CAPITOLO XXVIII
Il tradimento d'Haradja
Tornò indietro, senza essersi fatta vedere dalla scorta e chiamò
il maggiordomo, che attendeva i suoi ordini in una sala attigua a quella che
Haradja usava ordinariamente per ricevere le persone di sua confidenza e cenare
o pranzare in loro compagnia.
Il turco, un vecchio eunuco assai obeso e di statura quasi
gigantesca, doveva aver già indovinato il pessimo tiro giuocato dalla sua
padrona al Leone di Damasco, poichè, nel vederla entrare, si era permesso di
sorriderle e di ammiccare furbescamente gli occhi.
— Il sotterraneo è sicuro? — chiese Haradja.
— Sì, padrona, — rispose l'eunuco, — Non ha che una sola uscita e
quella è chiusa da una porta laminata in ferro, capace di resistere anche ad
una colubrina.
— Va' a chiamare il comandante dei giannizzeri ed intanto fa'
servire alla scorta di Muley-el-Kadel caffè, gelati e dolci e pregali di
disarmare e di riposarsi, finchè il loro padrone avrà terminato di far
colazione con me.
— Obbediranno?
— Ne dubiti?
— Ho veduto il Leone di Damasco sussurrare delle parole agli
orecchi di quel negro, che sembra sia il comandante della scorta.
— Va' e non occuparti d'altro. Al resto penso io. Attendo il
capitano dei giannizzeri nella mia sala.
L'eunuco, quantunque fosse poco persuaso, discese lo scalone e
comandò a parecchi schiavi, che l'aspettavano sulla soglia d'una stanza a
pianterreno, di portare dei copiosi rinfreschi alla scorta, poi mosse
risolutamente verso Ben-Tael che pareva s'impazientisse di non veder tornare il
suo padrone.
— Prega i tuoi uomini di spegnere le micce dei loro archibugi e di
scendere da cavallo, — gli disse. — Il
Leone di Damasco sta pranzando colla mia padrona e non sarà fra voi prima di
un'ora.
Ben-Tael fece un gesto di stupore.
— Il mio signore pranza colla nipote del pascià! È impossibile!
— E perchè? — chiese l'eunuco. — Che cosa vi trovi di strano?
Forse che il Leone di Damasco non era un amico della mia padrona?
— Era, — disse Ben-Tael. — Ma non so se lo sia ancora e noi non
siamo giunti in qualità veramente di amici.
Dirai quindi al mio signore che noi aspetteremo il suo ritorno
rimanendo in sella.
— Haradja vi manda dei rinfreschi, — disse l'eunuco, accennando
agli schiavi che s'avvicinavano portando dei larghi vassoi d'argento pieni di
chicchere, di tazze e di tondi colmi di pasticcini d'ogni genere.
Ben-Tael lo guardò fisso negli occhi, come avesse cercato di
leggergli qualche segreto pensiero, poi rispose, con accento risoluto:
— Noi non abbiamo bisogno di nulla. Ringrazierai però egualmente
la tua signora della sua gentile attenzione a nostro riguardo.
— Rifiutate?
— Sì, — risposero asciuttamente gli uomini della scorta ad una
voce.
— La mia padrona potrebbe offendersi.
— Il Leone di Damasco la tranquillizzerà, — disse Ben-Tael. — Noi
dobbiamo obbedire ai suoi ordini e, finchè non verrà lui a dirci di accettare,
non assaggeremo nulla.
— È troppo occupato per disturbarlo per una cosa così da poco.
— Aspetteremo.
L'eunuco, comprendendo che non sarebbe mai riuscito a smuovere il
negro se ne andò assai di cattivo umore, temendo un brutto scoppio d'ira da
parte della sua irascibile padrona.
La trovò infatti nella sala da pranzo che girava attorno alla
tavola come una tigre in gabbia, col viso animato da una collera terribile e
gli occhi fiammeggianti.
In un angolo, mogio mogio, stava il capitano dei giannizzeri che
aveva mandato a chiamare.
— E tu, sei riuscito almeno? — chiese la nipote del pascià,
volgendosi come una furia verso il povero eunuco.
— Quegli uomini hanno rifiutato non solo di assaggiare i tuoi
pasticci ed i tuoi gelati, bensì anche di disarmare e di scendere da cavallo.
— Hanno qualche sospetto forse? — chiese Haradja, impetuosamente.
— Qualche cosa temono di certo, signora. Mi sembrano tutti turbati
e assai stupiti che il loro signore abbia accondisceso a pranzare con te.
— E tu, capitano, non rispondi della fedeltà dei tuoi giannizzeri?
— chiese Haradja, volgendosi al comandante del corpo di guardia.
