La dolce Parvati, la sposa del
dio Sivah, così venerato dagl'indiani, trovandosi un giorno nel bagno, si
divertiva a raccogliere le bianche pellicole che si staccavano dal suo grazioso
corpo.
Le preziose particelle di
quell'essere divino vennero modellate dalle sue dita, come l'argilla dalle mani
di uno scultore. Tosto delle forme umane cominciarono a delinearsi, ed una
statuetta di bimbo uscì dalla vasca di diaspro, entro cui la bellissima dea si
bagnava.
La dea - narra sempre la leggenda
indiana - le soffiò allora nella bocca, un vagito s'udì: era un essere umano
che apriva gli occhi alla luce.
Era trascorso quasi un anno,
quando il terribile Sivah, tornando dalla guerra contro i giganti maligni che
volevano bruciare il mondo, con sua sorpresa e collera, trovò nel palazzo reale
un nuovo rampollo di cui non s'aspettava l'esistenza. Colto da un tremendo
accesso di furore, trasse la scimitarra tinta mille volte nel sangue dei nemici
e tagliò netto il collo a quel fanciullo.
La dolce Parvati raccontò allora
con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un
tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in
cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più favorevoli, Sivah non
sollevò alcun dubbio sull'innocenza della diletta sposa.
«Sono stato un po' vivace,» le
disse. «Ho l'abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie,
ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»
Appena pronunciate quelle parole,
con un colpo della sua formidabile scimitarra fece saltare la testa del suo
elefante da guerra e la posò sulle spalle del bimbo decapitato.
Grazie a quel miracolo di
chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Ganesha, la cui testa d'elefante
si dondola sul suo corpo d'uomo, fu annoverato fra gli dei dell'India.
Protetto da una tale divinità,
l'elefante non doveva mancare di essere considerato come un animale superiore
allo stesso uomo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza,
sia per la sua forza prodigiosa.
Dovevano i popoli confinanti o
quasi confinanti coll'India rimanere insensibili ad un tale avvenimento?
Assolutamente no, e l'elefante fu senz'altro accettato dai Birmani prima e dai
Siamesi poi, come una divinità protettrice di quegli stati.
Fecero però delle eccezioni.
Possedendo quei paesi fortunati degli elefanti bianchi, quantunque rarissimi,
invece di innalzare agli onori gli elefanti più o meno grigi, diedero la
preferenza a quelli... ammalati!... Ormai è noto che i famosi elefanti bianchi
non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei... lebbrosi,
sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! Ma la scelta degli elefanti
bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di
venerazione aveva un'origine religiosa.
Sia i Birmani che i Siamesi sono
tutti adoratori di Budda, dio che i primi venerano sotto il nome di Gautama ed
i secondi sotto quello di Sommona Kodom.
Ora le antiche leggende narrano
che questo Sommona era nato dio per sua propria virtù, che, perfettamente
istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua
nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era
manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti.
Un giorno il dio, essendosi
seduto all'ombra d'una pianta chiamata tampo, salì in cielo su un trono
sfolgorante d'oro e di pietre preziose, e si dice che gli spiriti celesti,
abbagliati da tanto splendore, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si
prostrarono dinanzi per adorarlo.
Tanta gloria avrebbe eccitato la
gelosia e il furore del fratello Thevetat, che doveva essere una specie di
Caino; quell'invidioso, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio,
fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi.
Il mondo si divise allora in due
grandi fazioni, l'una delle quali seguiva Sommona Kodom come modello di virtù,
e l'altra lo scellerato Thevetat che colle sue massime ree istigava gli uomini
al vizio.
Arse la guerra, ed il malvagio fu
precipitato, al pari di Satana, in un abisso fiammeggiante.
Narrano ancora le antiche
leggende Siamesi e birmane che il dio, per perfezionare meglio la sua anima,
passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vani animali, fra cui quello
d'un elefante bianco.
Era dunque naturale che quei
popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse
l'anima del dio.
Ecco spiegato il motivo per cui
Siamesi e Birmani hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari animali,
che per i primi rappresentano Sommona Kodom, e per gli altri Gautama ossia
Budda.
Perciò la morte dell'ultimo S’hen-mheng
non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sull'animo
del re, bensì dell'intera popolazione; ed era il settimo che spirava nello
spazio di poche settimane!...
Quali catastrofi, quali tremendi
disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?
