Lakon-tay era
il vero tipo del siamese, ma non aveva però quel portamento cascante, molle,
snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti di quel regno e che produce
su noi una pessima impressione.
Era un bell'uomo, piuttosto alto,
ancora vigoroso malgrado i suoi cinquant'anni, dal petto ampio e dalle braccia
muscolose che indicavano l'uomo abituato a maneggiare la pesante catana
dei comandanti.
Aveva invece, al pari dei suoi
compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature
rossastre, gli zigomi assai sporgenti, la fronte un po' stretta, che terminava in
alto quasi a punta al pari del mento, le labbra grosse e rosse. Ma i suoi occhi
non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente giallo:
erano invece due bellissimi occhi neri, dal lampo vivacissimo e dal taglio
perfetto, che anche le dame Siamesi gli avrebbero invidiato.
Lakon-tay si
era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore.
Di temperamento ardente e
battagliero, era entrato giovanissimo nell'esercito, pensando che forse sarebbe
stato quello l'unico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo
padre, un modesto costruttore di velieri, non gli aveva lasciato che una
piccola fortuna.
Il giovane, che aveva coraggio da
vendere ai suoi compatrioti, i quali hanno invece la brutta fama di essere
pusillanimi, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri,
poiché il Siam era allora in guerra cogli stati vicini.
A trent'anni, dopo aver respinto
e battuto sanguinosamente i Peguani che erano tre volte superiori di numero, aveva
già ricevuto dal re la prima scatola d'oro per conservare il betel,
distintivo di nobiltà, giacché nel Siam la nobiltà non è ereditaria.
A trentacinque, già generale,
dopo aver battuto le truppe birmane che avevano già varcato le frontiere,
minacciando d'invadere tutto il Siam, aveva ricevuto la seconda, più grande e
più elegante, ed il cerchio d'oro con fiori cesellati da mettersi sul cappello,
che gli conferiva il titolo di oya, ossia di grande personaggio.
Cessate le guerre, il valoroso
generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Bangkok, per
godersi finalmente un po' di tranquillità e crearsi una famiglia prima di
diventare troppo vecchio.
Phra-Bard
invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode
generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua
casa prima, poi ministro della corte dei S’hen-mheng,
la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili Siamesi.
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Lakon-tay, in
preda a cupi pensieri, si allontanò dal palazzo reale camminando come un ebbro,
cogli occhi socchiusi e la testa china sul petto, seguendo la riva del Menam,
le cui acque riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo.
Bangkok è la Venezia dell'oriente
e la principale città del Siam dopo la decadenza di Ajuthia, l'antica capitale
dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi
Siamesi, i quali, al pari di quelli Birmani, amano sovente abbandonare le
grandi città per dare splendore ad altre minori.
Bangkok, quantunque salita agli
onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi
quaranta chilometri di sviluppo e un milione di abitanti e gode fama di essere
opulenta se non inespugnabile, malgrado i suoi nomi fastosi.
Ed infatti Krung-tlepha-mahasi-ayuthaja-mahadilok-rascathani,
come la chiamano i Siamesi, che ci tengono ai nomi lunghissimi e che significa
«la grande regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile», non potrebbe
resistere un'ora sola al fuoco d'una delle nostre moderne corazzate,
quantunque, per renderla imprendibile, i Siamesi abbiano bagnato le fondamenta
delle sue porte con sangue umano.
Al pari di Venezia, la città
sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio
principale del Menam.
La città che si estende sulla
riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che
s'innalza sulla sinistra è veramente magnifica e cinta da mura merlate con
torri e bastioni, e vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila
abitanti.
È là che sorge il palazzo reale,
dinanzi a cui tutti i passanti devono scoprirsi e chiudere l'ombrello, per non
correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da durissime pallottole di
terra, che gli arcieri di guardia scagliano con ammirabile maestria.
Ed è pure là che s'innalzano la
grandiosa piramide di phrachedi, che lancia la sua cima a oltre cento
metri, edificio ammirabile per linee architettoniche e sotto la cui mole si
crede siano sepolte le reliquie preziose di Sommona Kodom; i templi grandiosi
dei talapoini, dai tetti a tre piani, coperti di lamine d'oro che brillano ai
raggi del sole; la pagoda di vatbaromanivat colle sue magnifiche porte
d'ebano ad intarsi di madreperla scolpite e lavorate con un'arte che non ha
l'eguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di dorature che sono
costate somme favolose; ed è là finalmente che si ammira la pagoda di vat-scetuphon
che racchiude una colossale statua di Budda, ossia di Sommona Kodom, tutta
coperta d'oro e d'un valore inestimabile.
Lakon-tay,
sempre assorto nei suoi pensieri, continuava a seguire la riva del fiume,
insensibile alla pittoresca grandiosità di quel superbo corso d'acqua, che
vince tutti gli altri in bellezza.
