CAPITOLO XVI
Le bizzarrie d'Haradja
Il drappello era partito a corsa sfrenata, avendo Haradja lanciato
il suo arabo, tormentandolo con dei leggeri colpi di mano ed aizzandolo con
delle grida selvagge.
Pareva che quella strana donna provasse una vera ebbrezza in
quella corsa furiosa, che forse le ricordava le bordate delle galere di suo zio
e il fischio furibondo dei venti del Mediterraneo.
Nè i soprassalti improvvisi del suo destriero, costretto a
superare talvolta dei crepacci, nè le scosse, la muovevano o la
impressionavano. Si manteneva ritta in sella come se il suo corpo formasse un
essere solo con quello del cavallo.
Col volto animato, gli occhi neri ardenti, la capigliatura
lunghissima svolazzante, spingeva senza posa il suo arabo, respirando a pieni
polmoni l'aria e gridando, fra uno strappo delle briglie ed una carezza rude
sulla folta criniera del destriero:
— Aizza il tuo cavallo, mio capitano! Un arabo non può rimanere
indietro!
La duchessa che cavalcava superbamente, forse meglio d'un uomo,
faceva fare al suo animale degli sforzi prodigiosi per mantenerlo a fianco di
quello che montava la nipote del Pascià.
La scorta invece, a poco a poco, rimaneva indietro, allungandosi
sempre più, nonostante le grida ed i colpi di sperone dati senza misericordia
ai poveri animali.
Solamente il capitano turco e Perpignano riuscivano a tenersi
vicini alle due donne.
Quella corsa infernale durò venti minuti e non cessò che sul
piazzale del castello.
La duchessa, dopo d'aver fatto fare al suo cavallo un volteggio
fulmineo per arrestarlo, era balzata a terra per aiutare Haradja a scendere, ma
questa l'arrestò con un gesto imperioso, dicendo poi:
— La nipote di Alì pascià scende da cavallo e monta
all'arrembaggio senza aver bisogno nè di scudieri, nè di marinai.
Saltò agilmente a terra, senza servirsi delle staffe e volgendosi
verso la duchessa le disse con un sorriso provocante:
— Mio bel capitano, sei mio ospite nel mio castello ed ogni tuo
desiderio sarà per me un ordine.
— Troppo gentile, signora: cercherò di non abusare troppo della
tua ospitalità.
— Anzi: esigo che ne abusi, — rispose Haradja.
— Allora non sarò più io che comando, — disse la duchessa,
ridendo.
La nipote del grande ammiraglio parve che pensasse un momento su
quella risposta, poi disse pur ella ridendo:
— Hai ragione, capitano. Cominciavo invece io a dare dei comandi.
È una pessima abitudine; ma che cosa vuoi? Sono sempre stata abituata a dare
degli ordini e mai a riceverne. Sèguimi, la colazione è pronta, perchè odo il muezzin
ad intonare la preghiera del mezzodì.
Poi, facendo un gesto colla destra ed alzando impercettibilmente
le spalle, aggiunse a mezza voce:
— Il Profeta si accontenterà delle preghiere del suo sacerdote.
Dio è grande e può fare a meno delle nostre, almeno per un giorno.
— Che specie di donna è questa? — mormorò la duchessa che l'aveva
udita. — Feroce contro i cristiani, perchè non sono mussulmani, e se ne ride
della religione del Profeta e d'Allah. È un enigma? Stiamo in guardia,
Capitan Tempesta!
Haradja abbandonò i due cavalli a due palafrenieri, che erano
usciti dal castello correndo, raccomandò loro la scorta, poi, prendendo
familiarmente la duchessa per una mano, attraversò il cortile, salì uno scalone
ed entrò in una vasta sala dinanzi alla cui porta vegliavano due arabi avvolti
in lunghi mantelli di lana bianca, con grandi fiocchi rossi ai cappucci e colle
scimitarre snudate in mano.
— È pronta la colazione? — chiese Haradja, senza nemmeno guardarli
in viso.
