Si erano appena ritirati, quando
un'ombra umana si alzò in mezzo ad una folta aiola di peonie di Cina,
scivolando rapidamente verso la cancellata che cingeva il giardino.
Era un uomo quasi interamente nudo,
non avendo che un cortissimo sottanino stretto ai fianchi; la sua pelle, assai
bruna, luccicava come se fosse stata unta recentemente con olio di cocco.
Sospeso ad una sottile cintura,
portava uno di quei coltellacci dalla lama larga e dalla punta quadra usati dai
Birmani e dai Cambogiani, arma terribile, che d'un sol colpo tronca la testa
sia ad un uomo che ad una belva.
Quell'individuo, che pareva
dotato di un'agilità straordinaria, si inoltrò tenendosi sotto l'ombra
proiettata dagli alberi, che crescevano numerosi nel giardino, raggiunse la
cancellata, vi si inerpicò scavalcando le punte senza ferirsi e con un rapido
volteggio si lasciò cadere sulla riva del Menam.
Aveva appena eseguito quella
manovra, quando vide una torcia apparire all'estremità del giardino.
«Se tardavo un po', mi
prendevano,» mormorò. «Ora inseguitemi, se ne siete capaci. Kopom ha i garretti
solidi e sfida i cervi.»
Si slanciò a corsa sfrenata,
tenendosi curvo verso terra e seguendo la riva del fiume, che in quel luogo era
ombreggiata da una doppia fila di alberi di cocco, dalle immense foglie
piumate.
Continuò a correre per una decina
di minuti, poi, quando si credette sufficientemente lontano dalla palazzina del
generale, accostò alle labbra un piccolo pi, traendone alcune note stridenti
e acutissime.
Dopo alcuni istanti, verso la
riva opposta, si udì rullare un tong, poi una barca lunghissima,
stretta, colla prua alta e affilata, montata da alcuni uomini, se ne staccò,
scivolando silenziosamente sulle acque del maestoso fiume.
Non aveva alcuna lanterna di
carta oliata a bordo, né alcuna doratura sui fianchi. Era una di quelle lunghe
canoe scavate col ferro e col fuoco nel tronco d'un albero gigantesco, adorna
sul davanti di una testa di drago e guidata da una pagaia di dimensioni
straordinarie che serviva da timone.
Otto paia di remi la spingevano
rapidissimamente, essendo i Siamesi battellieri insuperabili.
In dieci minuti attraversò il
fiume, che in quel luogo era larghissimo, e approdò dinanzi a una capanna
semidiroccata, che un tempo doveva aver servito d'asilo a qualche pescatore.
Un uomo solo, corpulento, le
spalle avvolte in una larga sciarpa di seta nera che gli nascondeva parte del
viso, scese sulla riva.
Era
Mien-Ming, il possente puram segreto del re.
«Sei riuscito?» chiese a Kopom
che gli era mosso incontro.
«Sì, mio signore,» rispose il
Cambogiano.
«Hai udito tutto?»
«Tutto, ma per poco non sono
stato sorpreso; le piante che coprono la facciata della phe per due
volte hanno ceduto sotto il mio peso, e sono sfuggito alla morte per un vero
miracolo, giacché il generale si era armato d'una pistola.»
«E non t'ha scorto?»
«No, perché mi sono tenuto fermo
contro il muro, ammassando sopra di me le foglie. Se in quel momento un altro
ramo si fosse spezzato, non so se sarei qui a raccontarti l'esito della mia
pericolosa impresa.»
«Che cos'hai udito?» chiese il puram
con vivacità.
«Partono domani, dopo il
mezzodì.»
«Chi partono?»
«Il generale e anche
Len-Pra.»
Una rauca bestemmia sfuggì dalle
labbra contratte del puram.
«Anche
Len-Pra, hai detto?» chiese con voce sibilante. «Ne sei
certo?»
«Ti dirò anche, signore, che la
conduce con sé per impedire a te di rapirla.»
Il puram era diventato
pallido.
«Che sospetti di me?»
«Non lo so, padrone.»
«Anche per la morte dei S’hen-mheng?»
«Di ciò non ha parlato.»
«Ma teme che io approfitti della
sua assenza per rapirgliela?»
«Sì, padrone.»
Il puram fece un gesto di
furore.