Migliaia e migliaia di case
galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene di canna
d'India e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento,
ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nell'interno si udivano
chiacchierii di donna, risate di fanciulli e voci di uomini.
Ondate di fumo sfuggivano dai camini
e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case, mentre la
fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille
strani odori delle cucine Siamesi.
Lakon-tay
seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando
di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando
sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano
scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi che ardevano fra una pagoda ed
un tumulo gigantesco, una vera montagna di mattoni di forme strane, come se ne
ritrovano sovente disegnate sulle lacche giapponesi, e che rappresentano il
Fusi-yama, la montagna di fuoco.
Degli uomini seminudi, armati di
lunghe picche, s'aggiravano silenziosamente intorno a quei fuochi, ora
apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di
fumo denso, mentre dall'alto calavano pesantemente stormi di grossi avvoltoi
neri, che gracchiavano sinistramente.
Quel luogo era la necropoli di
Bangkok; la pagoda era quella di vat-saket; l'enorme
ammasso di mattoni la Phuk-kao-thong, ossia la montagna d'oro, e quegli
uomini bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata.
Lakon-tay si
fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con stupore
quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai
crematori sui tizzoni ardenti.
Una voce lo trasse da quella
contemplazione.
«Padrone, che cosa fai qui?»
Era Feng, il quale da lontano lo
aveva seguito, spaventato dall'aspetto tetro del generale.
Lakon-tay si
voltò senza rispondere.
«Che cosa vieni a fare qui,
padrone?» chiese nuovamente il giovane. «Non è qui la tua casa.»
«Non lo so,» rispose
Lakon-tay. «Camminavo senza vedere né sapere dove andassi,
e mi sono trovato fra questi morti.
Triste presagio. Quegli avvoltoi
scarneranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono uomo da sopravvivere
alla disgrazia che mi ha colpito. La mia morte calmerà la collera del re e
salverà dalla schiavitù mia figlia.»
«Scaccia questi funebri pensieri,
mio padrone,» disse Feng, che aveva le lacrime agli occhi. «Forse la tua
innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale
dolore proverebbe la dolce Len-Pra, se tu morissi.»
«Mia figlia ha nelle vene sangue
di guerrieri, perché anche sua madre era figlia d'un prode condottiero, e saprà
rassegnarsi alla sua sventura.
No, Lakon-tay
non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani accusato di
aver fatto morire i protettori del regno, i S’hen-mheng?
Un miserabile, in patria, disprezzato dai grandi e dal popolo, un essere
maledetto.»
«Tu che hai salvato il regno
dalle invasioni dei Cambogiani e dei Birmani e che hai domato i miei
compatrioti? O mio signore!»
«È passato troppo tempo da
allora,» rispose Lakon-tay con voce cupa.
«Vieni a casa tua, padrone:
Len-Pra, non vedendoti, sarà inquieta.»
Lakon-tay
soffocò un gemito e si lasciò condurre da Feng, senza più opporre resistenza.
Risalirono silenziosamente la
riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da
capanne, bensì da phe elegantissime, quelle graziose palazzine che si
specchiano nelle limpide acque del Menam, e che, quantunque esteriormente non
offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati
bungalow di Calcutta.
Sono piccoli lavori
d'architettura puramente siamese, colle travature graziosamente scolpite, con
porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate,
onde si possa vedere l'altare di Sommona Kodom; e sono circondate da una larga
e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltrone di bambù e di
vasi contenenti arbusti tagliati in forma d'animali più o meno fantastici.
Ad un tratto, Feng si arrestò
dinanzi a una phe di dimensioni più vaste delle altre, situata proprio
sulla riva del fiume, coi muri di legno scolpito, abbelliti da strati di lacca,
una vasta veranda che correva in giro, e un giardinetto chiuso da una elegante
cancellata di legno dipinto in rosso.
«Ci siamo, padrone,» disse
dolcemente a Lakon-tay.
Il generale, che pareva si fosse
allora risvegliato da un triste sogno, alzò gli occhi verso la veranda che la
luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di
porcellana dorati e niellati, entro cui crescevano delle peonie di Cina e delle
camelie.
«Ah!»mormorò. «E
Len-Pra?»
«Ti aspetterà nella sala da
pranzo.»
Con una mossa lenta, quasi
automatica, Lakon-tay aperse la porta d'ebano incrostata di
madreperla e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò
in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, con un
globo sottilissimo di porcellana azzurra, che proiettava sulle pareti,
tappezzate di seta di Cina dello stesso colore, e sul lucidissimo pavimento di
legno di tek, una luce scialba e dolce come quella dell'astro notturno.
