Un barrito formidabile, unito ad
un furioso martellare di gong e di tam-tam e
ad aspri e acutissimi suoni di chiarine, li strappò bruscamente dal sonno.
Il sole era appena spuntato,
indorando le acque del canale ed il doppio filare d'alberi di cocco e di manghi
che ombreggiavano la larga gettata.
Un elefante magnifico, adorno
d'un frontale di metallo dorato e col corpo coperto di una ricca gualdrappa di
seta rossa a frange d'oro, che reggeva sul poderoso dorso una specie di cassa
di legno laccato e scolpito, sormontata da una cupoletta con colonnine
scannellate, barriva impaziente presso la gradinata.
Attorno a lui una dozzina di
musicanti battevano con furore le lastre metalliche e soffiavano a tutta forza
entro le chiarine, facendo accorrere un buon numero di curiosi.
Lakon-tay,
udendo quel fracasso, si alzò per vedere di che cosa si trattava, e stava per
interrogare i musicanti, quando un uomo, che indossava una larga fascia di seta
azzurra stretta sopra una specie di lunga camicia e reggeva un ombrello
altissimo, scese la gradinata, accostandosi al balon con rispettosi
inchini.
Vedendo sul cappello conico del
generale i cerchi d'oro, si fece risolutamente innanzi, dicendo:
«È al generale
Lakon-tay che ho l'onore di rivolgermi?»
«Sono io,» rispose il vecchio
guerriero.
«Il governatore ti prega, o mio
signore, di accettare l'invito di prender parte alla grande battuta degli
elefanti, trovandosi egli ai confini del parco e desiderando salutarti.»
Lakon-tay
mandò un grido di gioia.
«Dottore,» disse, volgendosi
verso l'italiano. «Ecco realizzate le nostre speranze. Ciò si chiama aver
fortuna.»
«Mio signore,» riprese l'inviato
del governatore, che doveva essere un ufficiale od un funzionario della sua
casa, «l'elefante ti aspetta e la battuta è già cominciata.»
«Non perdiamo tempo o giungeremo
troppo tardi. Feng, sali dietro al mahut, e noi sediamoci nel
palanchino.»
La scala che metteva nel
palanchino era stata abbassata dal mahut.
Len-Pra,
aiutata dal dottore, salì per la prima, prendendo posto sui cuscini di seta,
poi salì suo padre, portando tre carabine.
Roberto salì ultimo, dopo aver
gettato ai suonatori una manciata di monete.
Il funzionario disse alcune
parole al mahut, poi fece un profondo inchino, dando contemporaneamente
il segnale della partenza.
L'elefante, una superba bestia di
dimensioni mostruose, rizzò verticalmente la tromba in segno di saluto,
barrendo fragorosamente, poi si mise in marcia con passo rapido, seguendo la
riva del canale.
«Che fortunata combinazione!»
esclamò il dottore. «Mai mi sarei immaginato di veder esaudito così presto il
mio desiderio, anzi ero convinto di dover lasciare Ajuthia senza poter
assistere a una di quelle formidabili battute.
Che sia stato il re a ordinarla?»
«Certo,» rispose
Lakon-tay. «Avrà bisogno di elefanti per le sue nuove
artiglierie che ha fatto acquistare in Europa.»
«Dove si trovano quei colossi?»
«Nelle jungle e nelle foreste che
si trovano a sud-est della città, che sono di proprietà reale e hanno una
estensione immensa.
Colà vivono in uno stato quasi
selvaggio, e guai all'imprudente che osasse cacciarsi fra quelle macchie! Non
uscirebbe certamente vivo, poiché gli elefanti sono numerosissimi, parecchie
centinaia e forse migliaia. Gli stessi guardiani del parco ne ignorano il
numero.»
«I battitori saranno già in
campagna?»
«Sì, e da parecchie notti,»
rispose Lakon-tay. «Non è facile spingere quelle immense
truppe verso il centro del parco, dove esiste il recinto da cui poi non
potranno più uscire.
I battitori devono dar prova
d'una pazienza e d'una abilità estrema; al minimo allarme, quei colossi deviano
e non tornano più nei luoghi che sospettano occupati dai loro nemici e soprattutto
dai cacciatori.»
«Come fanno dunque?» chiese il
dottore.
«Circondano in gran numero una
parte della foresta e della jungla, tenendosi sempre sottovento e
mettendosi sotto i piedi una spugna bagnata. Senza queste precauzioni gli
elefanti, che hanno un odorato finissimo, si sbanderebbero subito, temendo
assai l'uomo.