«Avrò dunque inventato la storia del
sogno inutilmente?» esclamò, digrignando i denti e camminando come una belva
feroce lungo la riva del fiume. «Ah! Conduce con sé
Len-Pra! La vuole esporre ai pericoli di quel lungo viaggio
per impedirmi di rapirgliela! La portasse anche in Cina,
Mien-Ming non rinuncerà ai suoi progetti.
Quella fanciulla mi ha stregato e
bisogna che diventi mia, dovessi scatenare una rivoluzione nel Siam e ucciderle
il padre.
Non mi conosci ancora,
Lakon-tay, e non sai di che cosa sono capace io! Hai osato
rifiutare la mano di Len a me, puram, l'uomo più potente e più temuto
del regno dopo Phra-Bard? Imbecille! Me la pagherai cara!»
Dopo quello sfogo violento,
Mien-Ming tornò verso il Cambogiano, che non aveva lasciato
il suo posto.
«Hai altro da dirmi?» gli chiese.
«Sì, padrone,» rispose Kopom.
«Parla.»
«Un uomo bianco, un europeo,
accompagnerà Lakon-tay.»
«Chi è?» chiese
Mien-Ming, aggrottando la fronte.
«Quel dottore di cui ti ho
parlato,» rispose Kopom.
Il viso del puram assunse
un'espressione d'odio terribile.
«Quel medico che tu, per molte
sere, hai sorpreso in atto di scambiare sguardi con
Len-Pra?» chiese.
«Sì, puram.»
Mien-Ming
strinse i pugni, come se volesse stritolare qualcosa.
«Ecco un uomo che bisogna
sopprimere,» disse poi con voce cupa.
«Un europeo?»
«Fosse anche un principe, un re
od un demonio, quell'uomo non seguirà Len-Pra, né
Lakon-tay nell'alto Menam. È rientrato nella sua
palazzina?»
«Non ancora, padrone.»
«Hai paura tu?»
«Ti ho dato già molte prove di
essere coraggioso.»
«Quanti uomini vuoi?»
«Quattro mi basteranno.
«Hai il coltellaccio?»
«Eccolo,» disse Kopom, facendo
scintillare alla luce della luna la larga lama tagliente come un rasoio.
«Bisogna però che nessuno se ne
accorga.»
«Lo attirerò in qualche luogo deserto.
Egli è un medico e non sì rifiuterà di prestare aiuto ad un moribondo.
Se io lo assalissi presso la phe
di Lakon-tay, le sue grida attirerebbero i servi del
generale e fors'anche il generale stesso.»
«Come agirai?»
«Lascia fare a me, puram;
ho il mio progetto,» disse il Cambogiano, sorridendo. «Sarà ben bravo se mi
sfuggirà.»
«Sii prudente: io ti seguirò da
lontano, pronto a proteggerti colla mia autorità, nel caso che sopraggiungesse
qualche guardia notturna.
Tu sai come io ricompenso i tuoi
servigi, e ti ho promesso di farti diventare un giorno mandarino e di appagare
la tua ambizione.»
«Lo so, padrone: la tua
protezione vale quanto quella del re. Farò molta strada,» concluse il briccone,
con un tristo sorriso.
Mien-Ming si
accostò alla scialuppa, scambiando alcune parole coi battellieri.
Quattro abbandonarono tosto i
banchi e balzarono a terra, cacciandosi entro le fasce dei coltellacci simili a
quello che aveva il Cambogiano. Erano uomini robusti, tarchiati, dalla tinta
fosca, gli occhi obliqui col bulbo giallo, e indossavano una semplice camicia
di cotone grossolano che scendeva fino alle ginocchia.
Kopom li guardò attentamente ad
uno ad uno, poi, soddisfatto da quell'esame disse: «Ecco dei bei tipi di Malesi,
che valgono come dieci Siamesi.»
«Uomini senza scrupoli e dalla
mano pronta,» rispose Mien-Ming. «I miei uomini non li
recluto che fra i Malesi o i Cambogiani.»
«Addio, padrone, e conta su di
me,» disse Kopom.