Vi erano pochi mobili, tutti di
fattura squisita. Una tavola d'ebano già apparecchiata, con tondi e vassoi
d'argento cesellato, delle sedie di bambù dalla spalliera assai inclinata e
d'una leggerezza straordinaria, delle mensole sostenenti vasi della Cina e del
Giappone, pieni di peonie color fuoco, dei tavolini laccati ed incrostati di
madreperla, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse
dei profumi o degli unguenti meravigliosi, di pallottole d'avorio traforato e
di piccole statue di bronzo e d'oro raffiguranti Sommona Kodom.
«Dov'è
Len-Pra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una
poltrona.
Una voce armoniosa, dolcissima,
si fece subito udire dietro le tende di seta che si gonfiavano sotto i soffi
profumati dell'aria notturna, poi una fanciulla entrò, muovendo rapidamente
verso il generale.
Era Len-Pra.
La figlia del vincitore dei Birmani
e dei Cambogiani aveva una figurina graziosa, sottile come un giunco,
squisitamente modellata; una bella testolina, un viso dai lineamenti perfino
troppo regolari per una indocinese, un profilo quasi caucasico, una boccuccia
perfetta, occhi nerissimi e lampeggianti come quelli di suo padre, leggermente
obliqui.
La bella capigliatura, nera e
abbondante, le cadeva in pittoresco disordine sulla larga veste di seta azzurra
a ricami d'oro; la pelle, quasi mai esposta al sole, era appena abbronzata, con
sfumature che ricordavano certi riflessi dell'alba; aveva le braccia nude e
adorne di ricchissimi braccialetti, e i piedi racchiusi in babbucce di seta
gialla con ricami di perle, così piccoli da poter reggere vittoriosamente il
confronto con quelli tanto decantati delle donne Cinesi.
Vedendo suo padre così
accasciato, quasi interamente abbandonato sulla poltrona, col viso cupo e lo
sguardo semispento, Len-Pra mandò un grido.
«Che cos'hai, padre mio?» gli
chiese.
«Nulla, fanciulla mia,» rispose
il disgraziato generale, risollevandosi con uno sforzo supremo. «Sono
semplicemente preoccupato per la malattia del S’hen-mheng.»
«Tu stai male e sei oppresso da
qualche cosa di più grave d'una preoccupazione,» disse la giovane.
«No, non è nulla.»
«È dunque gravemente ammalato
anche l'ultimo dei S’hen-mheng?» chiese
Len-Pra impallidendo.
«È un po' triste, tuttavia noi lo
salveremo.»
«Se dovesse morire?»
«Non vi è alcun pericolo per ora.
Fa' portare la cena, e siedi presso di me, mia piccola
Len-Pra. Desidero ritirarmi presto questa sera. Domani
questa stanchezza sarà scomparsa.»
La fanciulla percosse con un
martelletto d'ebano un piccolo gong sospeso sotto la lampada, e poco
dopo entrarono due giovani valletti portando, su dei grandi vassoi d'argento,
parecchi tondi pieni di vivande fumanti, di frutta e di tuberi di varie specie.
Il popolo siamese passa per uno
dei più frugali della terra e anche per il meno esigente, quantunque, in quel
regno fortunato, i viveri costino una vera miseria, così poco anzi che per un fund,
ossia per circa cento lire, si possono comperare, su qualunque mercato, tre
polli!...
Il popolo si nutre ordinariamente
al pari del cinese di riso, condito con un miscuglio puzzolente che somiglia,
in peggio, al curry indiano, composto di gamberetti di mare lasciati
prima putrefare e di parecchie erbe e droghe fortissime. Non sdegna però,
specialmente il popolo campagnolo, i topi, le lucertole, le locuste, i vermi di
terra. In ciò è eguale, per gusto, al cinese.
I ricchi preferiscono invece i
pesci freschi o salati che si vendono in quantità prodigiose sul mercato
galleggiante di Bangkok, gli steli di bambù, i fagiolini ricciuti, conditi con
olio di cocco, che se fresco, ha un sapore gradevolissimo, degno dei migliori
olii della Riviera genovese e della Provenza; raramente invece mangiano polli e
quasi mai carni d'animali, perché la loro religione proibisce di ucciderli,
quantunque permetta loro di mangiarne se uccisi da altri che non siano
Buddisti.
Lakon-tay,
che voleva nascondere le sue angosce e anche il triste disegno che meditava, si
mise ad assaggiare le vivande portate, inaffiandole abbondantemente con tazze
colme di trau, un liquore distillato dal riso, mescolato a calce ed a
sciroppo di canna da zucchero, che i Siamesi pretendono sia atto a riparare le
energie fisiche estenuate dalla continua traspirazione.
Il disgraziato cercava di
stordirsi e di acquistare un'allegria fittizia.
