Il fiume, che era sempre
larghissimo e che descriveva di frequente delle curve assai accentuate, in quel
luogo formava un brusco angolo, impedendo così all'equipaggio del balon
di poter scorgere ciò che succedeva dietro gli altissimi alberi che
costeggiavano senza interruzione le rive.
Le grida erano quasi subito
cessate; si udiva invece ancora, di quando in quando, un colpo di tam-tam
che la brezza, soffiando dal settentrione, portava fino agli orecchi
dell'equipaggio e dei passeggeri.
«Vi sarà qualche villaggio dietro
quella punta,» disse Lakon-tay, che ascoltava attentamente.
«Forse si sta celebrando qualche festa o qualche matrimonio.»
«È sicuro il fiume?» chiese il
dottore.
«Fino ad Ajuthia non vi sono da
temere cattivi incontri. Le cannoniere del re impediscono ai pirati d'acqua
dolce, che non sono rari sull'alto corso e anche sul
Nam-Sak, di scendere fin qui.»
«Sicché può darsi che più tardi
facciamo l'incontro dei briganti.»
«Oh! Non sono molto temibili per
gente come noi che ha delle buone carabine. Io che ho dovuto purgare le
province settentrionali da quegli squali d'acqua dolce, so che sono
pessimamente armati.»
«Che cos'è quell'immenso affare
che sembra sommerso?» chiese in quel momento Len.
La punta era stata superata e,
presso la riva sinistra, dinanzi ad un gruppetto di capanne e di tettoie, era
apparsa una strana costruzione di dimensioni enormi, semiimmersa nel fiume e
sormontata da un albero altissimo munito di numerose corde, che alcuni uomini
seminudi stavano maneggiando tenendosi sulla spiaggia.
Sembrava un bacino, avente almeno
duecentocinquanta metri quadrati di estensione, formato da grossissimi bambù
piantati nel fondo del fiume, un po' staccati l'uno dall'altro onde non
impedire l'accesso all'acqua, e coperto da un tetto leggermente inclinato,
fatto con panconi di legno di tek, con un'apertura nel centro, da dove
si rizzava l'albero.
«Che cosa può essere?» chiese il
dottore, che non riusciva a comprendere a quale scopo potesse servire quella
strana costruzione.
«Non lo indovinate?»
«No, generale.»
«È semplicemente un parco di
gaviali. Là dentro ve ne saranno probabilmente delle centinaia, e mi pare che
quegli indigeni si preparino a issarne qualcuno.
Vi sarà molta richiesta sul
mercato d'Ajuthia, e la coda è un manicaretto assai ricercato dai ghiottoni.»
«Un parco di gaviali!» esclamò il
dottore.
«Sì, e non sarà certamente il
primo né l'ultimo che troveremo, prima di giungere alla vecchia capitale. Gli
allevatori fanno dei buoni guadagni, ve lo assicuro.»
«E si allevano quei ributtanti
rettili per mangiarli!»
«Certo. E come vengono disputate
le code sul mercato! Si pagano quasi a peso d'oro.»
«Puah! Carne profumata di
muschio!»
«Ma non cattiva, credetemi, a
parte il profumo che non a tutti forse può piacere,» rispose
Lakon-tay. «Ne ho mangiato più volte anch'io nei pranzi
offerti dai mandarini di Ajuthia e di Tschai-Nat e non l'ho
trovata sgradevole, anzi.»
«E come fanno ad allevarli?»
«Come vedete, prima costruiscono quell'enorme
bacino, impiegando del legname solidissimo, poi vi gettano dentro due o
trecento piccoli gaviali, quei parenti prossimi dei coccodrilli.
Durante i due primi anni non si
occupano di loro, bastando ai piccoli rettili le erbe che crescono in fondo al
fiume; quando hanno raggiunto quell'età, si comincia a offrire loro qualcosa di
più solido, affinché si sviluppino rapidamente.
Infatti dopo, il secondo anno il
gaviale mette i denti. Da quel momento ingrossano e si allungano con una
rapidità incredibile. Allora si gettano loro in pasto, la mattina e la sera,
attraverso l'apertura del tetto, carogne d'animali, cesti d'immondizie ed
avanzi d'ogni specie. Al terzo anno, quando hanno già raggiunto i quattro o i
cinque metri di lunghezza, si comincia a pescarli.»
Il parco prospera
prodigiosamente, tanto che è necessario, dopo qualche tempo, moltiplicare le
pesche, per lasciare uno spazio sufficiente ai prigionieri.