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Lakon-tay
uscì dal palazzo dei S’hen-mheng colla morte nel
cuore, pallido, disfatto, per recarsi dal re a dargli il terribile annuncio. Non
era uomo che avesse paura della morte il ministro degli elefanti bianchi, oh
no!
Prima di essere innalzato a
quella carica, da tutti i grandi della corte ardentemente agognata,
Lakon-tay era stato uno dei più famosi generali del regno,
ed aveva combattuto valorosamente contro i Cambogiani, gli Stienghi e i Birmani
che avevano violato le frontiere.
Quello che tormentava il suo
animo era la triste sorte che forse era serbata alla dolce
Len-Pra, la sua unica figlia che egli adorava pazzamente e
che certo doveva venire travolta nella disgrazia che colpiva il padre.
Era certo che il re non avrebbe
mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette S’hen-mheng
e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse
speso puntualmente, fino all'ultimo tical1, le rendite della
provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri pachidermi, e nulla
avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.
Uscì solo, senza guardare in viso
nessuno, come un delinquente ormai condannato, cupo e affranto, a testa bassa,
le unghie conficcate nel petto, e cominciò a percorrere, camminando quasi a
zig-zag, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui
cupole scintillavano agli ultimi raggi del sole morente, sullo sfondo di un
cielo fiammeggiante.
Nessuno aveva osato seguirlo,
nemmeno il mahut favorito dal povero S’hen-mheng,
perché tutti temevano d'essere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il
ministro.
Dopo aver percorso parecchi viali
che costeggiavano dei graziosi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti
barchette ricche di dorature e coi cuscini di seta, e dove si bagnavano in gran
numero le gru coronate dalle lunghe gambe e bande di aironi,
Lakon-tay, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si
trovò, quasi senza saperlo, dinanzi al palazzo abitato dal re.
Nel 1865 - epoca in cui comincia
questa storia - il palazzo reale di Bangkok era ancora annoverato fra le
meraviglie del reame.
Era cinto tutto da muraglie
altissime, che si prolungavano per parecchi chilometri, rivestite internamente
da lastre di marmo bianco.
Nel centro di quell'immenso
recinto sorgeva il mahapregat, ossia la gran sala dove il re usava
ricevere gli ambasciatori delle potenze occidentali ed orientali, e dove si
conservavano per un anno, racchiuse in un'urna d'oro, le ceneri dei defunti re;
sala ricca di dorature meravigliose, eseguite dai più valenti artisti non solo
del Siam bensì anche della Cina.
Più oltre si trovava un altro
ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da
gigantesche statue Cinesi, e nel quale si trovava il trono a forma di altare,
ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette
scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.
Lakon-tay si
diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e
della regina.
Era sicuro di trovare il re senza
dover troppo attendere.
Salì col cuore trepidante la
scala di marmo, appoggiandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo
guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, varcò la soglia
senza rispondere al saluto del soldato di guardia che gli aveva presentato
l'archibugio, e forse senza nemmeno vederlo.
Un ciambellano di corte, che
indossava un magnifico vestito di seta rossa a fiori gialli, e aveva ai polsi
numerosi braccialetti d'oro e ai piedi babbucce a punta rialzata con perle e ricami
d'argento, vedendo entrare Lakon-tay si affrettò a
muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.
«Il re?» gli chiese brevemente il
ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo.
«È appena tornato nelle sue
stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento
della missione francese e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di
spogliarsi.»
«Va' a dirgli che mi urge
vederlo.»
«Lakon-tay è
sempre gradito a Sua Maestà... Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei
trasfigurato.»
«Disgrazia, disgrazia,» gemette
il generale.
«Il S’hen-mheng?...»
«Morto...»
Il ciambellano fece rapidamente
alcuni passi indietro, come se temesse al pari degli altri di venir coinvolto
nella disgrazia che stava per piombare sul povero ministro.
Fece un inchino meno profondo del
solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti
riservati al re.
«Tutti mi abbandonano e mi sfuggono
come un lebbroso,» mormorò Lakon-tay. «Ieri erano vili
servi, ora che sto per perdere la mia carica e forse la vita, sono tanti
principi.»
S'appoggiò a una delle colonne,
fissando le lastre di marmo bianco che coprivano il pavimento della vasta sala.
Lo strepito d'una porta che
s'apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e
trasalì.
Ritto sul primo gradino che
conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del grande costume di
gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.
