Il dottor Roberto Galeno, figlio
d'un celebre medico che aveva fatto la sua fortuna alla corte del Kedivè
d'Egitto e poi a quella del marajah di Mysore, aveva ereditato dal padre
una intensa passione per la vita avventurosa.
Laureatosi appena ventenne, primo
fra tutti i suoi compagni, all'università di Padova, dopo un paio d'anni di
pratica in quell'ospedale, aveva dato un addio alla città natia, disgustato
anche dall'oppressione straniera, e si era imbarcato a Venezia sul primo
veliero in partenza per le Indie.
Ricchissimo, abilissimo e munito
anche di lettere di raccomandazione per i rajah e i marajah
dell'India, quattro mesi dopo salutava con gioia le torbide acque del sacro
Gange e le immense canne delle prime jungle.
Dopo aver percorso l'India
misteriosa, dal capo Comorin alle immense catene dell'Himalaja, aveva fissato
la sua residenza nel Mysore, dove già suo padre aveva lasciato tanti graditi
ricordi e dove il suo nome era ricordato con una specie di venerazione.
Spirito però irrequieto, non vi
si era fermato a lungo e, dopo un anno, aveva ripreso le sue peregrinazioni
visitando le grandi isole del mare della Sonda, ora operando e guarendo, ora
cacciando piccoli e grossi animali ed ora studiando quei popoli così
interessanti. A venticinque anni, un po' stanco di quella vita randagia,
desideroso di riposarsi alcuni mesi, era sbarcato a Bangkok, l'opulenta
capitale del Siam, la piccola Venezia dell'oriente.
Voleva conoscere anche i Siamesi,
prima di tornarsene definitivamente in Europa, e possibilmente anche i
Cambogiani, popolo in quell'epoca non più conosciuto di quello dayacho
che abita le impenetrabili foreste del Borneo.
La pittoresca città, col suo
magnifico fiume, le sue alte pagode dalle cupole dorate sfolgoranti al sole,
aveva subito conquistato l'anima del medico... ed egli si era fermato più del
previsto, affittando una graziosa palazzina che si trovava, come abbiamo
veduto, di fronte alla phe del generale.
Conoscitore profondo di tutte le
malattie che travagliano e decimano le popolazioni orientali, non aveva tardato
a formarsi una numerosa clientela, specialmente fra i ricchi della città e
anche fra i grandi della corte, che credevano più alla scienza d'un europeo, uomo
stimato soprattutto nel Siam e nella Birmania, che ai ciarlatani del paese.
Per parecchi mesi non si era mai
occupato del suo vicino, che abitava quella splendida phe; ma una sera
verso il tramonto, mentre stava sulla sua veranda leggendo un trattato di chirurgia,
i suoi occhi per la prima volta si erano incontrati in quelli di
Len-Pra.
La bellissima fanciulla, che
stava raccogliendo delle peonie fra le piante che adornavano la sua ricca veranda,
accortasi di essere osservata da quello straniero, si era affrettata a
ritirarsi; ma la sera seguente, alla stessa ora, il dottore l'aveva riveduta
formare un altro mazzo di peonie color di fuoco.
Per la prima volta in vita sua,
un sentimento nuovo, dolcissimo era penetrato nel cuore dell'italiano. Che
cos'era? Non sapeva veramente spiegarselo; sapeva solo che quando rivedeva la
figlia del prode generale, andava a riposare più contento. E per molte sere i
due giovani, entrambi belli, si erano guardati silenziosamente, fino al giorno
in cui il tentato suicidio di Lakon-tay li aveva per la
prima volta avvicinati.
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Il dottore, sempre un po'
preoccupato dalla disgrazia, che forse in quel momento stava per colpire il
disgraziato generale, passeggiava nervosamente dinanzi alla porta del palazzo
reale, chiedendosi con una profonda ansietà come sarebbe terminato quel
colloquio col possente monarca.
Conosceva abbastanza bene gli
orientali per non farsi troppe illusioni, ed aveva anche conosciuto più d'un rajah
o d'un marajah dell'India e dell'Indocina, monarchi capricciosi,
testardi, vendicativi e anche molto superstiziosi.
Cominciava già ad impazientirsi,
quando finalmente vide apparire Lakon-tay. Con un solo
sguardo capì che quel colloquio non doveva essere stato troppo amichevole, a
giudicare dal viso rannuvolato dell'ex ministro della corte dei S’hen-mheng.
«Cattive nuove, generale?» gli
chiese premurosamente.
«Andiamo nella mia phe,»
rispose Lakon-tay. «Esamineremo insieme la situazione e voi
giudicherete.»