Voi già sapete che le femmine dei
gaviali e dei coccodrilli non depongono meno di venti e anche ventidue uova
all'anno. Potete quindi immaginare come il numero dei rinchiusi aumenti
rapidamente.»
«E mi dite che i proprietari
fanno tanti guadagni?»
«Diventano rapidamente ricchi,
poiché la carne del gaviale, come vi dissi, è sempre ricercata, specialmente
dai Cinesi e dagli Annamiti, i quali la preferiscono a qualunque altra.»
«Ci terrei di più a mangiare una
bistecca di bue,» disse il dottore.
«Questione di gusto, signor
Roberto. Fermiamoci e assisteremo ad una pesca emozionante, ve lo assicuro.»
Il balon, guidato da Feng,
si era accostato al parco, e ora vi girava intorno.
Attraverso i bambù, che distavano
l'uno dall'altro alcuni pollici, si vedevano i terribili rettili contorcersi
furiosamente e si udivano muggire, mentre dall'apertura del tetto apparivano di
quando in quando delle mascelle formidabili, armate di denti acutissimi. Senza
dubbio ce n'erano parecchie centinaia rinchiusi in quella gabbia; dovevano
essere furiosi di trovarsi così stretti ed erano probabilmente assai affamati.
Di tanto in tanto i muggiti
aumentavano improvvisamente, formando un baccano assordante, e si udiva il
tetto rimbombare sotto i colpi di coda dei prigionieri.
Certo, delle violente risse
dovevano scoppiare fra quei bruti, risse destinate a terminare colla morte di
qualcuno che doveva servire di pasto ai vincitori.
«Se riuscissero a spezzare i
bambù, che spaventevole assalto ci darebbero,» disse il dottore.
«Sono di una solidità a tutta
prova,» rispose Lakon-tay. «Il governo permette l'erezione
di parchi lungo il fiume, ma esige che siano robusti.»
Compiuto il giro dell'immenso
bacino, approdarono dinanzi alle capanne, sulle cui pareti si vedevano stese
numerose corazze di rettili, messe a seccare.
Una dozzina di indigeni, fra
Siamesi, Cinesi e Tonchinesi, armati di coltellacci e di scuri, stavano facendo
scorrere le funi collegate all'albero che sorgeva nel mezzo del parco, per fare
abbassare una specie di gabbia di bambù.
Il loro capo, vedendo risplendere
sul cappello di Lakon-tay i cerchi d'oro, s'accostò al balon
a testa scoperta, dicendo:
«Che cosa desideri, mio signore?
Posso esserti utile in qualche cosa?»
«I tuoi uomini si preparano a
pescare qualche gaviale?» chiese Lakon-tay.
«Sì, mio signore. Vi è una barca
che ne aspetta dieci per questa sera, essendo stati richiesti dai mercanti di
Ajuthia.»
«Desideriamo vederne prendere
qualcuno.»
«I miei uomini sono pronti e tu,
mio signore, non avrai da attendere molto.»
La gabbia era stata tirata sulla
riva, dove si ergeva una piattaforma alta alcuni metri da terra.
Un giovane vigoroso, che dal tipo
sembrava un tonchinese e che, oltre ad essere armato di una catana dalla
lama pesantissima e assai affilata, portava attorno al corpo un nodo scorsoio
di pelle grossa e durissima, salì nella gabbia, gridando:
«Aoh!»
I suoi compagni manovrarono le
corde, e la gabbia, sollevandosi sopra la piattaforma, andò a urtare contro
l'albero, passando sopra il tetto del parco.
«Se quelle corde si spezzassero!»
esclamò il dottore, che non aveva potuto frenare un brivido d'orrore.
«Quel pover'uomo non si
salverebbe certo,» rispose Lakon-tay. «Saliamo sulla
piattaforma; di lassù godremo meglio lo spettacolo.»
Scesero a terra, accompagnati da Feng,
e salirono su quella specie di terrazza che dominava, per la sua elevazione,
tutto il recinto. Vedendo l'uomo dondolarsi sopra l'apertura del tetto, venti o
trenta teste erano emerse, spalancando le terribili mascelle.
I rettili, affamati, facevano sforzi
disperati per balzare fuori, colla speranza di azzannare la gabbia, ma, pigiati
com'erano in quello stretto spazio, appena appena potevano muoversi.
D'altronde, i compagni del
tonchinese si erano affrettati ad innalzare la gabbia, arrestandola a cinque
metri dall'apertura.