Poi avanzano lentamente, facendo
delle lunghe fermate per lasciar tempo agli elefanti di rassicurarsi e di
mangiare e anche di riposare durante le ore più calde del giorno; quindi
ricominciano la marcia, fischiettando sommessamente, per spingere i colossi
verso il luogo prescelto. Con simili manovre riescono a poco a poco a
concentrarli verso il recinto.
Se il governatore ci ha invitati,
vuol dire che gli elefanti si trovano già presso l'agguato, e che i battitori
si preparano a cacciarli dentro. Vedrete che spettacolo, dottore.»
«Non correremo il pericolo di
venire rovesciati?» chiese Len.
«Il nostro elefante è solido come
una rupe e resisterà a qualunque carica,» rispose il generale. «Ecco la jungla
e laggiù la foresta.»
«E degli elefanti nascosti fra le
macchie,» disse il dottore.
«Sono le femmine incaricate di
mettere a posto i pachidermi selvaggi. Vedrete come opereranno quelle bestie.»
«Aiuteranno i battitori?»
«E come! Vi sembrerà strana la
cosa, eppure gli elefanti addomesticati odiano quelli liberi e non
indietreggiano dinanzi a qualsiasi pericolo per ridurre anche quelli in
schiavitù.»
L'elefante che li trasportava, il
quale aveva sempre mantenuto un buon trotto, percorrendo senza affaticarsi le
sue dodici miglia all'ora (che avrebbe potuto spingere anche a venti con un po'
di sforzo), era giunto sul margine della jungla e vi era entrato
risolutamente.
Era una pianura vastissima,
interrotta da canaletti e da stagni ancora ben provvisti d'acqua, lasciatavi
dalle piene periodiche del Menam, coperta da ammassi di bambù altissimi, di
arbusti spinosi assolutamente impenetrabili e di felci. Dei solchi enormi,
prodotti senza dubbio dai corpacci degli elefanti, si aprivano qua e là in
mezzo ad un caos di piante abbattute o spezzate.
In lontananza invece s'ergeva la
foresta, formata per la maggior parte di alberi di tek, di ficus banian
di grandezza mostruosa e di cay-cay.
L'elefante attraversò velocemente
la jungla, che si estendeva per parecchie miglia, e dopo venti minuti
giunse sul margine della foresta, dove si trovavano riuniti più di trenta
colossali pachidermi, privi di palanchini, di gualdrappe e di ornamenti e
montati ognuno da due uomini quasi interamente nudi e spalmati d'olio di cocco,
che tenevano in mano delle grosse corde annodate a laccio.
Erano gli uomini incaricati di
legare gli elefanti prigionieri, gente coraggiosa, agilissima, già pratica di
quel pericoloso mestiere.
Più oltre, sotto un banian, stava
un altro elefante bardato in rosso ed azzurro, col frontale di metallo dorato e
sul dorso un ricco palanchino colla cupoletta dorata, montato da un vecchio
siamese piuttosto corpulento, che indossava un'ampia camicia di seta aranciata
a fiorami rossi e portava sul capo un cappello conico con tre cerchi d'oro.
Intorno al pachiderma vi erano
numerosi cavalieri armati di lance e di archibugi, battitori, suonatori di tam-tam
e servi che tenevano in mano delle lunghe torce già accese.
«Il governatore,» disse
Lakon-tay, indicando al dottore l'uomo panciuto, che si era
alzato, facendo colla destra un saluto amichevole.
«Arriviamo in tempo,
Man-Seng?» chiese poi al governatore.
«Ben felice di vederti,
Lakon-tay,» gridò il mandarino. «I miei saluti alla gentile
Len ed al signor farang (europeo).
Partiamo subito: gli elefanti
sono già presso il recinto, e gli uomini non aspettano che te per dare il
segnale della carica.
A più tardi il resto.»
Fece un cenno colla mano e tutti,
elefanti, cavalieri, battitori e servi, si misero in marcia attraverso la
foresta.
In lontananza, nel più fitto
della boscaglia, si udivano dei barriti formidabili. Pareva che un gran numero
di quei colossi si trovasse radunato in mezzo alle macchie.
Il corteo ad ogni momento
s'ingrossava, giacché altri battitori giungevano da tutte le parti, sbucando
fra le macchie.
«Ecco il momento dell'attacco,»
disse Lakon-tay al dottore.
Erano giunti sulla riva d'un
piccolo corso d'acqua e il mandarino diede l'ordine di sostare. Essendo la
sponda alta, si poteva da quel luogo assistere alla mostruosa caccia.
Al di là si estendeva una palude
interrotta da isolotti, da banchi e da macchioni di piante.