Risalì la riva seguito dai
quattro battellieri e si diresse con passo rapido verso la phe del
generale. Quando giunse nella via che separava le due palazzine, si volse verso
i Malesi, dicendo loro:
«Andate a nascondervi dietro quel
muricciolo e, quando mi vedrete assieme all'uomo bianco, mi seguirete senza
farvi scorgere.
Non assalite se prima non udite
il fischio del mio pi.
Vi sono cento tical da
guadagnare, che il padrone pagherà senza battere ciglio.»
I quattro banditi scomparvero
dietro il muricciolo.
Kopom si collocò presso un angolo
della palazzina del dottore e si mise a guardare attentamente le finestre della
phe di Lakon-tay, le quali erano ancora illuminate.
«L'uccello è ancora lì dentro,»
mormorò. «Il puram sarà contento! Io un giorno sarò mandarino, e poi,
col tempo, chissà, puram del re anch'io. Gli affari vanno a meraviglia.»
Il Cambogiano era un briccone che
per ambizione, per doppiezza e per scaltrezza valeva
Mien-Ming.
Era anch'egli un avventuriero,
come ve ne sono tanti in quei paesi, senza fede e senza legge, il quale non
aveva che un solo scopo: quello di salire in alto.
Aveva cominciato la sua carriera
come mahut, ossia conduttore di elefanti alla corte del re di Cambogia,
e si era fatto subito distinguere per la sua abilità, per il suo coraggio e
soprattutto per la sua furberia. Malgrado però tutti i suoi sforzi, temeva di
finire la sua carriera ed i suoi sogni di grandezza fra gli elefanti reali,
quando un avvenimento inatteso gli permise di montare il primo gradino.
Il S’hen-mheng
del re di Cambogia, il solo che possedeva, perché in quel paese i colossi di
quella tinta biancastra sono molto più rari che nel Siam, dopo venticinque anni
era morto d'indigestione.
Il re, desolato e spaventato,
dopo aver speso invano somme enormi per farne cercare un altro, si rivolse a
Phra-Bard il quale, più fortunato, ne possedeva in
quell'epoca ben sette, che godevano tutti una eccellente salute.
Malgrado gli offrisse tesori
favolosi, il re del Siam rispose con un rifiuto categorico.
Arse d'ira il monarca Cambogiano,
e nel suo cuore giurò la distruzione dei S’hen-mheng
Siamesi!
Aveva avuto campo, in parecchie
occasioni, di apprezzare l'abilità, il coraggio e la scaltrezza di Kopom, e gli
diede l'incarico di vendicarlo, promettendogli una somma ragguardevole e la sua
protezione.
Munito di raccomandazioni
potenti, Kopom riuscì così a farsi accettare, senza troppe difficoltà, fra i
servi della corte degli elefanti bianchi del re del Siam, e subito cominciò la
sua opera di distruzione.
Un mese dopo il primo S’hen-mheng,
il più bello ed il più robusto, colpito da una malattia misteriosa che lo
faceva deperire ogni giorno di più, era già cadavere.
Invano i medici Siamesi cercarono
le cause di quella morte strana. Un solo uomo però indovinò che il veleno non
doveva essere stato estraneo alla fine del povero elefante:
Mien-Ming, che nella sua qualità di Cambogiano era maestro
in fatto di veleni.
Il puram si guardò bene
però di suscitare qualsiasi sospetto nell'animo del re, perché quella morte
favoriva i suoi disegni.
Era in quell'epoca che
Lakon-tay, governatore della corte dei S’hen-mheng,
l'aveva rifiutato come sposo della dolce Len-Pra, e
nell'anima bieca del puram era nato un odio profondo, inestinguibile
contro il valoroso generale.
Il puram si propose perciò
di sorvegliare personalmente il suo compatriota, ed una notte, nascosto dietro
una colonna della immensa sala nella quale i guardiani dormivano, scoperse
Kopom nel momento in cui stava versando, nel vaso d'argento colmo d'acqua d'un
elefante, il contenuto d'una fiala.
Il puram avrebbe potuto,
con una semplice parola, perdere l'avvelenatore; invece lo risparmiò perché,
come abbiamo detto, la distruzione dei S’hen-mheng
doveva segnare la caduta di Lakon-tay. Gli promise di non
denunciarlo e fece dell'avvelenatore la sua anima dannata, facendogli balenare
la speranza di farlo creare un giorno mandarino.
