CAPITOLO XIX
Il visconte Le Hussiére
Disceso lo scalone, i due schiavi si erano arrestati dinanzi ad
una delle stanze a pianterreno, che prospettavano il grande cortile, invitando
la duchessa ad entrare.
Nel momento in cui stava per varcare la soglia e passare sotto la
pesante tenda di broccato che i negri tenevano sollevata, udì dietro di sè una
voce ben nota a chiamare:
— Effendi!
La duchessa si era subito voltata, mentre i due schiavi mettevano
mano ai jatagan che portavano nelle larghe fasce di seta azzurra, avendo
forse ricevuto l'ordine dalla loro padrona di vegliare sulla sicurezza
dell'ospite.
— Ah! Sei tu, El-Kadur? — aveva chiesto Eleonora, vedendo l'arabo
avanzarsi attraverso i colonnati.
Poi, scorgendo i jatagan e già alzati, disse ai due
schiavi, con tono imperioso:
— Fermatevi: quell'uomo è il mio fedele servo ed ha l'abitudine di
dormire dinanzi alla mia porta. Andate: non ho nulla da temere.
— La padrona ha ordinato di vegliare su di te, effendi osò
timidamente osservare uno dei due schiavi.
— Non ne ho bisogno, — rispose la duchessa. — Io rispondo per voi.
Lasciatemi solo.
I due negri s'inchinarono fino a terra e risalirono lo scalone.
— Che cosa vuoi, El-Kadur? — chiese Eleonora, quando i passi degli
schiavi si spensero.
— Vengo a chiedere i tuoi ordini, padrona, — rispose l'arabo. —
Nikola Stradioto è impaziente di sapere che cosa deve fare.
— Nulla, per ora, — rispose la duchessa. — Potrebbe tuttavia
mandare qualcuno alla gagliotta onde avvertire i marinai di tenersi pronti per
salpare domani.
— Per dove? — chiese ansiosamente l'arabo.
— Per l'Italia.
— Lasceremo dunque Cipro?
— Domani il visconte Le Hussière sarà libero e la mia missione
sarà finita.
— Il padrone libero?
— Sì, El-Kadur.
L'arabo si contrasse, come se una scarica di archibugi lo avesse
improvvisamente colpito e piegò il capo sul petto.
— Il padrone libero! — mormorò. — Libero!
Uno spasimo supremo aveva alterato il suo viso.
— Tutto è finito, — disse poi fra sè — El-Kadur non assisterà alla
felicità della sua padrona.
Aveva estratto rapidamente il jatagan che portava alla cintura,
rivolgendo la punta verso il suo petto. Eleonora, che non lo perdeva di vista,
aveva scorto quell'atto.
— Che cosa fai, El-Kadur? — gli chiese con accento imperioso.
— Osservavo, padrona, se il filo di quest'arma era abbastanza
temprato per uccidere un turco rispose l'arabo.
— Quale turco?
— Eh! Prima di lasciare Cipro voglio portare con me la pelle d'un
miscredente! — rispose l'arabo, con un sorriso stridulo. — Coprirò con quella
il mio scudo di battaglia!
— Tu non dici il vero, El-Kadur, — disse la duchessa. — Vi è nei
tuoi sguardi una fiamma troppo cupa.
— Voglio uccidere un uomo, padrona. Poi Mustafà ammazzerà me, ma
che cosa importa? Sopprimerà un semplice schiavo!
Vi era una tale profonda amarezza nelle parole di El-Kadur che la duchessa
si sentì fremere.
— È una pazzia quella che sogni? — gli chiese.
— Può darsi.
— Il nome dell'uomo che vorresti uccidere?
— Non lo posso, signora.
— Lo voglio!
— Muley-el-Kadel.
— Il generoso mussulmano che mi ha salvato? È così che
ricompensate, voi arabi, coloro che vi strappano da una morte sicura? Siete
iene o sciacalli? Leoni no, di certo!
El-Kadur aveva curvato il capo senza rispondere. Un sordo
singhiozzo aveva lacerato il suo petto.
— Parla, — disse la duchessa.
L'arabo gettò violentemente indietro il mantellone bianco, poi
rispose con profonda amarezza:
— Un giorno, tuo padre, mi promise la libertà. Morì ed io rimasi,
come un cane fedele, nella tua casa.
Dovevo vegliare sulla figlia e nessun pericolo, nemmeno la morte
più orrenda, mi trattenne dal seguirti su questa isola maledetta.
La mia missione io l'ho compiuta: domani tu ed il signor visconte,
liberi, felici, spiegherete le vele pel vostro bel paese e non avrete più
bisogno di me.