Terminato il pasto, si fece
portare la scatola d'oro regalatagli dal re, piena di noci di areche e di betel
con un po' di calce, e si mise a masticare lentamente quel miscuglio piccante,
che annerisce i denti e che fa sputar saliva color del sangue, mentre
Len-Pra preparava il tè, versandolo in microscopiche
chicchere di porcellana cinese, sulle quali era dipinto, nello stile nazionale,
il cielo degli Indù colle falangi dei thevada.
«Mia dolce Len,» disse ad un
tratto il generale, che da alcuni minuti era ricaduto nei suoi tristi pensieri.
«Tu hai compiuto già da tre settimane i tuoi quindici anni, mentre io sono
vecchio, e mi potrebbe da un momento all'altro toccare qualche disgrazia.»
«Che cosa dici, padre mio? Quali
neri pensieri turbano questa sera il tuo cervello?»
«Nessuno,» rispose il generale,
soffocando un sospiro. «Prendo precauzioni, in vista di certi avvenimenti che
potrebbero verificarsi.»
«Tu mi spaventi, padre.»
«No,
Len-Pra.»
«Che cosa vuoi concludere allora?»
«Che alla tua età devi sapere
dove si trovano le ricchezze che un giorno ti dovranno spettare in eredità.
All'estremità del nostro
giardino, in un forziere che io ho immerso nella vasca, si trovano rinchiuse
tutte le gioie della famiglia e le verghe d'oro che ho accumulato in tanti anni
di economia.
Vi è là dentro tanto da farti
ricca, giacché, nei saccheggi delle città cambogiane e birmane, mi è toccata
come mia parte una fortuna considerevole.
Nessuno sa che le mie ricchezze
si trovino immerse in quel bacino, che è guardato dai due gaviali onde
garantirle dai ladri. Ecco quello che volevo dirti.»
«Potevi dirmelo un altro giorno,
o fra parecchi anni, padre,» disse Len-Pra. «Tu sei ancora
robusto e nessuna malattia ti minaccia.»
«È vero, ma per precauzione ho
preferito dirtelo questa sera.»
Si alzò, voltando le spalle alla
lampada per nascondere la profonda emozione che gli alterava il viso, e si
diresse verso un angolo della stanza, dove stava un gran bacino d'argento pieno
d'acqua, con entro un altro bacino di rame sottilissimo, già quasi tutto
sommerso.
Era un orologio ad acqua, usato
anche oggi dai Siamesi. Nel secondo bacino, più piccolo del primo e
leggerissimo, vi è un buco quasi invisibile che permette all'acqua di entrare a
poco a poco finché lo fa colare a picco.
«Un'altra ora è passata,» disse,
mentre il bacino s'immergeva.
In lontananza, i gong del
palazzo reale echeggiavano rumorosamente, invitando gli abitanti a spegnere i
lumi ed a coricarsi.
«È tardi,» disse Lakon-tay
con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra.
Va' a coricarti mia dolce Len.»
S'accostò alla fanciulla, che lo
guardava con una profonda mestizia, la fissò un momento, poi le depose un bacio
sulla fronte.
«Va', fanciulla,» le disse. «Avrò
ancora da fare un po' prima di coricarmi.»
Mentre
Len-Pra si ritirava nella sua stanza,
Lakon-tay uscì sulla veranda, aspirando avidamente l'aria fresca
della notte, carica di profumi deliziosi.
Il Menam, illuminato dalla luna
salita ormai in cielo, svolgeva la sua immensa curva, scintillante come se le
sue acque fossero d'argento, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti
e mormorando dolcemente, in un incessante scricchiolio di zattere e di barche
che si alzavano per la marea montante.
I lumi delle case acquatiche a
poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri morivano sulla
superficie dell'immenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i
dolcissimi suoni d'un tro2.
La città s'addormentava a poco a
poco, mentre la luna saliva sempre fra miriadi di stelle scintillanti in un
cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati delle pagode e le punte ardite
delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i
campanelluzzi delle phra-chedi e tremolare le
immense foglie dei cocchi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.
Lakon-tay,
appoggiato alla ricca balaustrata della veranda, laccata e dorata, teneva gli
sguardi fissi su un punto lontano, dove si vedevano talora brillare dei fuochi
ed innalzare nubi nerissime. Guardava verso la necropoli.
«Domani anche il mio corpo sarà
là,» disse. «No, Lakon-tay non deve sopravvivere alla sua
disgrazia. Siano maledetti i vili che hanno uccisi i S’hen-mheng!
Che la maledizione di Sommona Kodom li perseguiti in questa e nell'altra vita.
Len-Pra mi perdonerà di averla privata del padre e
comprenderà che la mia morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che
l'attende.»
Un grido che echeggiò in
quell'istante proprio sopra il tetto della casa lo fece trasalire.
«L'uccello della notte si è
posato sulla mia phe,» disse con un triste sorriso. «Forse l'anima di
mia moglie. Sì, vengo a raggiungerti.»
Percorse con passo fermo tutta la
veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.
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