La stanza del generale era ampia
e arredata con molto buon gusto, quantunque predominasse in tutti i mobili lo
stile cinese piuttosto che il siamese.
Le pareti erano coperte di quella
meravigliosa carta di seta, con fiori, uccelli, lune e draghi, così cara ai
Cinesi; il soffitto era tutto scolpito e dorato, il pavimento di porcellana a
disegni stravaganti, che raffiguravano animali fantastici. Alle finestre ricche
tende di seta verde cupe, nel mezzo un ampio letto di forme massicce, con
coperte di seta e una zanzariera poi qua e là, negli angoli e lungo le pareti,
divanetti, mobili leggerissimi laccati ed incrostati d'avorio e d'argento, poi
vasi giapponesi e Cinesi, e vasi Siamesi d'oro, meravigliosamente cesellati; e
di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Sommona Kodom.
Appesi alle pareti, disposti con
un disordine pittoresco, si vedevano tondi istoriati di antichissima
porcellana, armi di varie specie, e drappi preziosi tempestati di rubini, che
ricordavano nei loro disegni e nelle loro tinte gli splendidi tessuti dei
Birmani.
Lakon-tay,
appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola
d'argento, si vedeva una larga spada dalla lama diritta a due tagli, colla
guardia piccolissima, specie di enorme rasoio. Era la sua catana di
guerra, un'arma di fabbrica giapponese, taglientissima, già tinta e ritinta un
tempo nel sangue dei Birmani e dei Cambogiani.
La impugnò con mano ferma e la
guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada azzurra che ardeva proprio
sopra il letto; poi, senza che un muscolo del suo viso trasalisse, se l'accostò
alla gola.
Ad un tratto però abbassò l'arma,
poi la gettò su uno dei divanetti.
«No,» disse. «Il sangue farebbe
troppa impressione alla dolce Len-Pra.»
Stette un momento irresoluto, poi
si diresse verso un tavolino giapponese, su cui stavano parecchi vasi di
porcellana, delle tazze e delle caraffe piene d'acqua e di liquori.
«La morte mi coglierà nel sonno,»
mormorò.
Aprì uno di quei vasetti e ne
tolse una palla di colore brunastro, grossa come una piccola noce di cocco, che
tagliò a metà con un coltello dal manico d'oro. Levò dall'interno, che era un
po' molle, un pezzetto che gettò in una tazza già piena d'acqua.
Mescolò per alcuni minuti finché
quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la vuotò d'un fiato.
Poi attraversò la stanza, sempre
calmo, sempre impassibile, e si adagiò sul letto, mormorando: «Addio, mia dolce
Len-Pra. Possa la mia morte placare la collera del re e
salvarti dalla schiavitù.»
Un tremito scosse il suo corpo.
«Ecco il sonno eterno che si
avanza,» mormorò ancora.
E chiuse le palpebre divenute
pesantissime, mentre sulla veranda l'uccello della notte faceva echeggiare per
tre volte di seguito il suo funebre grido.
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Feng, il paggio affezionato, che
nutriva verso il generale una devozione senza limiti, aveva intuito che
Lakon-tay maturava nel suo cervello, eccitato dalla
disgrazia che ormai stava per coglierlo, un triste disegno.
Già, nel Siam, il suicidio è cosa
comune quanto nel Giappone. Un alto personaggio che cade in disgrazia,
difficilmente osa affrontare la derisione dei personaggi che un giorno gli
furono inferiori, e non sa rassegnarsi alla caduta.
Preferiscono suicidarsi, perché
fra i Siamesi, cosa davvero inesplicabile per un popolo che si fa un dovere di
non uccidere l'animale più nocivo e di non schiacciare il più vile insetto, il
suicidio è considerato come un trionfo ed una sublime virtù.
Anzi colui che si impicca è
perfino creduto degno di pubbliche lodi, chissà per quali strane e vecchie
costumanze, e si decreta al suo cadavere un'apoteosi.
Feng, che era stato raccolto
ancora fanciullo sui confini del Laos, in un villaggio di selvaggi Stienghi
devastato dalla guerra, conosceva ormai da troppo tempo il suo padrone per non
indovinarne i pensieri. Il suo istinto d'uomo selvaggio l'aveva avvertito che
una ben più grave disgrazia stava per piombare sulla casa e colpire soprattutto
la dolce Len-Pra.
Quindi, appena terminata la cena,
si era celato fra i vasi di peonie che abbellivano la veranda, deciso a
impedire al padrone di sopprimersi.
L'aveva veduto soffermarsi sulla
terrazza, aveva udito le sue parole, aveva udito pure il funebre grido
dell'uccello della notte che presagiva una imminente disgrazia.