Signora, lascia che il povero arabo segua il suo triste destino.
Il Profeta non mi aveva creato perchè io fossi contento.
Non ho che un solo desiderio: cercare la morte, per quanto possa
essere crudele, giacchè il vile mussulmano non è generoso. Lasciami uccidere
quell'uomo, padrona; l'uomo che ha posato su di te i suoi occhi e che
segretamente ti ama; e non dimenticare che tu sei cristiana. La vita del povero
schiavo almeno avrà servito a qualche cosa: a sopprimere un rivale del padrone.
La duchessa si era accostata rapidamente all'arabo, che si era
raccolto in un angolo della stanza, come una belva in agguato.
— Dunque tu credi? — gli chiese.
— El-Kadur vede, osserva e non s'inganna, — rispose l'arabo. — Di
Haradja non mi occupo. Quella donna è folle, come sono pazze tutte le donne
turche. È il Leone di Damasco che m'inquieta...
— Perchè, El-Kadur?
— Perchè lo schiavo ha letto nel cuore della sua padrona.
— Che! Una cristiana che ama un cristiano non potrà giammai amare
un turco, un nemico della nostra razza!
L'arabo fece un gesto largo, poi rispose:
— Il destino delle genti è nelle mani di Allah! Spezzalo,
padrona, se puoi.
— Dio non è Maometto: la sua potenza è infinitamente superiore a
quella del Profeta. Ti sei ingannato, El-Kadur, — disse Eleonora.
— No, padrona, gli occhi del mussulmano ti hanno sfiorato il cuore.
— Ma non l'hanno toccato ancora. Come potresti tu ammettere che
io, donna, avessi lasciata l'Italia e gli agi della vita per indossare delle
vesti maschili e gettarmi entro Famagosta e misurarmi contro un nemico crudele
e spietato, che non risparmia il cristiano, se il mio cuore non l'avessi dato
tutto al visconte? Quale altra donna avrebbe osato tanto? Dimmelo, El-Kadur.
Ho amato intensamente il signor Le Hussière e non saranno gli
occhi del Leone di Damasco che me lo faranno dimenticare.
— Eppure, — disse l'arabo, socchiudendo le palpebre — vedo
attraverso il tuo cammino un uomo che non è il visconte.
— Fantasie.
— No, padrona; egli porta il turbante intorno al cimiero e la sua
spada è ricurva.
— Follìe, — disse la duchessa, la quale però appariva molto
turbata.
— L'arabo non s'ingannerà, padrona: lo vedrai. Il turco vincerà il
cristiano.
— Tu sei pazzo, El-Kadur. Eleonora non tradisce l'uomo che pel
primo l'ha amata.
— Vedo buio intorno a te, padrona.
— Basta, El-Kadur.
— Sia pure, padrona.
La duchessa si era messa a passeggiare per la stanza, in preda ad
una vivissima agitazione.
L'arabo, sempre immobile, come una statua di bronzo, pareva che
studiasse profondamente il viso della giovane donna, che andava alterandosi.
— Dove sono il signor Perpignano e Nikola Stradioto? — chiese ad
un tratto la duchessa, fermandosi.
— Sono alloggiati in una sala del cortile assieme ai marinai e
allo schiavo di Muley-el-Kadel.
— È necessario che tu li avverta che domani noi riprenderemo il
mare. Hanno saputo nulla della decisione d'Haradja?
— No, padrona.
— Sarà cosa prudente mandare qualcuno alla gagliotta onde quei due
greci raddoppino la sorveglianza. Se qualche turco fugge nessuno di noi
uscirebbe vivo dalle mani di Haradja. Conosco ormai troppo bene la crudeltà di
quella donna. Ah!
— Che cos'hai, padrona? chiese l'arabo.
— E lo sciabecco?
— Ci pensavo anch'io in questo momento. Se la nipote del pascià ci
seguisse fino alla baia, quale spiegazione potremmo noi dare sulla misteriosa
scomparsa dell'equipaggio turco?
— Noi stavamo per perderci scioccamente tutti disse Eleonora, che
si era fatta pallida. — Sono più che certa che Haradja ci accompagnerà e forse
con una buona scorta. Non vi sono sentinelle nel cortile?
— No, padrona.
— Va' a chiamarmi Nikola. Bisogna che qualcuno questa notte lasci
il castello e si rechi senza indugio alla rada. Lo sciabecco deve sparire, se
vogliamo salvarci.
El-Kadur socchiuse adagio, senza far rumore, la porta e guardò nel
cortile e sotto le arcate.