Il coraggioso pescatore sciolse
allora il laccio, lo allargò, e dopo aver guardato per qualche po' i rettili
per scegliere il più grosso, lo lanciò. Fra i gaviali si manifestò per qualche
istante una certa agitazione, specialmente quando videro l'uomo attaccare il
laccio ad una carrucola, poi la gabbia allontanarsi nuovamente, tratta alla
riva da quelli che erano rimasti sotto la piattaforma.
«Uno è già prigioniero,» disse
Lakon-tay.
«Come faranno a levarlo dal parco?»
chiese Len.
«Ora vedrai.»
I compagni del tonchinese, dopo
aver tirato la gabbia, afferrarono un'altra fune comunicante colla carrucola,
gridando:
«Oh! Alza!»
Alla seconda strappata, più
vigorosa della prima, si vide un gaviale innalzarsi fuori dall'apertura. Era un
mostro di dimensioni poco comuni, che misurava per lo meno cinque metri e che
avrebbe somministrato carne in abbondanza ai ghiottoni di Ajuthia.
Il rettile, sentendosi strappare
dal suo elemento e trascinare in alto, dapprima parve assai sorpreso e non
cercò di dibattersi; ma quando si trovò a metà dell'albero e provò le prime
strette del laccio, la sua rabbia scoppiò tremenda.
La corda gli era stata lanciata
attorno alla gola, prendendo dentro anche una zampa, e sotto quel peso enorme
si era stretta in modo tale, da produrre un solco profondissimo nella carne.
Sentendosi così preso ed intuendo
il pericolo, il gaviale cominciò a dibattersi freneticamente, colla speranza di
spezzare quella maledetta corda che lo strozzava. Si contorceva disperatamente,
muggendo con furore, avventava contro l'albero colpi di coda violentissimi che
scrosciavano come se sparassero dei piccoli pezzi d'artiglieria, poi cercava di
azzannarlo staccando larghi pezzi di legno, quindi colle tre zampe rimastegli
libere tentava di arrampicarsi, senza riuscire nel suo intento.
Sfinito da quegli sforzi,
s'arrestava alcuni momenti colle mascelle spalancate, soffiando e sbuffando,
gli occhi iniettati di sangue, poi tornava a balzare ed a contorcersi con
maggior rabbia, non ottenendo altro scopo che quello di stringere sempre più il
nodo che lo strangolava.
Lo spettacolo era spaventevole e
prometteva di durare a lungo, giacché tutti i coccodrilli posseggono una
vitalità che forse il solo pescecane supera.
L'albero, scosso da quei
soprassalti, vibrava tutto, dalla base alla cima, e talvolta perfino si
piegava; ma non v'era pericolo che si spezzasse, quantunque il rettile
raddoppiasse i suoi contorcimenti.
«Ecco una scena che difficilmente
si dimentica,» disse il dottore.
«È piuttosto ripugnante,» disse
Len.
«Durerà assai?»
«Qualche volta devono aspettare
un paio d'ore, prima di trarre alla riva questi animalacci,» disse
Lakon-tay. «Hanno la pelle assai dura.»
I soprassalti continuavano, però
a poco a poco diventavano sempre meno impetuosi. Le forze del mostro si
esaurivano e l'asfissia cominciava a manifestarsi.
Le mascelle, sempre spalancate e
ormai agitate da un tremito convulso, invano cercavano d'aspirare l'aria, e la
coda non si contorceva che a lunghi intervalli. Anche le zampe pendevano quasi
inerti.
Ad un tratto la bocca si chiuse e
il tremito cessò; erano già trascorsi ben più di venti minuti.
I pescatori, per assicurarsi
della sua morte, lo innalzarono fino alla cima dell'albero, poi allentarono
bruscamente la corda facendolo precipitare fino quasi sul tetto del parco.
A quella scossa brutale che aveva
per scopo di spezzargli completamente la spina dorsale e le vertebre, il
rettile fece un ultimo soprassalto, aprì ancora una volta le mascelle con un
crepitio strano ed insieme lugubre, poi l'enorme corpo rimase inerte, penzoloni
lungo l'albero.
«Eccolo finito,» disse
Lakon-tay. «Possiamo andarcene, o non potremo giungere
questa sera ad Ajuthia.»
Gettarono al capo dei pescatori
alcuni tical e tornarono al balon, rimettendosi in viaggio.
Il Menam, un po' sopra quel
minuscolo villaggio, cominciava a restringersi, mentre la corrente diventava
più rapida.