— Sì, signora, — risposero i due guardiani, inchinandosi fino a
terra.
La sala era, come tutte quelle turche, assai elegante, quantunque
ammobiliata semplicemente, non essendovi nè grandi tavole nè mobili massicci
scolpiti.
Pochi divani di seta fiorata a vivaci colori, molte tende, molti
tappeti scintillanti di ricami d'oro e d'argento, delle mensole leggerissime
agli angoli e panoplie d'armi disposte artisticamente sulle pareti,
appartenenti a tutti i paesi dell'Europa e dell'Asia, essendovi archibugi
grossi dalla canna lunghissima senza arabeschi nè intarsi sui calci, archibugi
turchi e persiani, superbi per dorature e sculture, scimitarre, jatagan, spade
francesi e italiane, pugnali, "misericordie" ecc.
Nel mezzo vi era una tavola elegantemente imbandita, con una
tovaglia di seta gialla a grandi fiori bianchi, piatti d'argento
meravigliosamente scolpiti e bicchieri e bicchierini e vasi di cristallo di
Murano.
— Siedi, mio bel capitano, — disse Haradja, accomodandosi su una
poltroncina di broccato antico. — Faremo colazione soli, così potremo
discorrere liberamente senz'essere disturbati.
— Non preoccuparti, effendi, della tua scorta. Avrà
trattamento scelto, e non potrà lagnarsi dell'ospitalità ricevuta nel castello
d'Hussif, avendo dei cuochi abili e dei provveditori che mi portano ciò che vi
è di meglio a Costantinopoli e nelle isole dell'Arcipelago.
Ah! Sei giunto anzi in un buon momento. Ti farò assaggiare i pesci
miracolosi di Baloukla.
— Di Baloukla! — esclamò la duchessa — Che pesci sono?
— Come! Non conosci quella leggenda?
— Niente affatto, signora.
— Allora te la racconterò mentre li assaggeremo, effendi.
— Che strana creatura, — mormorò la duchessa.
Haradja prese dalla tavola un martelletto d'argento e batté un
colpo su una campana d'oro.
Tosto una tenda che nascondeva una porta si alzò e quattro schiavi
negri si avanzarono, recando una quantità di piatti d'argento contenenti dei
minuscoli pasticcini dolci, dei pasticcini profumati con diverse essenze e che
piacciono così tanto alle donne mussulmane.
— Ti stuzzicheranno l'appetito, — disse Haradja alla duchessa. — I
famosi pesci giungeranno poi.
La gentildonna ne assaggiò alcuni, lodandone la squisitezza, poi
entrarono altri due schiavi portando su un piatto d'oro una dozzina di pesci
colle scaglie dorate e che, particolare strano, avevano tutti una grossa
macchia nera sul fianco destro.
— Ecco un piatto raro, che sono felice di offrirti, effendi, —
disse Haradja. — Credo che nemmeno Selim, il nostro Sultano, ne mangi sovente,
essendo i mollah eccessivamente avari nel cederli. Mi costano assai:
anzi credo che l'oro pesi molto meno di questi abitanti delle vasche del
monastero di Baloukla.
— Un monastero che non conosco, non avendo mai guerreggiato fuori
dell'Arabia e dell'Asia Minore.
— Assaggiali prima, — disse Haradja, porgendo alla duchessa un
coltello dalla lama dorata.
La gentildonna ne squarciò uno e si mise a mangiare.
— Squisito, signora disse poi. — Nel Mar Rosso non vi sono pesci
così eccellenti.
— Sfido io!... I monaci
non li vendono a tutti, preferendo mangiarseli loro rispose Haradja,
sorridendo. — Ora comprendo perchè li vendano così cari! Tuttavia non rimpiango
affatto il denaro speso, trattandosi di offrirti un piatto degno dei Sultani di
Costantinopoli. Chi direbbe che questi pesci un giorno sono saltati da soli
fuori dalla padella?
— Questi pesci! — esclamò la duchessa.
— I loro avi, — rispose Haradja.
— Che cosa mi racconti, signora?