— Sembra che tutti si siano ritirati, — disse poi. — Non vedo
alcun uomo. D'altronde che cosa potrebbe temere questa rocca, ora che il Leone
di San Marco non rugge più?
— Conduci qui Nikola.
L'arabo scomparve silenziosamente sotto le arcate.
Qualche minuto dopo il rinnegato greco, che non doveva essersi
ancora coricato, si trovava dinanzi alla duchessa.
— Sapete già di che cosa si tratta, Nikola? — gli chiese Eleonora.
— Sì, il vostro schiavo me lo ha detto.
— Che cosa ne pensate?
— Che lo sciabecco deve assolutamente scomparire, — rispose il
greco. — Lo faremo rimorchiare in alto mare ed affondare. Così si potrà far
credere alla nipote del pascià od ai suoi capitani che ha salpato le àncore per
compiere qualche esplorazione lungo le rive.
— Chi andrà ad avvertire i vostri uomini?
— Ho un marinaio svelto, agile come una scimmia e coraggioso, —
rispose Nikola. — S'incaricherà lui di recarsi alla rada.
— E come potrà uscire dal castello? Vi saranno certamente dei
giannizzeri a guardia del ponte levatoio.
— Non sarà da quella parte che passerà, signora. Vi sono parecchie
bocche da cannoniere al di sopra del fossato e Olao non si troverà imbarazzato
a sgusciar fuori. Rispondo io per lui.
— Darete ordine d'affondare lo sciabecco?
— Non possiamo farne a meno; d'altronde quel piccolo veliero non
ci sarebbe d'alcuna utilità.
Riposate tranquilla, signora, e non preoccupatevi. Fra cinque
minuti il mio marinaio sarà fuori della rocca. Buona notte.
Appena il greco fu uscito, la duchessa chiuse e sprangò la porta e
si gettò sul letto senza spogliarsi, mormorando:
— Domani finalmente lo rivedrò. Dio, proteggici.
Nessun avvenimento turbò il sonno della guarnigione della rocca.
Olao doveva essersi allontanato, senza attirare l'attenzione delle sentinelle
vigilanti sui merli delle torri, perchè nessun grido d'allarme aveva rotto il
silenzio della notte.
Quando ai primi albori la duchessa uscì sotto i chioschi, due
schiavi l'attendevano al di fuori, mentre in mezzo al cortile, sotto una tenda,
la sua scorta stava sorseggiando il caffè e chiacchierando animatamente.
— La padrona ti aspetta, effendi, — disse uno degli schiavi
alla duchessa.
— È giunto il cristiano? — chiese Eleonora con voce trepidante.
— Lo ignoro, effendi; qualcuno però deve essere entrato nella
rocca questa notte, avendo udito a scorrere le catene del ponte levatoio.
— Attendetemi un momento. Devo dare alcuni ordini ai miei uomini.
Attraversò il cortile e si diresse verso i rinnegati. Nikola e
Perpignano, vedendola avvicinarsi si erano frettolosamente alzati, muovendole
incontro.
— È partito il vostro marinaio? chiese a mezza voce al greco, dopo
d'aver stretta la mano al veneziano.
— A quest'ora lo sciabecco sarà in fondo al mare, — rispose
Nikola, — Ho veduto io stesso Olao passare attraverso la cannoniera e lasciarsi
cadere nel fossato e non ho udito alcuna sentinella dare l'allarme.
— Ed il visconte? chiese Perpignano.
— Pare che sia già qui rispose la duchessa.
— Sicchè, fra poco lo vedrete.
— Certo.
— E non avete pensato, signora, al pericolo a cui state per
esporvi?
— A quale, Perpignano?
— Che egli possa subito riconoscervi e che un grido, sia pure
involontario, vi tradisca.
La duchessa era diventata bianca come un cencio di bucato.
L'osservazione del veneziano l'aveva atterrita.
Poteva darsi che il francese, vedendosela dinanzi, dopo tanti mesi
di separazione, non potesse frenare un grido, un moto, uno scatto. Che cosa
sarebbe successo allora?
— Ho paura, — disse la duchessa. — Se si potesse avvertirlo?
— Lasciate pensare a me, signora, — disse il greco. — Appartengo
alla vostra scorta e come tale posso ben vedere il prigioniero.
Qui si hanno molte attenzioni per noi e ci trattano come ospiti
graditi. Posso quindi approfittare delle buone disposizioni di questi cani di
turchi.
— Andate pure dalla nipote del pascià e lasciate fare a me.
Conosco i mussulmani, io.
— Lo avvertirete, Nikola?
