?
— Il Leone di Damasco non giungerebbe fino qui, signora, El-Kadur
ha una pistola ed un jatagan nella sua fascia e saprà servirsene meglio
d'un giannizzero di Mustafà.
La duchessa si era voltata verso il veneziano che la guardava con
stupore, non potendo ancora comprendere in che cosa vi entrasse il turco, che
era stato scavalcato dinanzi alle mura di Famagosta.
— Credete, signor Perpignano, che una fuga sia possibile senza che
i turchi se ne avvedano? gli chiese.
— No, signora, — rispose il tenente. — La città è piena di
giannizzeri non ancora sazi di sangue cristiano e intorno alla città vi sono
non meno di cinquantamila asiatici, che vegliano onde nessuno possa allontanarsi.
— Va, El-Kadur, — disse la duchessa. — La nostra ultima speranza
sta nelle mani del Leone di Damasco.
L'arabo spense la miccia della pistola, si assicurò che il jatagan
scorresse facilmente nella guaina di pelle adorna di laminette d'argento,
rialzò con un moto nervoso il cappuccio infioccato e s'avvolse nel suo largo
mantello di lana, dicendo:
— Obbedisco, padrona.
S'avviò verso l'apertura, tenendo la testa china, quasi
interamente nascosta sotto il cappuccio, poi si volse bruscamente e fissando
sulla duchessa uno sguardo ardente, le disse con una profonda tristezza:
— Se io non tornerò più mai e la mia testa rimarrà nelle mani dei
turchi, ti auguro, signora, di ritrovare presto il visconte Le Hussière e con
lui riacquistare la felicità perduta.
L'ultima parola gli si era spenta in un sordo singhiozzo.
La duchessa d'Eboli si era alzata a sedere, tendendo la destra
all'arabo.
Il selvaggio figlio del deserto tornò verso il lettuccio
improvvisato, piegò un ginocchio a terra e depose sulla bianca mano un lungo
bacio che fece alla giovane l'effetto d'un ferro rovente applicato sulla sua
pelle.
— Va', mio buon El-Kadur, — diss'ella con un sospiro.
L'arabo si era alzato di colpo cogli occhi fiammeggianti.
— O il Leone di Damasco ti salverà, padrona, o lo ucciderò, —
disse con voce energica.
Levò rapidamente i massi e strisciò attraverso l'apertura, come
una belva che esce dalla tana, mentre la duchessa mormorava:
— Povero El-Kadur! Quanta fedeltà e quanti tormenti nel tuo cuore!
L'arabo, appena fuori, si era lasciato scivolare giù dall'enorme
massa di macerie che copriva tutta la base della torre e si era diretto là dove
vedeva brillare dei falò giganteschi che indicavano il campo turco,
improvvisato nel centro della città.
Non sapeva dove avesse preso alloggio il Leone di Damasco, ma
trattandosi del figlio d'un pascià e d'uno dei più valorosi e più popolari
guerrieri delle orde mussulmane, era sicuro di poterlo sapere subito.
Le vie di Famagosta erano immerse nell'oscurità, ritenendosi ormai
i turchi pienamente sicuri da ogni sorpresa, dopo che avevano sterminata non
solo l'eroica guarnigione, bensì anche gli abitanti atti ad impugnare le armi e
lo scudo.
I suoi occhi però distinguevano senza fatica cumuli di cadaveri
ancora insepolti, che torme di cani affamati dilaniavano ferocemente, per
rimettersi dai lunghissimi digiuni sofferti in tanti mesi d'assedio.
El-Kadur, dopo essere sfuggito tre o quattro volte agli assalti di
quelle bestie che sembravano idrofobe, prendendo i più feroci a colpi di jatagan,
giunse ben presto sulla vasta piazza fronteggiante la vecchia chiesa di San
Marco che riproduceva più modestamente però ed in minori proporzioni, quella
famosa di Venezia.
Un centinaio di giannizzeri, armati fino ai denti, bivaccavano
intorno ai fuochi, fumando e chiacchierando, mentre delle sentinelle vegliavano
agli angoli della piazza e dinanzi ad alcune abitazioni sfuggite
miracolosamente al fuoco infernale delle artiglierie mussulmane.
Un albanese che stava seduto sui gradini della chiesa, scorgendo
l'arabo, gli puntò contro un moschettone la cui miccia bruciava, chiedendogli:
— Chi sei e dove vai?
— Vedi bene che io sono un arabo e non un cristiano, — rispose lo
schiavo. — Sono un soldato di Hossein pascià.
— Che cosa vieni a fare qui?
— Ho da comunicare un ordine urgente al Leone di Damasco. Sai
dirmi dove si trova alloggiato?
— Chi ti manda?
— Il mio pascià.
— Non so se Muley-el-Kadel sarà ancora sveglio.
— Sono appena le nove.
— È ancora sofferente, tuttavia vieni. Alloggia in una di queste
case.