Come abbiamo veduto, il
Cambogiano aveva ottenuto per parte sua il suo scopo, vendicandosi del rifiuto
del generale; e Kopom era salito di un altro gradino, sotto la potente
protezione del puram, che stimava ben più sicura di quella del re di
Cambogia, dal quale non aveva ottenuto, per l'eccidio degli elefanti, che una
somma non troppo elevata, nessuno degli onori promessi...
Il briccone si trovava nascosto
dietro l'angolo della palazzina da una buona mezz'ora, e cominciava già ad
impazientirsi, quando vide la porta della phe di
Lakon-tay aprirsi ed uscire l'europeo.
Il Cambogiano attese che avesse
attraversato la via, che a quell'ora era deserta, poi, uscendo rapidamente
dall'ombra, lo raggiunse, prima che avesse il tempo di salire i tre gradini
della palazzina e di percuotere il gong.
Roberto, udendo quell'uomo
accostarsi, si voltò bruscamente, con una mano entro la larga fascia,
chiedendogli:
«Che cosa vuoi?»
«Sei tu il medico bianco che
guarisce gli ammalati?» chiese Kopom, con voce gemente.
«Sì, sono io.»
«La mia donna sta per morire,
signor uomo bianco, e mi hanno detto che tu solo puoi salvarla. Io sono un
povero battelliere, ma se tu riesci a conservarmela in vita, ti fornirò di
pesce tutto l'anno.»
Il dottore a quella strana
promessa sorrise.
«Conserva il tuo pesce per la tua
famiglia,» gli disse. «Dove abiti?»
«Presso il fiume.»
«Lontano?»
«Cinquecento passi.»
«Precedimi, quantunque sia un po'
tardi.»
«Grazie, signor uomo bianco,»
disse il briccone, fingendosi profondamente commosso. «Sommona Kodom pregherà
per te, uomo generoso.»
«Lascia in pace Budda e
spicciati.»
Il Cambogiano invece di precederlo
gli si mise al fianco allungando il passo.
Con un rapido sguardo si assicurò
che i quattro Malesi avevano lasciato il muricciolo e che lo seguivano
silenziosamente, tenendosi sotto la cupa ombra dei tamarindi e degli alberi di
cocco che fiancheggiavano la via.
L'italiano, il quale di nulla
sospettava, e aveva creduto alle parole di quell'uomo che aveva scambiato per
un povero battelliere del Menam, lo seguiva, immerso nei suoi pensieri.
Il Cambogiano si dirigeva verso
il fiume e precisamente verso la capanna abbandonata, pensando che in caso di
bisogno avrebbe potuto far accorrere anche i battellieri della scialuppa. Stava
per discendere la riva, quando finse di fare un passo falso, lasciandosi cadere
al suolo.
Il dottore si curvò per aiutarlo
a rialzarsi; ma ad un tratto si sentì stringere il collo da due mani nervose,
mentre nell'oscurità echeggiava un fischio.
Il Cambogiano con una mossa
fulminea l'aveva afferrato e lo teneva stretto, per lasciar tempo ai Malesi di
accorrere.
«Che cosa fai, canaglia?» gridò
l'italiano con voce strozzata.
«Accorrete: lo tengo, lo ten...»
Il Cambogiano non poté finire la
frase.
Il dottore era robusto ed aveva
una muscolatura d'acciaio. Con un pugno ben applicato, schiacciò il naso del ribaldo,
poi, svincolatosi bruscamente, con una poderosa pedata lo mandò a ruzzolare fra
i canneti del fiume.
«Prendi, birbante!» gridò.
Poi con un salto si slanciò sul
margine della diga, per rimontare la via che costeggiava il fiume.
Solo allora s'accorse che il
battelliere non era solo. I quattro Malesi stavano per precipitarglisi addosso,
tenendo in pugno i larghi e terribili coltellacci Birmani.
«Ah... Volete assassinarmi!»
gridò il dottore.
Cacciò le mani entro la fascia
che portava sotto la giacca e le ritrasse stringendo in ognuna una pistola.
Due lampi balenarono, seguiti da
due detonazioni e da due rantoli.
Due uomini caddero l'uno
sull'altro, senza mandare un grido; gli altri, dopo una breve esitazione, si
precipitarono all'impazzata giù per la riva, balzando nel fiume e scomparendo
sott'acqua.