Non osando però seguirlo appena
era entrato nella stanza, non aveva avuto il tempo di vederlo prendere la catana;
era giunto invece dinanzi ai vetri della porta quando il generale stava
vuotando la tazza.
Dapprima credette che avesse
trangugiato un bicchiere d'acqua o di trau, ma vedendolo poco dopo sdraiarsi
sul letto e rimanere immobile, come fulminato, il sospetto che avesse bevuto
qualche veleno gli balenò istantaneamente nel cervello.
Risoluto a strapparlo a qualunque
costo alla morte, il bravo giovane, in preda ad un profondo turbamento, spinse
poderosamente la porta, la quale, non essendo stata chiusa internamente,
cedette al primo urto. In due salti fu presso il letto.
Lakon-tay,
pallidissimo, coi lineamenti solo un po' alterati, dormiva o pareva dormisse
profondamente. Il suo respiro però era affannoso e attorno ai suoi occhi
cominciava ad apparire un cerchio azzurrastro.
«Che cosa può aver bevuto il mio
padrone?» si chiese Feng con angoscia.
Si precipitò verso il tavolino su
cui stava ancora la tazza, e un grido gli sfuggì: Aveva scorto la palla di
materia brunastra tagliata in due, che Lakon-tay non aveva
più ricollocata nel vaso di porcellana.
«Ha bevuto dell'oppio disciolto
nell'acqua!» esclamò. «Disgraziato padrone!»
Si precipitò fuori della stanza,
attraversò in un lampo la veranda ed entrò come una bomba nel salotto.
Len-Pra,
inquieta per i discorsi fatti dal padre, vi era tornata, non essendo riuscita
ad addormentarsi. Anch'essa aveva udito le grida dell'uccello notturno e,
superstiziosa al pari delle sue compatriote, le era balenato il pensiero che
una disgrazia stesse per piombare sulla casa.
Vedendo entrare Feng cogli occhi
dilatati dal terrore, il viso sconvolto, ansante, mandò un grido.
«Feng!» esclamò. «Che cos'hai?»
«Un medico, signora... tuo padre...
suicidato... l'oppio...»
«Qui!... di fronte!... dallo
straniero dalla pelle bianca... Ah! Padre mio!»
Feng era già nel vestibolo,
urtando i servi che accorrevano da tutte le parti perché avevano udito il grido
di Len-Pra. Scese a precipizio i gradini e si slanciò nella
via.
Di fronte alla phe del
generale, s'alzava un'elegante palazzina di legno, col tetto acuminato e le
grondaie arcuate, di stile più cinese che siamese, e colla solita veranda.
Feng salì rapidamente i tre
gradini, e col manico del coltello, che teneva nella fascia, percosse
fragorosamente ed a più riprese il disco di bronzo sospeso sopra la porta,
gridando contemporaneamente:
«Aprite, signor uomo bianco! Il
mio padrone muore!»
Alla seconda battuta la porta si
aperse e comparve un uomo vestito di bianco, con in capo un casco di flanella
pure bianca, come usano gl'inglesi e gli olandesi nelle loro colonie
d'oltremare, e con in mano una lanterna cinese coi vetri di talco.
Era un bel giovane di venticinque
o ventisei anni, di statura piuttosto alta, di forme eleganti ed insieme
vigorose, dalla pelle un po' abbronzata, cogli occhi nerissimi ed i capelli e
la barba pure neri.
«Chi muore?» chiese in buon
siamese.
«Il mio signore,
Lakon-tay.»
«Il ministro dei S’hen-mheng?»
esclamò l'europeo con stupore.
«Si è avvelenato, signore.»
«Attendi un istante.»
L'europeo rientrò nella
palazzina, in preda ad una visibile emozione, poi ne uscì di nuovo tenendo in
mano una cassetta di legno laccato, contenente probabilmente degli antidoti.
«Presto, precedimi,» disse
brevemente.
Attraversarono velocemente la via
e salirono nell'abitazione del ministro, facendosi largo fra i servi, che
gridavano e piangevano sulle scale, strappandosi le vesti e graffiandosi i
volti.
«Ordina a questi uomini che
stiano zitti,» disse l'europeo allo Stiengo. «Non è colle grida che si guarisce
un moribondo.»
Preceduto da Feng, attraversò la
veranda ed entrò nella stanza del ministro.
Len-Pra,
cogli occhi pieni di lacrime, in preda ad una disperazione straziante, vegliava
sola al capezzale di suo padre, sforzandosi, ma invano, di destarlo da quel
sonno che a poco a poco lo traeva verso la morte.
Vedendo entrare l'europeo, gli si
precipitò incontro, gridandogli con voce singhiozzante:
«Salvatelo, signore, e tutto il
tesoro di mio padre sarà vostro.»