— Una storia autenticissima, effendi. Si racconta dunque, —
riprese Haradja senza interrompere il pasto — che Maometto II, il nostro Grande
Sultano, aveva deciso di assalire Costantinopoli in un giorno fissato.
— Il 29 maggio del 1453, — disse la duchessa.
— Conosci molto bene le epoche, mio bel capitano. Saresti anche
molto istruito?
— Molto poco, signora. Ti prego di continuare.
— Allora, giacchè sai che cosa è accaduto nei tempi passati, non
ignorerai che i greci di Costantino XIV, soprannominato Dracosès e che doveva
essere l'ultimo dei Paleologhi, aveva organizzata una poderosa difesa dopo
d'aver fatto pubblica penitenza nella chiesa di Santa Sofia.
— Sì, ho udito raccontare ciò dai vecchi incaricati d'istruirmi, —
disse la duchessa.
— Le truppe di Maometto, che avevano giurato d'impadronirsi a
qualunque costo della vecchia Bisanzio e di formare della chiesa di Santa Sofia
la più superba moschea dell'Oriente, ai primi chiarori dell'alba si erano slanciate
furiosamente all'assalto, espugnando con valore più che sovrumano le torri,
nonostante la difesa accanita che opponevano i guerrieri del Paleologo.
Vedendosi finalmente i greci sopraffatti dalle armi dei nostri
impavidi soldati, i quali s'avanzavano senza tregua, noncuranti degli uragani
di frecce che venivano scagliate contro di loro, un soldato fu incaricato di
recarsi nei conventi, onde avvertire quei sacerdoti della caduta della città.
In uno di quelli, chiamato il convento di Baloukla, stavano cucinando
dei pesci d'una razza speciale, molto apprezzati per la delicatezza delle loro
carni, che quei monaci allevavano in certe piscine.
— Il cuciniere che stava per levare dalla padella colma d'olio
bollente alcuni di quelli, udendo la notizia recata dal soldato, alzò le
spalle, parendogli impossibile che i mussulmani fossero riusciti ad
impadronirsi della città, poi si mise a gridare:
— Se ciò che si dice è vero vorrei vedere questi pesci, già
fritti, saltare a terra e nuotare. Diversamente non credo a ciò che ha detto
quell'uomo.
Aveva appena pronunciate quelle parole, quando, fra lo stupore
generale di tutti i presenti, si videro quei pesci balzare fuori dalla padella,
ritornare immediatamente vivi e mettersi a guizzare sul lucido pavimento.
La notizia di quel miracolo non tardò a giungere agli orecchi di
Maometto e, credendo di vedere in quello un segno della potenza del Profeta,
fece ricercare quei pesci e avendoli ritrovati ancora vivi, li fece mettere in
una vasca del suo palazzo.
E questi sarebbero i discendenti di quelli? — chiese la duchessa.
— Sì, effendi: guardali bene e vedrai che tutti hanno una
macchia nera al lato sinistro.
Sarebbe come la loro marca di fabbrica.
Credi tu che quel miracolo straordinario sia veramente accaduto?
— Ho i miei dubbi, signora.
— Ed io non ci credo affatto, — disse Haradja che rideva
allegramente. — Il Profeta doveva avere ben altro da fare quel giorno, per
occuparsi dei pesci del convento di Baloukla. Comunque sia, non negherai che
sono veramente eccellenti.
— Squisiti, — rispose la duchessa, che guardava con crescente
meraviglia, osservando quella donna che pareva si deridesse perfino del Profeta
e che anzi, cosa inaudita in una turca, si divertisse a canzonarlo.
Ai pesci seguirono altri piatti, tutti serviti in tondi d'oro o
d'argento, poi delle frutta deliziose dell'Egitto e della Tripolitania, dei
dolciumi fortemente profumati, quindi uno schiavo servì del vero moka, che
anche la duchessa gustò moltissimo, essendo il caffè piuttosto raro in quell'epoca
e solo usato dai grandi signori turchi, costando quasi a peso d'oro.