Il dottore, ancora sorpreso da
quell'aggressione ingiustificabile, era rimasto sulla cima della discesa per
vedere se i due uomini tornassero a galla, quando, nel volgere gli sguardi
verso la capanna, scorse altre persone che salivano cautamente la riva.
Immaginandosi che fossero altri
compagni del battelliere e trovandosi colle pistole scariche, stimò prudenza
battere precipitosamente in ritirata.
Se aveva delle braccia solide,
aveva anche delle gambe buone. In due salti raggiunse la via che costeggiava la
riva e si slanciò verso la sua casa, che non era lontana più di cinque o
seicento metri.
Già non distava che qualche
centinaio di passi, quando vide due uomini muniti di lanterna di carta oliata
corrergli incontro.
Si arrestò, indeciso sul da
farsi, credendoli nuovi avversari, quando una voce a lui ormai ben nota gridò:
«Veniamo in vostro soccorso,
dottore!»
Erano il generale e Feng,
entrambi armati di fucile e di catane.
«Siete voi che avete fatto
fuoco?» chiese Lakon-tay, con voce alterata.
«Sì, generale,» rispose Roberto.
«Contro chi?»
«Contro degli uomini che avevano
tentato di assassinarmi, dopo avermi attirato verso il fiume.»
«Dalla veranda vi avevo veduto
parlare con un uomo, poi allontanarvi, quindi ho udito due colpi di pistola.
Credendo che foste stato voi,
sono accorso. Chi può avervi preparato un agguato? E poi, assalire un
europeo!... Un simile caso non è avvenuto mai in Bangkok.»
«Non si dirà più così,» rispose
Roberto, sorridendo. «Me la sono cavata bene e ho ucciso due dei miei
aggressori.»
«Chi erano?»
«Mi parvero battellieri o
pescatori.»
«Andiamo a vederli. Abbiamo due
buone carabine e le catane e nessuno oserà affrontarci. Avete mai avuto
questioni con qualche battelliere?»
«Mai, generale.»
«Che quei miserabili vi abbiano
assalito per derubarvi?»
«Lo suppongo.»
«O che ci sia sotto la mano di
qualcuno dei miei nemici?»
«A quale scopo?»
«Non so, forse per impedirvi di
seguirmi.»
«Se fosse così, hanno completamente
fallito il loro scopo.»
Si misero in cammino, dirigendosi
verso il fiume, preceduti da Feng, il quale rischiarava la via e teneva la
carabina armata.
In pochi minuti giunsero sulla
riva del Menam. Per non cadere in una imboscata scesero a ispezionare la
capanna e la trovarono deserta.
Anche sulla riva non si scorgeva
alcun essere umano.
«Avranno avuto una barca nascosta
fra i canneti e avranno attraversato il fiume,» disse il dottore.
«È probabile,» rispose
Lakon-tay.
Risalirono la riva per cercare i
due cadaveri; anche quelli erano scomparsi. I loro compagni, per evitare che i
due morti potessero venire riconosciuti, dovevano averli portati via e gettati
nel fiume.
Si vedevano invece sulla sabbia
due larghe macchie rosse e l'impronta di numerosi piedi nudi.
«Non potremo sapere nulla,» disse
il dottore. «Che il diavolo se li porti, e che...»
Si interruppe, prendendo per mano
il generale.
«Vi ricordate del rumore che
abbiamo udito presso la finestra, quando eravamo nella vostra stanza?»
«Sì,» rispose il generale, «ed
aggiungo che ora sono convinto che qualcuno abbia udito i nostri discorsi.»
«Era possibile una scalata?»
«Sì, essendo la facciata della
casa coperta di piante rampicanti, abbastanza robuste per reggere il peso di un
uomo.»
«Ci hanno spiati.»
«Ne sono convinto anch'io.»
«E a quale scopo?»
«Per conoscere i miei progetti.
Quando hanno saputo che voi mi accompagnerete hanno cercato di sopprimervi.»
«Non ne capisco il motivo.»
«Nemmeno io per ora; ma chissà
che un giorno non riusciamo a capirlo.»
«Andiamo, dottore, vi scorteremo
fino alla porta della vostra casa e domani faremo i nostri preparativi.»
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