— Si tratta del Leone di Damasco, signora, e dubito che essi si
prestino a distruggere la sua scorta. Quel giovane è troppo popolare fra
l'esercito mussulmano e sono certo che tutti i soldati si ribellerebbero, anche
se tale ordine venisse dato dal gran Vizir Mustafà.
— Ebbene, distruggerò gli uni e gli altri! — gridò Haradja con
esaltazione.
Poi, volgendosi verso l'eunuco:
— Chiama a raccolta tutti gli schiavi e gli arabi della mia scorta
e fa occupare da loro le terrazze superiori e tu, capitano, va' a disarmare i
tuoi uomini giacchè non posso contare sulla loro fedeltà.
Staccò dalla parete una scimitarra da combattimento, levandosi
quella leggera e ricchissima che portava più per ornamento che per altro,
chiamò i due arabi che stavano di guardia nel corridoio e comandò loro di
accendere le micce dei loro archibugi e di seguirla nel cortile.
La scorta di Muley-el-Kadel non si era mossa e all'estremità del
cortile si trovavano radunati i giannizzeri del corpo di guardia del ponte
levatoio. Avevano ancora le loro armi e discutevano animatamente col loro
capitano.
Sulle terrazze dominanti il cortile una trentina di servi e di
arabi avevano preso posto sui parapetti, armati di lunghi archibugi.
Ben-Tael, sicuro del valore dei suoi damaschini che aveva scelti
con grande cura, aveva guardato senza paura Haradja, che s'avanzava verso di
lui colla fronte aggrottata e la sinistra posata fieramente sulla guardia della
scimitarra.
— Sei tu che comandi la scorta? — chiese al negro, con voce
sprezzante.
— Sì, signora.
— Ma... io ti ho veduto ancora! Tu eri fra gli uomini di Hamid! È
vero.
— Non lo nego.
— E osi presentarti ancora dinanzi a me, cane d'un negro! — gridò
Haradja furibonda.
— Io devo obbedire agli ordini del mio padrone, signora, — rispose
Ben-Tael, freddamente.
— Sei dunque uno schiavo di Muley?
— Sì.
— Scendi da cavallo e getta le tue armi.
— Non posso obbedirvi, signora:
solo dal Leone di Damasco posso ricevere degli ordini.
— Miserabile! Sono la nipote del Pascià! Disarmate tutti o nessuno
di voi uscirà vivo dal mio castello.
Nessuno dei trenta uomini si mosse, nè spense le micce degli
archibugi, anzi, Ben-Tael che teneva in mano due pistole, aveva fatto atto di
puntarle verso la castellana.
— Mi avete capito? — gridò Haradja, che per la prima volta si
vedeva contrariata nei suoi comandi.
— Noi disarmeremo, signora, — disse Ben-Tael, — solo quando
vedremo comparire qui il nostro signore. Che cosa ne avete fatto del figlio del
potente Pascià di Damasco? Noi vogliamo saperlo.
— Tu lo vuoi?
— Sì, signora, — rispose lo schiavo alzando la voce, onde anche i
giannizzeri che assistevano alla scena potessero udirlo. — Voi avete arrestato
il Leone di Damasco e fors'anche lo avete ucciso!
Un mormorio minaccioso s'era alzato dalla scorta e fra tutti
quegli uomini era passato come un fremito d'ira, a malapena represso.
— Conducete qui il Leone, signora! — gridò lo schiavo.
— Ah! Tu comandi a me? — disse Haradja, rossa di collera. — A me,
giannizzeri! Disarmate questi uomini e mandateli a raggiungere, nei sotterranei
del castello, Muley-el-Kadel.
Con suo immenso stupore anche i suoi uomini non si erano mossi,
quantunque il loro capitano avesse gridato ripetutamente:
— Avanti! Obbedite!
— Vili! — gridò Haradja. — Vi farò impalare tutti!
Poi, alzando una mano verso i servi e gli arabi che stavano sulle
terrazze, comandò:
— Fuoco! Spazzatemi questi traditori!
I trenta uomini della scorta, con una mossa simultanea avevano
puntati gli archibugi verso le terrazze, facendo una scarica terribile, mentre
Ben-Tael sparava le sue pistole sui due arabi che seguivano Haradja facendoli
stramazzare moribondi sulle pietre del cortile.
Mentre servi e arabi, presi da un panico indescrivibile fuggivano
all'impazzata attraverso le terrazze, lo schiavo, approfittando dello stupore
di tutti, si era gettato giù da cavallo ed era piombato su Haradja afferrandola
strettamente per una mano e puntandole contro il jatagan che si era
levato dalla cintura.