Gli elefanti selvaggi a poco a
poco erano stati spinti fra quelle terre semisommerse e si vedevano passare da
un isolotto all'altro a gruppi di venti o trenta.
I poveri animali parevano in
preda ad una vivissima eccitazione. Alzavano le trombe, aspiravano rumorosamente
l'aria, scuotevano le loro immense orecchie, barrivano ferocemente, girando su
se stessi come se non sapessero più da qual parte veniva il pericolo.
Ve n'erano di colossali e di
piccoli, alcuni armati di zanne bellissime ed altri ancora senza, alcuni grigi
ed altri nerastri.
Vedendo apparire sulla riva del
fiume il corteo, quei tre o quattrocento colossi, presi da un improvviso
panico, retrocessero verso il centro della palude, urtandosi furiosamente e
mettendosi in salvo sugli isolotti.
Il mandarino osservò attentamente
i posti che occupavano, poi fece avanzare le femmine che erano montate dagli
uomini unti d'olio di cocco, i quali si tenevano distesi sui larghi dorsi delle
bestie per non farsi scorgere.
Erano appena entrate nel fiume,
quando sulla riva opposta della palude echeggiarono improvvisamente delle
scariche di fucili, a cui tenne dietro un fracasso assordante. Si percuotevano tam-tam,
gong e tamburi, si suonavano campane, squillavano trombe e chiarine, poi
centinaia di voci echeggiavano fra un continuo fuoco di moschetteria. Per
l'aria volavano frecce fiammeggianti e torce resinose, che venivano scagliate
da mani invisibili.
Anche i cavalieri, i battitori ed
i servi del seguito del mandarino si erano precipitati nel fiume, le cui acque
erano basse, urlando, percuotendo gl'istrumenti musicali e sparando fucilate.
I pachidermi, spaventati da tutto
quel fracasso, si rovesciarono sulle isole che occupavano il centro della
palude, poi, udendo rimbombare i gong ed i tam-tam
a destra a sinistra e dietro, si scagliarono verso nord, il solo punto dove né
si udivano colpi di fucile, né risuonavano strumenti musicali.
Era quello che desideravano i
battitori, trovandosi in quella direzione il recinto che serviva di trappola.
I due elefanti montati dal
mandarino e da Lakon-tay si erano messi dietro ai
battitori, sprofondando fino al ventre nelle acque della palude.
Lo spettacolo che offrivano
quelle torme di colossi spaventati era grandioso ed insieme impressionante.
Presi ormai da un panico irrefrenabile, fuggivano all'impazzata barrendo
furiosamente, tutto rovesciando sul loro passaggio.
Sotto quella valanga, che nessuna
forza umana, nemmeno un esercito, avrebbe potuto ormai frenare, gli alberi che
crescevano sugli isolotti cadevano come fossero stati falciati dalla scure d'un
titano; le macchie di bambù scomparivano sminuzzate, quasi polverizzate; dei
cespugli non rimaneva più nemmeno la traccia, e perfino lembi di terra
franavano nella palude.
Era una carica spaventosa,
terribile come un ciclone, come una gran marea autunnale, che s'avanzava e
s'allargava, fra mille clamori selvaggi e mille rombi assordanti.
Ma non fuggivano, no, tutti! Di
quando in quando qualche colossale maschio, preso da un improvviso furore, si
volgeva verso il nemico, s'avventava terribile fra i compagni, urtandoli e
anche rovesciandoli, poi si scagliava attraverso la palude colla proboscide
tesa, pronta a stritolare, e caricava a fondo.
Allora succedeva una fuga
disordinata: cavalieri, battitori, suonatori fuggivano all'impazzata da tutte
le parti, fra un grido assordante.
Invano le femmine ammaestrate
accorrevano per chiudere il passo al ribelle ed invano si lanciavano contro di
esso torce accese e gli si sparavano addosso razzi. Il colosso s'apriva un
varco e scompariva nella foresta, salutando la vittoria con un barrito che
risuonava lungamente sotto le fitte volte di verzura.
«Che spettacolo!» esclamò il
dottore, entusiasmato. «Sono cose che mi rimarranno impresse lungamente, anzi
che non dimenticherò mai.»
«E non è ancora finito,» rispose
Lakon-tay. «Aspettate ancora un po'. Len, hai paura?»
«No, padre,» rispose la
fanciulla.
«Avanti, mahut. Vogliamo
assistere all'ultima scena.»
Gli elefanti erano giunti sulla
riva della palude e, dopo una breve esitazione, si erano scagliati attraverso
la foresta, stretti da tutte le parti dai battitori.