Phra-Bard-Somdh-Pra-Phara-Mendr-Maha-Monghut,
re del Siam, era ancora un bell'uomo, quantunque di età già matura, dalla pelle
un po' abbronzata e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca
potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell'Indocina.
Indossava ancora, come abbiamo
detto, l'abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere
un'ambasciata straordinaria inviatagli dal governo francese.
Sandet-Pra-Paramindr-Maha,
suo figlio, che gli successe sul trono nel 1868, adottò, anche nei grandi
ricevimenti, il costume dei generali inglesi; ma i suoi avi ci tenevano invece
a fare pompa dell'abito regale siamese, il quale, se non era troppo comodo,
faceva colpo sugli stranieri per la sua straordinaria ricchezza e per la sua
strana forma.
Phra-Bard
aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide d'oro
massiccio, alta più d'un piede, ornata all'intorno di diamanti e di rubini, che
doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a
lamine d'oro, che s'incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di
pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine
e di pietre; e ai piedi aveva delle babbucce... che avrebbero potuto far felice
una sultana, tanto erano ricche di rubini e di smeraldi.
Il re doveva già essere stato
informato dal ciambellano della morte dell'ultimo dei sette S’hen-mheng,
poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano
animati da una fiamma sinistra.
Lakon-tay,
facendo uno sforzo supremo, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere
in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:
«Se mi credi colpevole, o mio re,
uccidimi: sei nel tuo diritto.»
Phra-Bard
rimase silenzioso, dardeggiando però sul disgraziato ministro uno sguardo che
non prometteva nulla di buono.
Ad un tratto la collera, a
malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.
«Sei un miserabile!» gridò il re.
«Io avevo affidato a te i miei elefanti bianchi, perché ti credevo l'uomo più
atto a coprire quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti. Tu hai nel tuo
vile corpo la maledizione di Sommona Kodom!»
«Giacché tu, o mio re, mi credi
colpevole, uccidimi,» ripeté il disgraziato ministro, senza osar alzare gli
sguardi verso il monarca. «Però ti giuro che la mia coscienza nulla ha da
rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all'ultimo tical, la
rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei S’hen-mheng,
ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse.
Che colpa ho io se qualcuno, che
non teme la punizione di Sommona Kodom, che sfida la giusta collera del suo re
e che si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sugli elefanti
bianchi?»
«Credi, con questa stolta accusa,
di stornare da te la mia collera?» chiese il re.
«Lakon-tay ti
ha mostrato, allorché combatteva contro i Cambogiani e contro i Birmani, come
non avesse paura della morte. Perché dovrei temerla ora che non sono più
giovane?»
Phra-Bard,
colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli
brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a
poco a poco si spianarono.
«Tu hai un sospetto, generale?»
chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«La morte dei S’hen-mheng,
in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.
«E chi avrebbe osato gettare un
maleficio sui S’hen-mheng? Dove trovare nel mio
regno un uomo che abbia tanto coraggio da sfidare l'ira di Sommona Kodom?»
«E se quell'uomo fosse uno
straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse
Lakon-tay, che s'aggrappava a tutto per ritardare la sua
perdita.
«Uno straniero!» esclamò
Phra-Bard, che per la seconda volta era stato colpito dalle
risposte del suo ministro.
«Tu sai, o mio signore, che molti
t'invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Sommona Kodom.»
«E i miei S’hen-mheng,»
si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca.» Il mio vicino, il re
di Birmania, che possiede un solo elefante bianco e già molto vecchio, mi aveva
proposto, or non è molto, una somma favolosa perché gli cedessi uno dei miei S’hen-mheng.»
Ma subito dopo, quasi si fosse
pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un cattivo sorriso:
«No, non può essere possibile, il
re di Birmania è buddista al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare la
collera di Sommona Kodom, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo
adora al pari del mio. Se ciò fosse avvenuto, Sommona ci avrebbe fatto
ritrovare altri elefanti bianchi, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate
con immense spese, sono tornate a mani vuote.
Tu solo sei colpevole di aver
causato la morte dei S’hen-mheng per inesperienza o
per altre cause che io ancora ignoro; grandi e popolo ti accusano, e domani
chiederanno giustizia.»
«Allora fammi uccidere,» rispose
Lakon-tay. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi
di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura.»
Phra-Bard, in
preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l'ampia sala, senza
rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato
a brillare nei suoi occhi, indizi certi d'una collera violentissima.