— Lo metterò in guardia, signora.
— Conto su di voi. Vi è maggior pericolo che della presenza dello
sciabecco.
— Lo so, signora. Vi è troppa gente qui per impegnare la lotta. Ho
saputo che vi sono quattrocento combattenti fra marinai e giannizzeri.
— Preparatevi a partire.
— Quando darete l'ordine, duchessa, — disse Perpignano — noi
saremo pronti a qualunque sbaraglio. È vero, Nikola?
— Sì, Purchè le nostre armi bevano sangue mussulmano, — rispose il
greco.
Eleonora fece loro un gesto d'addio e raggiunse i due schiavi che
l'aspettavano sui primi gradini dello scalone.
— Vi seguo, — disse.
Salì al piano superiore ed entrò, non senza una profonda apprensione,
nella sala dove aveva già pranzato e cenato.
Haradja, più bella che mai, vestita in seta rosa e coi calzoncini
larghi in seta azzurra, l'aspettava dinanzi alla tavola sulla quale fumava il
moka.
Aveva, intrecciate fra i capelli neri, delle perle superbe e
portava agli orecchi dei pendenti formati da diamanti e da zaffiri grossi come
nocciole ed ai piedi delle scarpettine di marocchino ricamate in oro, con
pietre preziose e la punta molto rialzata.
In testa aveva un turbantino di seta rossa con pizzi di Murano di
gran valore e su un braccio un ampio mantello di lana bianca leggerissima, con
ricami d'argento molto larghi.
— Il cristiano è giunto questa notte, — disse, appena la duchessa
le comparve dinanzi. — Ci aspetta fuori dal castello.
Eleonora ebbe un sussulto, ma si guardò bene dal tradire
l'emozione interna.
— Viene dagli stagni morti? — chiese, fingendo di mostrarsi
noncurante.
— Sì.
— È sofferente forse?
— L'aria pestifera di quelle acque stagnanti non fa bene a
nessuno, — rispose Haradja. — Bevi, mio bel capitano, e non occuparti di
quell'infedele.
Il clima dolce di Venezia, se è vero che Mustafà lo manderà a
respirare le molli brezze dell'Adriatico, lo rimetterà presto in salute. Vuoi
partire subito?
— Sì, Haradja, se non hai nulla di contrario.
— Non è del cristiano che mi preoccupo disse la nipote del grande
ammiraglio, guardandola fissa. — È la tua compagnia che questa sera mi
mancherà. Dolce serata che non dimenticherò mai! Mi pareva di non essere più in
questo triste castello d'Hussif! Ma tu tornerai presto, è vero effendi?
— chiese poi, con impeto. — Tu me l'hai promesso.
— Sì, se il Leone di Damasco non mi ucciderà.
— Uccidere te! No, non è possibile! — esclamò Haradja.
Poi, dopo un momento d'angosciosa esitazione, disse, come parlando
fra se stessa:
— Che la vendetta possa essermi fatale?...
Scosse la testa con una mossa brusca, poi, posando una mano sul
braccio destro di Eleonora, riprese:
— No, il Leone di Damasco non potrà mai vincerti, effendi.
Questo braccio io l'ho veduto alla prova e se ha vinto la prima lama della
flotta, abbatterà anche quella di Muley-el-Kadel.
Tu che sei il più giovane di tutti, sei ormai il più formidabile
spadaccino dell'armata mussulmana e m'incarico io di farlo sapere anche al
Sultano.
Poi, tornando seria, quasi triste, chiese con un sospiro a
malapena represso:
— Non mi dimenticherai, è vero, effendi, e tornerai qui presto.
— Lo spero rispose Eleonora.
— Me lo hai promesso.
— Ma tu sai, Haradja, che la vita umana è nelle mani di Allah e
del Profeta.
— Allah e Maometto non saranno così crudeli di sopprimere una così
giovane e rigogliosa esistenza.
Le uri del paradiso ti aspetteranno più tardi. Vuoi che partiamo?
Vedo che tu sei impaziente di lasciarmi.
— No, di compiere il mio dovere, Haradja: io sono un soldato e
Mustafà è il mio supremo comandante.
— Hai ragione, Hamid: devi obbedire innanzi tutto. Orsù, partiamo.
I cavalli e la mia scorta a quest'ora devono essere pronti.
Si gettò indosso un ampio mantello di lana finissima, con una
larga bordatura d'argento, alzò il cappuccio infioccato coprendosi la testa e
parte del viso e discese lo scalone, seguita dalla duchessa e preceduta dai due
arabi che stavano sempre di guardia dinanzi alla porta della sala.
|