Haradja non aveva cessato di chiacchierare con molto brio,
provocando sovente delle risa, poi quando le chicchere furono portate via, si
fece recare un ricchissimo cofanetto d'argento, meravigliosamente cesellato e
adorno di pietre preziose di molto valore e levò due piccoli rotoli bianchi
offrendone uno alla duchessa.
— Che cosa sono? — chiese questa, osservandoli con curiosità.
— Si fumano, perchè sotto questa leggera carta vi è del tabacco.
Non ne hai mai vedute nel tuo paese, effendi?
— No, signora.
— Non fumano in Arabia?
— Sì, alcuni usano la pipa, ma di nascosto, onde non correre il
pericolo di farsi tagliare le labbra od il naso. Sai che Selim ha proibito
l'uso del tabacco e che ha dato ordini severissimi contro coloro che ne fanno
uso.
Haradja proruppe in uno scoppio di risa.
— E tu credi che io abbia paura di Selim? Lui è a Costantinopoli
ed io sono qui. Mandi i suoi giudici a condannarmi e vedrà come li tratterò io.
Ho dei pali piantati sulla cima delle Torri e quelle genti potrebbero servire
benissimo da mostra-vento.
Fuma liberamente, mio bel capitano. Ci troverai piacere ad
inebriarti un po' con questo fumo dolcissimo e profumato.
Accese la sigaretta — le prime che si cominciavano a fabbricare
allora — aspirò una boccata di fumo, che poi lasciò sfuggire lentamente
attraverso le sue belle labbra, rosse come corallo, appena socchiuse, quindi
riprese:
— Selim! Un sultano indolente, che per evitare ogni fatica, si fa
condurre in lettiga attraverso i giardini del suo serraglio e che non possiede
altra forza, che quella di ordinare continuamente dei massacri per compiacere
le belle del suo harem.
Oh! Non somiglia certo a Maometto II, nè a Solimano. Se non avesse
due grandi capitani come Mustafà e mio zio Alì, Cipro sarebbe ancora nelle mani
dei veneziani e forse le galere della Repubblica minaccerebbero nuovamente
Costantinopoli.
— Eppure ho udito raccontare, signora, che anche a te non
spiacciono le stragi.
— Io sono una donna, effendi.
— Non ti comprendo rispose la duchessa.
— Nell'Arabia che cosa fanno le tue donne?
— Si occupano a preparare il pranzo ai mariti ed accudire le tende
ed i cammelli.
— Sicchè hanno delle distrazioni, — disse Haradja, che continuava
a fumare placidamente la sigaretta con studiata lentezza.
— È vero, signora.
— E le donne turche quali distrazioni hanno? Rinchiuse nei loro harem,
lontane dai rumori della città, quasi sepolte vive, si stancano ben presto e
dei profumi e delle danze delle schiave e dei racconti delle vecchie. Una noia
profonda si impadronisce di loro ed un prepotente bisogno di emozioni forti,
siano pure crudeli, le prende.
Sentono allora il bisogno di vedere degli esseri umani soffrire,
sognano sangue e stragi e diventano cattive.
Io ho passata la mia gioventù nell'harem di mio zio. Potevo
diventare diversa dalle altre donne turche?
D'altronde, tutte si rassomigliano, siano turche o cristiane.
— Oh! — fece la duchessa, con un energico gesto di diniego.
— Ascoltami, effendi: una sera una giovine e bellissima
cristiana, appena sedicenne, giocava sulle rive del Mediterraneo, assieme ad
una delle sue governanti.
Ad un tratto dalle scogliere vicine sbucano, ratti come gazzelle,
dei pirati turchi, e sfidando le frecce dei guardiani del vicino castello,
trucidano la governante e rapiscono la fanciulla.
Non era una turca quella, bensì una cristiana, anzi una nobile
italiana.
La portano, malgrado le sue lagrime e le sue preghiere, a
Costantinopoli e la offrono come schiava ai provveditori di Solimano.
Quella bellezza colpisce il Sultano e ne fa la sua sposa favorita.