— Signora, — le disse, mentre i suoi uomini ricaricavano
precipitosamente gli archibugi — non vi farò alcun male Purchè diate ordine che
si conduca qui subito Muley-el-KadeL. Se vi rifiutate, giuro sul Corano che vi
ucciderò, qualunque cosa possa dopo accadere.
Haradja era rimasta muta ed immobile. Pareva che quell'atto audace
avesse paralizzata la sua indomabile energia.
— Il Leone di Damasco o la morte, signora! — ripeté Ben-Tael, con
voce ancor più minacciosa.
Haradja tentò con uno sforzo supremo di liberarsi da quella
stretta senza potervi riuscire, possedendo lo schiavo di Muley-el-Kadel, sotto
un'apparenza piuttosto gracile, una muscolatura di ferro.
— Non mi sfuggirete, signora, — le disse Ben-Tael. — È inutile che
tentiate di resisterci e vi avverto anzi che noi siamo uomini da andare fino a
fondo.
— A me, giannizzeri! — ripetè Haradja, con voce strozzata dal
furore.
Anche questa volta i selvaggi e formidabili soldati del Sultano
non alzarono le armi e non lasciarono il loro posto. Solamente il capitano si
era slanciato innanzi per accorrere in suo aiuto e, fatti pochi passi, aveva
dovuto subito fermarsi dinanzi a quattro archibugi che lo avevano preso di
mira.
— Non avanzare, comandante, — aveva gridato un uomo della scorta,
— o comando il fuoco!
Dinanzi a quella minaccia, il povero capitano non aveva più osato
inoltrarsi. Haradja capì finalmente di non poter più contare sopra nessuno,
nemmeno sugli arabi e sugli schiavi, i quali, dopo la prima scarica che aveva
fatto parecchi vuoti nelle loro file, non avevano più il coraggio di mostrarsi
sulle terrazze.
— Cedo alla violenza, — disse, coi denti stretti, saettando su
Ben-Tael uno sguardo pieno d'odio. — Ricordati però che un giorno la nipote del
pascià si vendicherà terribilmente di te e che non morrà contenta se prima non
ti avrà fatta strappare di dosso la tua nera pelle.
— Quel giorno farete di me quello che vorrete, signora, — rispose
lo schiavo. — Pel momento, se vi preme salvare la vostra, dovete far condurre
qui, senza ritardo, il mio padrone e signore. Non vi accordo che cinque minuti
di tempo.
Haradja si volse verso l'eunuco che gli stava a pochi passi, più
morto che vivo per lo spavento.
— Conduci qui il Leone di Damasco, — gli disse.
— Quattro uomini lo seguano e lo uccidano se cerca d'ingannarci, —
disse Ben-Tael, volgendosi verso la scorta.
Quattro cavalieri balzarono a terra e presero in mezzo il
disgraziato eunuco, soffiandogli in faccia il fumo delle micce degli archibugi.
— Avanti e senza volgerti indietro, — gli disse uno dei
damaschini, spingendolo ruvidamente, — e bada soprattutto alla tua testa che mi
pare sia piuttosto pesante pel tuo collo.
Il pover'uomo, che tremava come una foglia, guidò i quattro uomini
verso la base d'uno dei torrioni, aprì una porticina ferrata e scomparve colla
scorta.
Ben-Tael aveva subito allentata la stretta, lasciando libera la
nipote del grande ammiraglio, dicendole:
— Aspettate il ritorno del Leone di Damasco, mia signora. Forse
avrà ancora qualche cosa da dirvi prima di lasciare il vostro castello.
Haradja si morse le labbra a sangue e non rispose.
Trascorsero alcuni minuti. I damaschini, sempre a cavallo,
sorvegliavano attentamente le terrazze, pronti a sparare sugli arabi e sugli
schiavi se avessero osato mostrarsi.
I giannizzeri guardavano ora la scorta del giovane Leone ed ora
Haradja, senza aprire bocca, colle micce degli archibugi spente, decisi a
quanto sembrava a nulla tentare contro il più popolare eroe dell'esercito
mussulmano ed a sfidare la collera della loro padrona, senza darsene molto
pensiero.
Ad un tratto i quattro damaschini apparvero, gridando:
— Salutate il Leone di Damasco!
Muley-el-Kadel era comparso dietro di loro tranquillo e
sorridente.
Si fermò un momento, guardando i suoi uomini che agitavano
festosamente i loro elmetti, lanciò su Haradja uno sguardo sprezzante,
attraversò poi lentamente il cortile e salì sul suo cavallo, che Ben-Tael
teneva per le briglie.
— Partiamo, — disse semplicemente.
La scorta gli si mise dietro e sfilò fra i giannizzeri che si
erano affrettati ad aprire le file, gridando:
— Lunga vita al Leone di Damasco!