Su entrambe le rive si rizzavano
dei bellissimi alberi che lanciavano le loro cime a quaranta e perfino a
cinquanta metri di altezza, dai tronchi slanciati e ricchi di un abbondante
fogliame verde cupo. Erano dei cay-cay, alberi dai
cui frutti, o meglio dal nocciolo di questi i Siamesi e anche gli altri popoli
dell'Indocina ricavano una materia grassa che surroga benissimo la cera e dà
una fiamma vivissima che non produce alcun odore sgradevole.
In mezzo a quei colossi, già
tutti carichi di frutti che rassomigliavano a prugne, bande di scimmie appartenenti
a varie specie si rincorrevano di ramo in ramo, mentre sulle cime volteggiavano
dei grossi tucani rinoceronti, armati di becchi smisurati e muniti di una
specie di cresta che rassomigliava ad una enorme virgola.
Di quando in quando, cominciavano
ad apparire dei villaggi, per lo più miserabili, formati di poche capanne
costruite su palizzate, per impedire alle tigri e alle pantere di forzare le
porte nelle loro incursioni notturne, o di rovesciare le malferme pareti
d'argilla e di rami malamente intrecciati.
Quei villaggi indicavano la
vicinanza dell'antica capitale del regno, giacché i contadini Siamesi non amano
allontanarsi troppo dai grossi centri, per timore dei pirati d'acqua dolce e
più di tutto delle belve, contro le quali si sentono impotenti a lottare,
mancando generalmente di audacia e anche di buone armi da fuoco, le sole ormai
temute da quelle terribili predatrici.
Anche il fiume cominciava ad
animarsi. Delle grosse barche cariche di derrate e munite di vele immense si
staccavano dalle rive salendo verso il nord e anche delle piccole galere di
forme eleganti e leggere, strette e lunghe, con un solo ponte e le ancore di
legno di tek, avanzavano spinte da un numero considerevole di remi.
Vedendo il balon, che
filava rapidissimo per giungere all'antica capitale prima che la notte
scendesse, si affrettavano a trarsi da parte e salutavano i viaggiatori con un
cortese: «Buona giornata, signori.» Poi facevano echeggiare il disco di bronzo
sospeso all'albero poppiero.
Alle sei di sera, verso il nord,
dopo che il balon ebbe superato una curva considerevole, sul nitido
orizzonte apparvero improvvisamente le altissime guglie delle pagode d'Ajuthia,
indorate dagli ultimi raggi del sole tramontante.
Le dorature delle cupole
scintillavano vivamente, come tanti piccoli soli, mentre più all'est
giganteggiava l'imponente piramide sacra innalzata a Sommona Kodom, una massa
enorme che s'eleva a gradini, con statue numerose ed un Budda colossale verso
la cima, e corridoi vastissimi che servono d'asilo tranquillo a milioni di
pipistrelli.
«Ecco laggiù la porta benedetta
col sangue umano,» disse Lakon-tay, indicando al dottore un
bastione altissimo, in parte diroccato, sotto cui s'apriva un'arcata.
«Perché benedetta con sangue
umano?» chiese Roberto.
«Ignorate dunque che, fino a
pochi anni or sono, qui si usavano bagnare le nuove porte della città con
sangue di uomini e anche di donne?»
«Ne avevo udito vagamente
parlare, senza prestarvi fede.»
«Anch'io nella mia gioventù corsi
il pericolo di venire schiacciato dalla trave fatale, e non sfuggii alla morte
che per un miracolo, o meglio per la velocità delle mie gambe.
Avevano innalzato le mura attorno
a Raeng, per renderla più sicura contro le frequenti invasioni dei Birmani, e
si dovevano aprire due porte.
Per avere le vittime necessarie
alla benedizione, si ricorre ad un crudele stratagemma. Si collocano presso le
porte alcuni soldati i quali fingono, di quando in quando, di chiamare
qualcuno.
Tutti quelli che passano senza
voltarsi, non vengono importunati, ma i primi che guardano indietro, vengono
subito afferrati e destinati al sacrificio.
Più nessuno può salvare quei
disgraziati. Si destina il giorno della festa, si fanno banchettare
sontuosamente i prigionieri, poi si conducono dinanzi alla porta che si deve
benedire e si schiacciano sotto una trave pesantissima.
Quando sono tutti morti, i
talapoini ed il governatore dànno loro l'incarico di vegliare affinché nessun
nemico s'introduca di soppiatto in città.»
«Una ben feroce derisione,» disse
il dottore.
«Ora invece, da un po' di tempo,
quelle crudeli cerimonie sono state abolite da Phra-Bard.»