La fanciulla dimentica la sua patria, la sua religione, suo padre,
che forse la piangeva ancora, e non tarda a venire colta da quella noia
profonda, che non è una malattia esclusiva delle donne turche.
Quella cristiana diventò un mostro di crudeltà. Allorché s'accorse
di essere invidiata pel fasto inaudito che ella amava sfoggiare, non visse che
per far eseguire condanne di morte.
Le favorite del suo sposo, padrone e signore ad un tempo, furono
da lei fatte strangolare dai lacci di seta dei muti e gettate di notte nel
Bosforo: nemmeno le Figlie di Solimano ebbero grazia dinanzi a quella tigre in
gonnelle e furono di notte gettate nel Mar Nero, rinchiuse in un sacco di pelle
insieme ad un gallo e ad un gatto, onde la loro agonia fosse più tormentosa.
Che più? Fu col sorriso sulle labbra che fece strozzare le figlie
maggiori del Sultano, sotto la stessa tenda di lui, trovandosi egli in
quell'epoca al campo: e fu pure ridendo che tentò di avvelenare il giovane
erede al trono, offrendogli un piatto di frutta candite.
Era quella donna turca o cristiana? Dimmelo, effendi!
— Come si chiamava?
— Kourremsultana.
— Roxelana, vuoi dire.
— Sì, la chiamavano anche così, — disse Haradja.
— Forse l'aria che si respira sul Bosforo l'aveva avvelenata, —
rispose la duchessa.
— Può essere vero. Ah!
— Che cosa vuoi, signora?
— Mi ero scordata d'una cosa assai interessante.
— Quale?
— Tu sei l'amico del Leone di Damasco.
— Te lo dissi.
— Aggiungesti anzi che quel formidabile guerriero non ti avrebbe
fatto paura, è vero, effendi?
— Mi sembra, — rispose la duchessa che si teneva in guardia, non
riuscendo a sapere dove quella strana creatura andasse a finire, nè a che cosa
mirasse.
— Vedi, effendi, qualche volta, dopo aver pranzato, mi
sento prendere anch'io da quella noia sanguinaria che coglieva così sovente
Kourremsultana. Io sono turca, quindi ho più ragione che quella Sultana.
— Non ti comprendo, signora, — disse la duchessa.
— Vorrei vederti, effendi, misurare col capitano Metiub,
che si vanta di essere il migliore spadaccino della squadra di mio zio.
— Se lo vuoi, signora, — rispose la duchessa, aggrottando
lievemente la fronte.
Poi mormorò fra sè:
— Fa pagare un po' cari i suoi pranzi, questa donna. Che ci voglia
sempre qualche morto per prepararle l'appetito per la cena?
Haradja si era alzata e accostandosi ad una panoplia piena d'armi,
disse:
— Guarda, effendi, qui ci sono tutte le specie d'armi che
un guerriero come te può desiderare: scimitarre, jatagan, kangiar
persiani, lame diritte di Francia e d'Italia e pugnali. Il mio capitano sa
adoperarle tutte: quindi non avrai che da scegliere quella che meglio ti
conviene.
— Per meglio dimostrare la maestria d'uno spadaccino è più
acconcia la spada dalla lama diritta, — disse la duchessa.
— Metiub sa maneggiare la scimitarra come la spada, — disse
Haradja, quasi con trascuranza.
Ad un tratto parve però che avesse un lampo di pentimento.
S'avvicinò alla duchessa e guardandola fissa le chiese:
— Mio bel capitano, dimmelo francamente, sei proprio sicuro di te?
Mi rincrescerebbe vederti cadere, così bello e così giovane, morente ai miei
piedi.
— Hamid Eleonora non teme nessuno, — rispose fieramente la duchessa.
— Chiama il tuo capitano d'armi.
Haradja batté un martelletto d'argento su un disco di bronzo che
pendeva da una mensola e volgendosi verso lo schiavo che era accorso, gli disse
freddamente:
— Dite al capitano Metiub che l'aspetto qui, per vederlo giuocare
la sua vita.
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