Salirono nei palanchini e
partirono quasi a passo di corsa, avendo il generale avvertito i portatori di
andare molto in fretta.
Un quarto d'ora dopo il generale
e Roberto si trovavano nella stanza dove per la prima volta si erano veduti e
dove il medico aveva compiuto quella meravigliosa guarigione.
Lakon-tay,
dopo aver fatto avvertire Len-Pra che avrebbe cenato più
tardi, chiuse a chiave la porta della veranda onde nessuno entrasse; poi, dopo
aver invitato il dottore a sedersi, lo informò minutamente dell'esito del suo
colloquio con Phra-Bard.
Roberto lo ascoltò senza
interromperlo, non celando però la sua sorpresa e chiedendosi in cuor suo se
quella non fosse una nuova trovata degli occulti nemici del generale, per
perderlo completamente, tanto gli pareva inverosimile quella storia del driving-hook
di Sommona Kodom.
«È tutto?» chiese finalmente,
quando Lakon-tay tacque. «Che cosa ne pensate voi di questa
missione?»
«Mi pare che il re pensi
seriamente a riabilitarmi.»
«O a perdervi?»
«Non lo credo.»
«Quel famoso driving-hook
esiste veramente?» chiese l'italiano.
«Sono molti secoli che se ne
parla, senza che si sia mai fatto alcun tentativo per cercarlo. I talapoini
affermano che se il re lo possedesse, gli elefanti bianchi non mancherebbero
mai alla corte reale.
Io che ho combattuto per due anni
alle frontiere cambogiane, contro gli Stienghi e contro gli stessi Cambogiani,
ho udito sovente parlare di immense città d'una architettura meravigliosa, che
si troverebbero nascoste nelle immense foreste del settentrione, ad oriente del
lago Tuli-Sap.
Narrano le nostre antiche storie
che, molti secoli addietro, in quelle foreste esisteva un regno chiamato Khmer,
che occupava una estensione immensa, che ebbe centoventi re e che poteva
disporre di cinque milioni di combattenti.
Come quel regno sia scomparso,
ancor oggi è un mistero; ma che sia esistito non si può mettere in dubbio, anzi
era celebre fra i grandi stati indocinesi.
Di esso sono rimaste rovine
imponenti, fra cui una città che gli Stienghi chiamano
Angkor-tom e che sarebbe stata la capitale di quel regno.»
«Esiste ancora?»
«Sì, e gl'indigeni, che io ho più
volte interrogati, mi hanno raccontato che quella città, che sarebbe stata
costruita da un re lebbroso, ha ancora le due immense cinte in ottimo stato,
meravigliosi edifizi, torri, gallerie, archi trionfali ed una pagoda colossale
entro cui sarebbe stato sepolto il driving-hook
adoperato dal mahut incaricato di condurre l'elefante che incarnava lo
spirito di Sommona Kodom.»
«Che sia stato veramente sepolto
colà, quel driving-hook?»
«I nostri libri sacri lo
affermano.»
«E se non esistesse?» chiese
l'italiano, che non credeva molto alle leggende.
«Perché gli antichi talapoini
avrebbero mentito?» chiese Lakon-tay.
«Chi lo avrebbe sepolto?»
«Il mahut, per ordine
dell'elefante.»
Il dottore non poté trattenere un
sorriso d'incredulità. Già alle cinquecento incarnazioni del dio non prestava
alcuna fede, malgrado le affermazioni di tutti i libri sacri dei Siamesi e
anche dei Birmani.
«Ditemi, generale,» riprese. «Fu
fatta una descrizione di quel miracoloso uncino?»
«Sì: ha la punta d'oro, con due
cerchi di rubini, ed il manico è formato da uno smeraldo.»
«Uno smeraldo così enorme!»
«Vi stupite? Nella nostra pagoda
di vat-scetuphon si conserva una statuetta di
Sommona Kodom, fatta con un solo smeraldo che ha 68 millimetri di altezza e 32
di spessore.»8
«Sì, ne ho udito parlare,»
rispose il dottore. «Ed ora che cosa contate di fare?»
«Obbedire,» disse
Lakon-tay.
«Andrete a cercarlo?»
«Sì, perché da quel driving-hook
dipende la mia riabilitazione e la salvezza di Len-Pra.
Conosco troppo bene il re: è
leale e generoso, ma vuole essere obbedito. Io, ai suoi occhi, sono colpevole
di aver causato la morte dei S’hen-mheng e tutti,
popolo e grandi, mi accusano, quantunque la mia coscienza nulla abbia da
rimproverarmi.»
«E Len-Pra?»
Il generale stava per rispondere,
quando un lieve rumore, come d'un ramo che si spezzi, attrasse improvvisamente
la sua attenzione.