Spense la miccia del suo archibugio, si gettò l'arma a bandoliera
e si diresse verso una casetta di meschina apparenza, le cui pareti erano state
bucate in varii luoghi dalle bombe mussulmane e dinanzi alla quale vegliavano
due schiavi negri di forme erculee e due enormi cani arabi.
— Svegliate il vostro padrone, se si è già coricato, — disse
l'albanese ai due negri. — Vi è qui un messo di Hossein pascià che deve
parlargli.
— Il padrone è ancora sveglio rispose uno dei due schiavi, dopo aver
osservato sospettosamente l'arabo.
— Va' dunque ad avvertirlo, — disse l'albanese. — Hossein è un
pascià che non ischerza e che gode l'amicizia del gran vizir.
Lo schiavo entrò nella casa, mentre l'altro si poneva dinanzi alla
porta coi due cani, e poco dopo ne usciva dicendo all'arabo:
— Seguimi: il padrone t'aspetta.
El-Kadur strinse sotto l'ampio mantello la guardia dello jatagan
ed entrò risolutamente, deciso a tutto, anche ad assassinare il figlio del
potente pascià di Damasco, in caso di pericolo.
Il turco lo aspettava in una stanzetta a pianterreno, ammobiliata
meschinamente ed illuminata da una semplice torcia infissa in un fiasco di
terracotta. Era ancora un po' pallido per la ferita non ancora completamente
cicatrizzata, ma sempre bellissimo, con quegli occhioni neri e profondi, degni
di illuminare il volto di una urì del paradiso maomettano ed i baffettini
elegantemente arricciati.
Quantunque ancora invalido, indossava una splendida cotta di
acciaio, attraversata sotto i fianchi da una larga sciarpa di seta azzurra
sorreggente la scimitarra ed un ricchissimo jatagan, coll'impugnatura
d'oro adorna di turchesi.
— Chi sei tu? — chiese all'arabo, dopo d'aver fatto cenno al suo
schiavo di lasciarli soli.
— Il mio nome non ti direbbe nulla, — rispose l'arabo. — Mi chiamo
El-Kadur.
— Mi sembra d'averti veduto ancora.
— È probabile.
— È Hossein pascià che ti manda?
— No: ho mentito.
Muley-el-Kadel aveva fatto due passi indietro, mettendo
rapidamente una mano sull'impugnatura della scimitarra, senza però sguainarla.
El-Kadur lo rassicurò con un gesto, dicendo subito:
— Non credere che io sia qui venuto per attentare alla tua vita.
— Allora perchè hai mentito?
— Perchè diversamente non mi avresti ricevuto.
— Quale motivo ti ha costretto a servirti del nome di Hossein
pascià? Chi ti ha mandato?
— Una donna a cui devi la vita, — rispose El-Kadur con voce grave.
— Una donna! — esclamò il turco, facendo un gesto di stupore.
— Anzi, una gentildonna cristiana, appartenente alla più alta
nobiltà italiana.
— Ed alla quale io debbo la vita!
— Sì, Muley-el-Kadel.
— Tu sei pazzo. Io non ho mai conosciuto alcuna gentildonna
italiana, come nessuna femmina mi ha mai salvata la vita. Il Leone di Damasco
può salvare sè stesso senza bisogno d'alcun aiuto.
— T'inganni, Muley-el-Kadel, — disse l'arabo, con voce calma. —
Senza la generosità di quella donna tu non avresti assistito alla presa di
Famagosta. La tua ferita non è ancora cicatrizzata.
— Ma di chi intendi parlare tu? Di quel giovane capitano che mi ha
scavalcato?
— Sì, di Capitan Tempesta.
— Spiegati meglio.
— Quella era la gentildonna italiana che ti ha risparmiata la
vita, mentre avrebbe potuto togliertela avendone il diritto.
— Che cosa dici tu! — esclamò il turco, arrossendo e poi
impallidendo. — Quel capitano che si batteva come un dio della guerra era una
donna! No! È impossibile! Non avrebbe potuto vincere ed atterrare il Leone di
Damasco.
— Quella era la duchessa d'Eboli, nota fra i cristiani sotto il
nome di Capitan Tempesta — disse El-Kadur.
La sorpresa di Muley-el-Kadel divenne tale che per parecchi
istanti fu incapace di parlare.
— Una donna! — esclamò finalmente, con accento di dolore. — Il
Leone di Damasco è disonorato e più non mi resta che infrangere la mia scimitarra.
— No, un prode come te non può spezzare la più valorosa lama
dell'esercito turco, — disse l'arabo. — La donna che ti ha vinto è d'altronde
la figlia del più formidabile spadaccino che abbia vantato Napoli.
— Non è lui che mi ha vinto, — rispose il turco, quasi con un
singhiozzo. — Io, scavalcato da una donna! L'onore del Leone è per sempre
perduto!