Muley-el-Kadel fece loro un gesto d'addio e attraversò il ponte
levatoio.
Quando fu all'estremità del piccolo altipiano si volse e vide
ferma in mezzo al ponte la nipote del Pascià che gli tendeva il pugno con un
gesto minaccioso.
— Tigre! — mormorò il giovane. — Riprendimi ora se lo puoi.
E spronò il cavallo vivamente, raggiungendo in brevi istanti le
pianure acquitrinose.
Solo là Muley-el-Kadel rallentò alquanto la corsa, per lasciarsi
raggiungere da Ben-Tael che era rimasto indietro colla scorta.
— È necessario impedire che la galera di Metiub giunga a Hussif o
la duchessa sarà perduta disse al fedele schiavo.
— E come faremo, signore? Non abbiamo navi sottomano.
— A Suda vi sono parecchie gagliotte prese ai greci e gran numero
di rinnegati dell'Arcipelago e sono sia le une che gli altri sotto gli ordini
del capitano Chitet, un uomo che mi deve molta riconoscenza e qualche cosa
d'altro ancora.
Egli metterà tutto il suo naviglio a mia disposizione, senza
sollevare alcuna difficoltà e vedremo se la galera di Metiub potrà resistere
all'attacco di una mezza dozzina di quei velieri montati da gente risoluta come
noi, e da rinnegati, certo ansiosi di menar le mani contro i miei compatrioti.
Vi è una via che costeggia il mare?
— Sì, padrone, ed è la più breve per giungere a Suda.
— La conosci?
— Come questa.
— Andiamo dunque a vedere il Mediterraneo — concluse Muley-el-Kadel.
— Non si tratta che di far presto.
— In quattro ore noi saremo a Suda, se i cavalli non cadranno.
— Spero che resisteranno a questo ultimo sforzo.
Lasciarono la pianura acquitrinosa e piegarono verso ponente, dove
una serie di collinette divideva la campagna dalle rive del Mediterraneo.
Trovata facilmente una gola attraverso quelle alture, scesero
verso la spiaggia slanciandosi sulle dune, fra le quali gli isolani avevano
aperto un sentiero che le sabbie, sollevate dai venti di scirocco e di ponente,
avevano quasi interamente coperto.
Galoppavano da un paio d'ore, aizzando sempre i poveri animali che
avanzavano penosamente, ansando e sbuffando, quando dietro una duna s'alzò un
uomo seminudo, molto abbronzato, che gridò con voce stentorea:
— Ferma, Ben-Tael! Salute al Leone di Damasco!
Tutta la scorta si era fermata, sguainando le scimitarre, temendo
che dietro le dune si tenessero celati altri uomini.
Ad un tratto un grido sfuggì allo schiavo di Muley-el-Kadel.
— Nikola Stradioto!
— Chi è costui? — chiese il Leone di Damasco.
— Un greco, quello che guidava la gagliotta e che ci condusse a
Hussif.
— Come ti trovi qui tu? — chiese Muley, facendogli cenno di
accostarglisi.
— Una domanda prima, signore. Dove andavate? In cerca della
duchessa?
— Sì, e vengo in questo momento dal castello d'Hussif, credendo
che fosse stata condotta colà.
— Si trova altrove, signore, e se non vi affrettate a correre in
suo aiuto, non so se si salverà dalle zampe dell'avventuriero polacco.
Essi fuggono inseguiti dai marinai di Metiub.
— Che cosa mi racconti tu?
— La galera è stata incendiata da me e da papà Stake ed è
affondata, non c'è quindi per ora pericolo che i cristiani vengano ricondotti a
Hussif.
— E dov'è la duchessa? — chiese Muley con profonda emozione.
— Non molto lontana da qui.
— Vi è anche il visconte con lei?
— No, l'avventuriero polacco l'ha annegato. Io ho veduto quel
miserabile lasciarsi cadere in fondo al mare e tornare a galla solo. Stavo per abbandonare
la gagliotta ed io ho assistito all'assassinio di quel disgraziato gentiluomo.
— Sali dietro di me e guidaci, ma dimmi prima perchè ti trovavi
qui.
— Mi avviavo verso il castello colla speranza di trovarvi,
essendomi immaginato che Ben-Tael vi avrebbe condotto colà, non avendo egli
potuto assistere al disastro della galera e...
Una scarica di archibugi, che risuonò in lontananza, dietro la
linea delle colline, gli impedì di proseguire.
— Monta! — gridò Muley-el-Kadel, estraendo la scimitarra.
Poi, volgendosi verso i suoi uomini, comandò con voce tuonante:
— Alla carica e non risparmiate i soldati di Haradja. Il Leone di
Damasco vi guida!
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