Il giovane si limitò a sorridere
ed a scoprirsi il capo, figgendo i suoi occhi nerissimi in quelli della
graziosa fanciulla. Poi s'avvicinò al letto e tastò il polso di
Lakon-tay.
«Siamo in tempo,» disse. «La
morte non sarebbe giunta prima d'un paio d'ore. Non temete, fanciulla, io lo
salverò.»
«Fatelo, e tutto vi apparterrà,
ed io vi sarò riconoscente finché avrò un soffio di vita.»
L'europeo per la seconda volta
sorrise, dicendo a mezza voce:
«Mi basterà la riconoscenza della
bella Len-Pra.»
S'avvicinò al tavolo, su cui
stavano ancora la tazza e la palla d'oppio che Lakon-tay
aveva tagliato quasi per metà.
«È parna,» disse, «l'oppio
migliore, ma anche il più pericoloso. Bah! Vinceremo la sua potenza mortale.»
Aperse la cassetta, ne estrasse
una fiala contenente un liquido color del rubino e versò in una tazza alcune
gocce, aggiungendovi poi dell'acqua. Il liquido spumeggiò per qualche istante
spandendo un odore acuto, poi tornò limpido.
«Ciò basterà per salvare vostro
padre, Len-Pra,» disse il giovane medico.
S'impadronì d'un coltello colla
lama d'acciaio e il manico d'oro che aveva veduto su una mensola, s'appressò al
letto, aperse a forza i denti del generale e gli versò in bocca la misteriosa
miscela.
Tosto un fremito scosse il corpo
di Lakon-tay, fremito che durò qualche minuto, e la
respirazione, che poco prima era affannosa, divenne quasi subito regolare e
tranquilla.
«Salvato?» chiese
Len-Pra, alzando sull'europeo i suoi begli occhi bagnati di
lacrime.
«Aspettate un quarto d'ora o
venti minuti, e vostro padre aprirà gli occhi.
Ah! Quegli indiani hanno degli
antidoti veramente meravigliosi, che gli Europei, con tutta la loro scienza,
non hanno potuto ancora trovare. È stata una vera fortuna,
Len-Pra, che abbiate pensato a me. Non so se un altro
medico, e specialmente uno dei vostri, avrebbe potuto strappare vostro padre
alla morte. La dose d'oppio era forte, ma...»
«Dite, signor dottore.»
«Quale dispiacere può aver spinto
vostro padre, ministro potente ed invidiato, favorito del re, valoroso fra i
valorosi, a cercare la morte?»
«Non lo so, signore. Era tornato
questa sera assai turbato e triste.»
«Che sia morto l'ultimo S’hen-mheng?»
disse il medico. «Mi hanno detto che ieri mattina era assai ammalato e che alla
corte regnava una profonda preoccupazione.»
«Il S’hen-mheng
morto!» esclamò Len-Pra facendo un gesto di disperazione.
«Sì... morto...» mormorò una voce
presso di lei.
Lakon-tay
aveva aperto gli occhi e si era alzato, appoggiandosi sui gomiti.
Len-Pra gettò
un grido di gioia.
«Ah! Padre mio!»
Il generale rimase immobile,
cogli occhi dilatati, guardando ora la figlia ed ora lo straniero, certo
stupito di trovarsi ancora vivo.
«Padre mio!» gridò nuovamente
Len-Pra. «Non rimproverarmi d'averti strappato alla morte.»
La fronte del generale, che prima
si era aggrottata, si rasserenava.
Gettò ambe le braccia al collo di
Len e se la strinse al petto con un moto improvviso, dicendo:
«Perdonami, mia dolce Len, se io
avevo cercato fra le braccia della morte di sottrarmi alla disgrazia che
piomberà sulla nostra casa, ma al vecchio generale era mancato il coraggio di
sfidare il disprezzo della corte e la collera del re.»
«Voi, il più prode guerriero del
Siam!» esclamò l'europeo.
Lakon-tay
guardò il medico, poi gli tese la mano, dicendo:
«Lo straniero nostro vicino. È a
voi che debbo la vita, vero? Grazie per la mia Len, alla quale avete conservato
il padre, che era risoluto a morire.»
«Sono ben lieto di avervi
salvato, generale,» rispose l'europeo. «I valorosi come voi sono ben rari nel
Siam.»
Un mesto sorriso sfiorò le labbra
di Lakon-tay.
«Un dimenticato, ormai,» disse
con voce triste, «e fors'anche un maledetto dai grandi e dal popolo, i quali mi
accuseranno di essere stato io l'autore della morte dei S’hen-mheng,
i protettori del regno.»
«Il quale regno potrà prosperare
anche senza gli elefanti più o meno bianchi,» rispose l'europeo. «Credetelo,
generale, sono vecchie superstizioni che un giorno spariranno anche dal Siam.»