— Colei che ti ha ferito è una gentildonna, Muley-el-Kadel.
— Che mi avrà ben disprezzato.
— No, perchè è la tua avversaria che viene ora a far appello alla
generosità del Leone di Damasco.
Un lampo balenò negli occhi del giovane turco.
— La mia nemica ha bisogno di me? Non è dunque morto Capitan
Tempesta?
— È vivo, quantunque una scheggia di pietra l'abbia ferito.
— Dov'è? Voglio vederlo! — gridò Muley-el-KadeL.
— Per farla uccidere? La mia padrona è una cristiana.
— Chi sei tu?
— Il suo fedele schiavo.
— Ed è la duchessa che ti ha mandato da me?
— Sì.
— Per chiedermi che io l'aiuti a fuggire da Famagosta?
— E forse per qualche cosa d'altro ancora.
— Non correrà alcun pericolo durante la tua assenza?
— Non credo: il suo rifugio è sicuro e poi non è sola.
— Chi veglia su di lei?
— Il suo tenente.
Muley-el-Kadel tolse da
una sedia un mantello di lana oscura, prese da una tavola due lunghe pistole
coi calci intarsiati d'argento e di madreperla, e disse all'arabo:
— Conducimi dalla tua padrona.
El-Kadur lo guardò con diffidenza.
— Chi mi assicura, Muley-el-Kadel che non sia per tradirla?
Un vivo rossore imporporò le gote del turco.
— Tu diffidi di me? — chiese con accento indignato.
Poi riprese dopo un momento di silenzio:
— Hai ragione: ella è
cristiana ed io sono un turco, un nemico della sua razza, ma sappi che io ho
disapprovato le crudeltà commesse dal gran vizir, crudeltà che hanno disonorato
per sempre le armi ottomane.
Io non so se tu, come arabo, sei un cristiano od un seguace del
Profeta, ma tu certo devi conoscere il Corano e non devi ignorare che un turco
non giura su quel libro sacro, dettato dalla penna di luce dell'arcangelo
Gabriele, per un capriccio.
Noi troveremo presso qualche muezzin uno di quei libri ed
io giurerò solennemente in tua presenza, di salvare la tua padrona alla quale
debbo la vita. Lo vuoi?
— No, signore, — rispose
l'arabo. — Ti credo senza che tu giuri. Sapevo che il Leone di Damasco sarebbe
stato non meno generoso della duchessa d'Eboli mia padrona.
— Dove si trova?
— Nascosta in una casamatta.
— Ferita gravemente?
— No.
— Avete nulla da mangiare là dentro?
— Solo del vino di Cipro e delle olive.
Muley-el-Kadel batté le mani ed un momento dopo entravano i due
schiavi negri.
Scambiò con loro alcune parole in una lingua sconosciuta ad
El-Kadur, poi disse ad alta voce in arabo:
— Seguimi: questi uomini ci raggiungeranno.
Uscirono dalla casa, attraversarono la piazza senza che le
sentinelle osassero fermarli e s'avviarono lentamente verso la torre, come due
guerrieri incaricati di fare la ronda dietro le mura di circonvallazione.
Si erano allontanati dalla piazza di tre o quattrocento passi,
quando furono raggiunti da due negri i quali portavano due ampi panieri e
tenevano a guinzaglio i due alani arabi.
Un drappello di giannizzeri che frugava fra le macerie delle case
colla speranza di trovarvi nascosto qualche cristiano, si provò a fermarli.
— Andatevene o vi faccio frustare come cani, — gridò
Muley-el-Kadel. — Fate largo al Leone di Damasco. Non siete dunque ancora sazi
di stragi?
Nessuno ebbe l'audacia di rispondere al figlio del potente pascià
e si dileguarono subito a corsa furiosa, lasciando libero il passo.
Muley-el-Kadel si assicurò prima che non vi fosse alcuno intorno
alla torre, poi seguì l'arabo attraverso le rovine, sempre accompagnato dai due
schiavi e dai cani.
Appena si trovò nella casamatta, che era ancora illuminata dalla
torcia, il turco si sbarazzò del mantello e dopo d'aver scambiato con
Perpignano un cortese saluto, s'accostò rapidamente al lettuccio su cui si
trovava la duchessa d'Eboli ancora sveglia.
— La donna che mi ha vinto? — esclamò con una certa commozione. —
Vi ravviso, signora!
Si era curvato posando un ginocchio a terra, come un gentiluomo
europeo, fissando i suoi occhi nerissimi in quelli della duchessa.
— Signora, — disse con nobiltà. — Non è un nemico quello che vi
sta dinanzi: è un amico che ha avuto l'occasione di ammirare il vostro
straordinario coraggio e che non serba alcun rancore di essere stato vinto da
una giovane donna. Comandate: il Leone di Damasco è pronto a salvarvi ed a
pagare il suo debito.
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