Dei barriti formidabili
interruppero in quel momento la loro conversazione. Sulla riva destra, fra i
manghi ed i cay-cay, era improvvisamente comparsa
una truppa di colossali elefanti.
Quei giganti erano una decina e
si preparavano a scendere nel fiume per rinfrescarsi ed avvoltolarsi nel fango.
«Elefanti selvaggi?» chiese il
dottore, che si era alzato per meglio ammirare quei superbi pachidermi.
«Semiselvaggi,» rispose
Lakon-tay. «Là si estende il gran parco di Ajuthia. Ah! Se
potessi farvi assistere a qualche battuta di quei colossi! Che spettacolo
vedreste, dottore!
Siamo nella stagione delle battute
e non è improbabile che ne vedremo qualcuna. Domani, o questa sera stessa, lo
sapremo dal governatore della città che è mio amico. Feng, sii prudente!
Entriamo nel canale, e lì di traffico ve ne sarà fin troppo.»
Avevano abbandonato il corso
principale del fiume e imboccato un canale non troppo largo, che serviva di
congiunzione al Nam-Sak.
L'avvertimento del generale
giungeva a tempo. Quel corso d'acqua era ingombro d'un numero infinito di
galere, di barconi, di balon più o meno adorni e di scialuppe d'ogni
forma e d'ogni portata, che s'incrociavano in tutti i sensi, rendendo il
passaggio difficilissimo.
A destra e a sinistra, trattenute
alla riva da grosse gomene vegetali, si estendevano lunghe file di case
galleggianti, sorrette da immense zattere, sulle quali si rincorrevano truppe
di ragazzi e di ragazzine quasi nude, e dove numerosi pescatori mettevano ad
asciugare delle lunghissime reti.
Si udivano chiacchiere di donne,
canti di battellieri, scrosci di risa e numerosi alterchi.
Il balon filò con velocità
moderata fra quelle case e quella moltitudine di barche e un quarto d'ora dopo
si arrestò dinanzi al quai di legno della vecchia capitale siamese.
Ajuthia non ha la decima parte del
movimento di Bangkok, quantunque sia sempre la seconda città del regno, ed ha
una popolazione di gran lunga inferiore a quella della rivale, contando a
malapena trentamila abitanti. Come però tutte le città antiche, ha avuto giorni
di splendore, specialmente quando era capitale del regno e sede dei monarchi
Siamesi.
Fondata verso il 1360 dal re
U-Fong, sulle rovine d'un'altra antichissima città, sorse
rapidamente mercé la munificenza dei monarchi, arricchendosi di pagode
meravigliose che superano anche oggidì, per ricchezza, quelle di Bangkok; ma
decadde anche presto.
Conserva ancora il suo palazzo
reale, che, quantunque costruito tutto in legno di tek e bambù, ha
resistito per tanti secoli alle intemperie; invece i suoi templi, che occupavano
una superficie di molte miglia quadrate, sono quasi tutti in rovina.
Le male erbe ne hanno già coperto
molti; tuttavia si possono ammirare ancora cupole superbe, arcate meravigliose,
colonnati magnifici, guglie che sembrano coperte di trine d'oro, e una statua
di Sommona Kodom alta ben diciotto metri, rivestita di lamine di rame, che vale
dei tesori, perché s'impiegarono per la sua erezione ben
25.000 libbre di quel metallo, 2.000
d'argento e 400 d'oro.
La costruzione meglio conservata
è la piramide di Puha-thon, che s'innalza in una pianura
situata a nord-est della città, e fu eretta a ricordo di
una strepitosa vittoria riportata sul re del Pegù; massiccia, è però bellissima,
e lancia la sua punta a centoventi piedi.
Tutto il resto non è che una
rovina, essendo crollati perfino i muri di cinta dei giardini reali e gli
edifici dell'antico quartiere degli stranieri che pure erano in mattoni.
Tale d'altronde è il destino di
tutte le città indocinesi quando vengono abbandonate dalla corte: si lasciano
crollare senza che nessuno se ne preoccupi. Ecco il motivo per cui in quelle
regioni si trovano così sovente, anche in mezzo ai boschi, delle rovine che un
giorno dovevano aver appartenuto a città opulente e grandiose.
Essendo ormai calata la notte,
Lakon-tay, il dottore e Len decisero di rimanere a bordo
del balon, giacché vi era spazio sufficiente per dormire sotto il
baldacchino e c'erano coperte di lana e di seta oltre ai soffici cuscini. Il
generale però incaricò Feng di portare i suoi saluti al governatore, di cui era
amico, avendo essi combattuto insieme contro i Birmani.
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