«Forse avete ragione,» disse
Lakon-tay, «ma nessuno potrà persuadere né i grandi né il
popolo e nemmeno i talapoini.»
«Ecco un uomo moderno,» disse il
dottore, sorridendo. «Per noi europei, perdonerete se parlo franco, gli
elefanti, di qualunque colore siano, sono tutti animali né superiori né
inferiori agli altri.»
«E voi, europei, ne sapete ben
più di noi,» disse il generale.
«Condividete dunque la mia
opinione?»
«Come uomo, sì, come siamese, no.
Dovrei rinnegare la mia religione e le credenze dei miei avi.»
«E noi crediamo in Sommona
Kodom,» mormorò Len-Pra.
«Avete veduto il re?» chiese
l'europeo.
«Ieri sera, dopo la morte
dell'ultimo S’hen-mheng.»
«Sapete, generale, che mi sembra
per lo meno strana la morte di quei sette elefanti in così breve tempo?»
Lakon-tay
fissò sull'europeo uno sguardo riconoscente.
«Anche voi sospettate che quella
morte non sia naturale?» chiese.
«Sì, generale. Avete qualche
nemico potente alla corte?»
«Tutti ne hanno: l'invidia ne fa
sorgere dovunque.»
«Qualcuno che aspirasse al vostro
posto?»
«Ve n'è più d'uno, ma io non credo
che costoro abbiano osato sfidare l'ira di Sommona Kodom.»
«Comunque, un sospetto voi
l'avete.»
«Sì,» rispose il generale.
«Frugate bene nella vostra
memoria: quel nemico può venire a galla.»
«Ah!...»
«L'avete trovato?»
«Len-Pra,»
disse il generale, «lasciaci soli. La confidenza che devo fare a questo europeo
deve essere, per ora, ignorata da te.»
La fanciulla tese la sua piccola
mano verso il medico, che gliela strinse sorridendo, e uscì, dicendo: «La mia
riconoscenza, finché avrò un soffio di vita.»
«Parlate adagio, non stancatevi,»
disse l'europeo, volgendosi verso il generale. «Siete ancora un po' debole.»
«Non provo che un po' di
sonnolenza.»
«Non ritenterete la prova,
spero.»
«No, ve lo prometto, perché ora
ho un desiderio terribile di vendicarmi dei nemici che hanno giurato la mia
perdita.»
«Parlate.»
«Le vostre domande mi hanno fatto
nascere un sospetto, che prima non mi era mai balenato nel cervello. Sì...
nella morte degli elefanti bianchi deve esserci entrata la mano di Mien-Ming.»
«Chi è costui?»
«Un Cambogiano che dal nulla è
riuscito a diventare, non so per quali male arti, puram3, ed a
guadagnarsi il favore del re.»
«Un avventuriero?»
«Che era stato prima ai servigi
del re di Birmania, un uomo falso, doppio, capace di commettere qualsiasi
delitto, assetato d'ambizione e tuttavia temuto, perché è protetto dal re.»
«Aveva qualche motivo per tentare
la vostra perdita?»
«Sì, quello di vendicarsi
d'avergli io negato la mano di Len-Pra.»
«Ve l'aveva chiesta?»
«Tre mesi or sono.»
«Ed ecco che un mese dopo il
primo S’hen-mheng moriva,» disse l'europeo, che era
diventato pensieroso. «Non avete però alcuna prova che possa essere stato lui.»
«Nessuna e poi, anche avendone
qualcuna, nemmeno io avrei potuto lottare contro un uomo così potente.»
«È buddista?»
«Io credo che sia un adoratore di
Fo o di Confucio, come la maggior parte dei Cambogiani.»
«Ecco una preziosa informazione,»
disse l'europeo. «Un confuciano può ridersene di Sommona Kodom, a cui non
crede. Deve però aver avuto dei complici.»
«Certo, signore, fra i paggi, i
servi od i mahut dei S’hen-mheng.»
«Sono amico di alcuni grandi
della corte,» disse l'europeo, alzandosi. «Spero di ottenere il permesso di
visitare l'elefante bianco che è morto ora. Conosco bene i veleni io: vedremo.»
«L'alba sta per spuntare e voi
siete ormai fuori pericolo.»
«Come potrò ricompensarvi per
avermi conservato alla mia dolce Len?» chiese il generale con voce commossa.
«Accettandomi come vostro
alleato, per combattere i vostri misteriosi nemici,» rispose l'europeo. «Gli
italiani amano la lotta e qui vi sarà ben da lottare, generale. Un valoroso
come voi non deve cadere così sotto i colpi d'un avventuriero.
Daremo battaglia, mio generale, e
spero che vinceremo e che smaschereremo quell'uomo, se potremo provare che sia
realmente colpevole.
Ci rivedremo più tardi, dopo il
mezzodì.»
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