Anche là tutto cedeva dinanzi a
quella carica irresistibile. Alberi vecchi, che avevano sfidato forse per
centinaia d'anni le bufere più violente, oscillavano e poi cadevano,
trascinando con sé i più giovani ed enormi ammassi di piante parassite.
Ad un tratto l'avanguardia dei
fuggiaschi si trovò all'imbocco di un largo sentiero fiancheggiato da colossali
tek, che potevano sfidare qualunque urto, collegati fra di loro da
catene grossissime.
Era il viale che conduceva al
parco, o meglio alla trappola.
I primi arrivati si fermarono
titubanti, ma la massa giungeva al trotto, spaventata dai colpi di fucile, dai
razzi e dal furioso sbatacchiare dei musicisti sui gong è sui tam-tam.
Travolti dal grosso, furono costretti a cacciarsi nel sentiero, malgrado
avessero fiutato il pericolo.
Duecento metri più innanzi,
mascherato da alti cespugli e da enormi gruppi di bambù, si trovava il parco.
Era un vasto recinto di mezzo
chilometro di circonferenza, formato da due ordini di pali massicci, piantati
profondamente nel suolo, alla distanza di mezzo metro l'uno dall'altro, con
alcune aperture per lasciare il passo agli elefanti.
Nell'interno crescevano alcuni
alberi di dimensioni colossali, che dovevano servire a legare i pachidermi
destinati a rimanere prigionieri, perché non tutti quelli che entrano vengono
trattenuti. I mahut scelgono i più belli ed i più forti, che devono
avere la pelle bruno-pallida, le unghie nere, le zanne ben
conservate e la coda intatta, segni che indicano che quell'elefante non ha mai
voltato le spalle al nemico.
I pachidermi, rovesciate le
piante che mascheravano l'entrata, si gettarono confusamente nel recinto,
galoppando fra le due file di pali.
Appena l'ultimo l'ebbe varcata,
parecchi uomini chiusero l'entrata con lunghe catene e con sbarre di ferro.
Dapprima gli elefanti parvero
sorpresi di trovarsi là dentro, fra quei pali che non permettevano loro di
passare per lanciarsi di nuovo nella foresta, poi montarono in furore.
Si rizzavano sulle zampe
posteriori, vibravano colle proboscidi colpi formidabili ai pali, sperando di
schiantarli, si urtavano fra di loro ferendosi colle lunghe zanne, poi
riprendevano il loro sfrenato galoppo.
I mahut e i battitori
erano giunti. Le venti elefantesse e una dozzina di maschi già ben ammaestrati
erano entrati per un'altra porta, picchiando maledettamente i più indemoniati a
gran colpi di tromba.
Intanto parecchi uomini,
completamente nudi ed unti d'olio di cocco per poter meglio sfuggire alle
strette, si introducevano con un coraggio incredibile nel recinto, infilandosi
inosservati per gli spazi liberi fra i pali.
Con un'abilità straordinaria si
cacciavano sotto il ventre dei pachidermi giudicati degni di venire
addomesticati, e passavano attorno ad una delle due zampe posteriori una grossa
fune fatta a nodo scorsoio, che poi correvano ad avvolgere intorno al tronco di
uno degli alberi che crescevano nel recinto.
Lavoravano così rapidamente,
protetti dalle elefantesse, le quali con poderosi colpi di tromba o con moine
cercavano di distrarre l'attenzione dei futuri prigionieri, che in meno di
mezz'ora una quarantina di pachidermi, scelti fra i più belli, si trovarono
legati. Furono allora aperte nuovamente le barriere e tutti gli altri, che non
erano stati stimati degni di figurare fra gli elefanti reali, ripresero la loro
corsa sfrenata in mezzo alla foresta.
«Lo spettacolo è finito,» disse
Lakon-tay, che aveva fatto accostare l'elefante presso la
cinta, per nulla perdere di quella caccia emozionante. «Che cosa ne dite,
dottore?»
«Che non me lo scorderò mai,
dovessi vivere mille anni,» rispose Roberto. «Ed ora come faranno ad
ammaestrarli?»
«Gli elefanti si adattano
rapidamente alla schiavitù. Si lasciano un paio di giorni a digiuno, poi dei mahut
portano loro del cibo abbondante, buone erbe, canne da zucchero e anche del toddy.»
«I prigionieri cominciano così ad
affezionarsi ai loro provveditori e ad obbedirli. Dopo qualche mese essi sono
perfettamente ammaestrati.
Taluni hanno qualche volta delle
velleità di rivolta, ma le femmine s'incaricano di calmarli a colpi di tromba.
Dottore, andiamo a far colazione:
il governatore ci aspetta nella sua casa di campagna.»
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