Ad un tratto si fermò dinanzi a
Lakon-tay, che era rimasto sempre in ginocchio sul primo
gradino del trono, dicendogli con voce aspra:
«Che cosa accadrà ora del mio regno,
privo della protezione degli elefanti bianchi, che racchiudevano l'anima di
Sommona Kodom? Quali tremende sventure piomberanno sul Siam? Carestie,
epidemie, invasioni di nemici, disastri inenarrabili, inondazioni e terremoti;
e forse suonerà l'ultima ora per la mia dinastia.
E tutto ciò lo dovremo a te,
miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri S’hen-mheng
ed hai irritato il nostro dio.
Levati dalla mia presenza e torna
a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i grandi vorranno
giustizia e l'avranno.»
«Grazia per
Len-Pra,» gemette il disgraziato ministro.
«Tua figlia diverrà schiava, a
meno che...»
«Prosegui, mio signore,» disse
Lakon-tay, nei cui sguardi brillò lampo di speranza.
«...a meno che tu non trovi il
modo di procurarmi almeno un S’hen-mheng.»
«Se colla mia vita potessi
trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore.»
«Tu sei maledetto da Sommona
Kodom e la tua vita non vale, oggi, quella del mio ultimo servo. Vattene e
attendi a casa tua il mio castigo.»
Ciò detto
Phra-Bard, che pareva in preda ad una collera furiosa, si
diresse verso una delle porte di ebano, incrostate d'avorio e di madreperla,
che mettevano negli appartamenti reali, e l'aperse violentemente.
«Oh mio signore, grazia per
Len-Pra,» gridò il disgraziato ministro.
Il re richiuse la porta con
fracasso, senza degnarsi di volgersi, e scomparve.
Lakon-tay si
alzò in piedi, coi lineamenti sconvolti da un intenso dolore.
«Tutto è finito,» disse, «ma i
grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale,
vincitore dei Birmani e dei Cambogiani, non ha paura della morte.»
Si diresse verso la gradinata che
conduceva ai giardini reali, con passo calmo. Non si accorse nemmeno che la
sentinella di guardia dinanzi alla porta, che probabilmente non aveva perduto
una parola di quel burrascoso colloquio, non gli rese il solito saluto.
Ormai era un uomo caduto in
disgrazia, che valeva meno dell'ultimo paggio di corte.
Riattraversò, sempre immerso nei
suoi dolorosi pensieri, i giardini, nei cui viali cominciavano già ad
addensarsi le prime tenebre, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito
prima di recarsi nella sala dei S’hen-mheng.
Feng, il suo fedele paggio, lo
aspettava sulla porta della magnifica sala, presso il gong sospeso sulla
soglia. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo
aveva colpito.
«Oh mio povero signore,» esclamò,
colle lagrime agli occhi. «Il Signor elefante bianco è morto dunque?»
«Sì,» rispose il generale con
voce rauca. «Tutto è finito!»
«E il re?»
Invece di rispondere,
Lakon-tay entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò
lungi da sé l'alto cappello a punta, di stoffa bianca, adorno d'un largo
cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, insegna della sua
carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste di seta gialla dalle
maniche larghissime e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo
tutto a brandelli.
«Che cosa fai, mio signore?»
chiese Feng, spaventato.
«Mi sbarazzo delle insegne del
mio grado,» disse Lakon-tay, coi denti stretti. «Io non
sono più il ministro della corte dei S’hen-mheng;
oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una
morte infame.
Ma Lakon-tay
non poserà la testa sotto le larghe zampe dell'elefante carnefice e non darà al
suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione.
Il vecchio generale mostrerà a
tutti come sa morire un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re.
Maledette insegne del mio
grado... Che il vento vi disperda.
Feng, dammi un'altra veste, onde
nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei S’hen-mheng.»
«Mio signore...»
«Taci e obbedisci!...»
Feng, che conosceva troppo bene
il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa
dette pagne, di varie lunghezze e di varie tinte, che i Siamesi
indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe e alle
braccia; e dei calzoni larghissimi, nonché parecchi cappelli in forma di fungo
o di cono o d'imbuto.
Lakon-tay si
vestì frettolosamente, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che
poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.
«Mio signore,» gli disse Feng,
che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»
«No,» rispose seccamente il
generale. «Va' ad attendermi a casa mia e non dire nulla a
Len-Pra.»
Scese una ricchissima gradinata
di marmo, percorse un corridoio e aperse una porticina, slanciandosi nella via.
Era uscito dal palazzo reale.
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