Quel rumore si era udito presso
una delle due finestre che erano state lasciate aperte e che guardavano sul
giardino, verso il fiume. Lakon-tay si alzò vivamente e si
diresse rapidamente verso la finestra, sollevando la leggera tenda di seta
azzurra che si gonfiava ai soffi della fresca brezza notturna.
Delle piante rampicanti, dalle
larghe e foltissime foglie, coprivano quasi l'intera facciata della casa,
incorniciando le finestre e spingendosi fino sul tetto. Lakon-tay
si curvò sul davanzale; ma poiché la luna non si era ancora alzata e i cocchi
ed i tamarindi del giardino proiettavano una folta ombra, non scorse nulla di
sospetto.
«Eppure un ramo è stato spezzato
sotto la finestra,» disse al dottore che lo aveva raggiunto.
«E da chi?»
«Non lo so.»
«Che qualcuno abbia osato entrare
nel giardino e arrampicarsi fino alla finestra, per sorprendere i nostri
discorsi?»
«Forse mi sarò ingannato,
dottore. Chi potrebbe avere interesse ad ascoltarci?»
Stettero qualche minuto alla
finestra; poi, non udendo alcun rumore sospetto, rientrarono.
«Dunque, voi partirete?» rispose
il dottore.
«Sì.»
«Quando?»
«Domani, dopo il mezzodì, sul mio
balon.»
«E Len-Pra?»
«Verrà con me,» disse il
generale. «È una fanciulla che ha buon sangue nelle vene, che ha viaggiato
molte volte, che mi ha accompagnato anche nelle foreste del settentrione,
quando guerreggiavo contro gli Stienghi. D'altronde non mi fiderei a lasciarla
qui.»
«Che cosa temete?»
«Avete dimenticato Mien-Ming?»
«Ah... Il puram
Cambogiano!...»
«Quell'uomo sarebbe capace di
tutto, anche di approfittare della mia assenza per rapirmi Len.»
«Guardate,» disse Roberto, che pareva
avesse preso una improvvisa risoluzione. «Se vi facessi la proposta di
accompagnarvi? Fareste acquisto, oltre che d'un medico, d'un buon fucile e d'un
discreto cacciatore.»
Lakon-tay,
con una mossa improvvisa strinse le mani del dottore.
«Voi, seguirmi! Voi condividere i
pericoli d'un così lungo viaggio fra le selvagge tribù del settentrione?»
«Se non vi sono d'incomodo!...»
«Ah!... Grazie, dottore, grazie!
Uomini come voi non si rifiutano. Un europeo in questo paese vale meglio d'una
compagnia di soldati del re.»
«Quando partiremo?»
«Domani, dopo il mezzodì, vi ho
detto.»
«Chi verrà con noi?»
«Feng, che è uno Stiengo; io l'ho
raccolto sei anni or sono, quasi morente, su un campo di battaglia, e l'ho
curato colle mie mani, ed egli è d'una fedeltà a tutta prova. Ci sarà prezioso
quando avremo raggiunto le foreste del settentrione.»
«Fino a dove rimonteremo il
Menam?»
«Fino ad Ajuthia, dove
incroceremo e risaliremo, finché sarà possibile, il
Nam-Sak. Venite a cenare, dottore. Tracceremo meglio il
nostro itinerario.»
Si erano già alzati, quando verso
la stessa finestra di prima udirono degli scricchiolii, come se altri rami si
spezzassero, poi un fruscio di foglie e infine un colpo sordo. Si sarebbe detto
che un corpo umano si fosse lasciato cadere nel giardino.
Lakon-tay si
precipitò nuovamente verso la finestra, tenendo in mano una pistola dalla canna
lunghissima ed arabescata, che aveva preso da una mensola.
«Ci spiavano!» gridò.
Il dottore lo aveva seguito,
infilando le mani nell'alta fascia di seta rossa che portava sotto la giacca di
flanella bianca, e nella quale teneva forse qualche arma.
La luna cominciava allora ad
apparire sulle cime delle foreste circondanti la città, ma fra le aiole e nei
viali del giardino non si scorgeva alcun essere umano.
«Eppure qualcuno o qualcosa è
caduto,» disse Lakon-tay, con inquietudine.
«Che qualche scimmia sia entrata
nel vostro giardino e si sia arrampicata fin qui?» chiese il dottore. «Ne ho
veduto parecchie nei giardini confinanti col vostro.»
«Può darsi,» rispose il generale,
facendo un gesto di dubbio. «Manderò Feng e qualche altro servo a visitare il
giardino. Andiamo a cenare, dottore: è già tardi.»
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