A mezzodì, dopo aver fatto una
succulenta colazione, offerta loro dal governatore, che aveva una grande stima per
il vecchio generale, tornarono ad Ajuthia sul medesimo elefante che li aveva
condotti al parco.
Avevano fretta di riprendere il
viaggio e di condurlo a termine, prima che cominciasse la stagione delle grandi
piogge, che è pericolosissima in quei paesi giacché trasforma le foreste in
pantani e sviluppa quella terribile malattia, chiamata con una frase energica
la febbre dei boschi, che quasi mai perdona alla persona che ne è rimasta
colpita.
Rinnovate rapidamente le loro
provviste, poiché non potevano assolutamente contare sui villaggi, che sono
rari sul Nam-Sak, il quale scorre in una regione deserta,
presero posto sotto il baldacchino e diedero il segnale della partenza.
Il balon attraversò la
parte settentrionale della città, seguendo sempre il canale, e alle tre
pomeridiane giunse alla confluenza del Menam col Nam-Sak.
Questo secondo fiume è uno dei
maggiori affluenti del Menam, non essendo superato che dal
Me-Ping, ed è ricco d'acqua, profondo assai e anche molto
largo.
Mentre il Menam scende quasi
direttamente, con poche curve, il Sak invece si allontana assai verso oriente;
nondimeno nel suo corso superiore si riunisce ancora al primo, mediante un
canale naturale che ha una lunghezza ragguardevole.
Il balon s'inoltrava in
una regione affatto selvaggia e disabitata. Non più barche, non più villaggi,
non più pagode dalle guglie scintillanti. Invece facevano la loro comparsa i
primi tek, quegli alberi così preziosi e tanto ricercati dai costruttori
marittimi europei per il loro legno incorruttibile che sfida i secoli anche se
sommerso nell'acqua salsa.
Tutte le regioni settentrionali
dell'Indocina hanno foreste immense di tek, che le scuri dei boscaioli
hanno appena intaccato, malgrado l'enorme quantità di tronchi che vengono
annualmente trasportati in Europa e in America, tanto sono vaste.
Sono belle piante, dal tronco
diritto, che ha spesso un diametro di un metro e mezzo e raggiunge altezze
prodigiose, conservando press'a poco la forma cilindrica della base.
Essendo le sue fibre imbevute
d'un olio resinoso, il legno del tek è inattaccabile dai vermi e resiste
meravigliosamente all'azione dissolvente dell'acqua salata; e se si ha prima la
precauzione di lasciarlo bene seccare, indurisce anche se sommerso.
Il Siam specialmente possiede i
migliori tek finora conosciuti, avendo lungo l'alto corso dei suoi fiumi
delle foreste sterminate, che non sono forse state ancora assalite dalle scuri
dei boscaioli per le difficoltà dei trasporti.
I tek che crescevano lungo
le due rive del Nam-Sak non erano però i soli esemplari
della meravigliosa flora siamese. Negli spazi lasciati fra quegli alberi, spazi
considerevoli, giacché essi non crescevano mai gli uni accanto agli altri, si
vedevano macchioni di alberi di cocco, di superbi tamarindi, di mimose, cassie,
lauri dalla scorza aromatica, fichi baniani, borassi flabelliformi dalle
magnifiche foglie distese a ventaglio e coripha dai tronchi alti più di
venti metri, incoronati da un ampio fascio di foglie disposte a parasole.
Un numero infinito di uccelli,
specialmente di tucani e di palombe tubava, cinguettava e fischiava fra tutte
quelle piante, mentre sulle rive bande di cormorani dalle penne oscure, grossi
come oche, pescavano ingollando dei pesci di rispettabile lunghezza.
«Questo è il paradiso dei
cacciatori,» disse il dottore, che pensava di procurarsi una buona cena.
«Len-Pra, se non vi rincresce, tiriamo qualche colpo su
tutti questi volatili.
Il cormorano non è cattivo,
quantunque si nutra di pesce. Ah! Se vi fossero qui dei Cinesi e dei
Giapponesi, come saprebbero utilizzare questi infaticabili e abilissimi
pescatori! Guardate con quanta celerità si tuffano e come non tornano mai a
galla senza avere qualcosa nel becco.»
«Che cosa ne farebbero i Cinesi
di questi volatili, dottore?» chiese la giovine.
«Li ammaestrerebbero, e con poca
fatica. Il cormorano è come l'elefante e si adatta facilmente alla schiavitù.»
«E li usano per la pesca?»
«Sì, Len.»
«E i cormorani non mangiano i
pesci presi invece di portarli al loro padrone?»
«Oh! Lo farebbero ben volentieri,
essendo voracissimi, ma i Cinesi ed i Giapponesi, per impedire loro di
inghiottire la preda, mettono al loro collo un anello strettissimo.»
«Come sono ingegnosi quei
popoli!»
«Dell'ingegno ne hanno da vendere
anche agli Europei. Orsù, qualche buon colpo, Len. I cormorani non mancano
qui.»
Avevano già preso le carabine,
quando un grido stridente, partito dalla sponda che in quel momento
costeggiavano, li trattenne dal far fuoco. Lakon-tay,
udendolo, abbandonò il cup, sotto cui stava masticando il suo betel,
e raggiunse il dottore e Len che si trovavano a prua.
«Il grido della scimmia che
ride!» esclamò.
«Una scimmia che ride?» chiese il
dottore.
«Sì, un lu-huoi.»
«Che cosa volete dire, generale?»
«Non la conoscete?»
«Non l'ho mai veduta.»
Lakon-tay
fece segno ai rematori di rallentare la battuta e di accostarsi alla riva.
Il grido stridente si ripeté, seguito
poco dopo da un fragoroso scoppio di risa.
«Non mi sono ingannato,» disse
Lakon-tay. «Guardate, dottore: la scorgete? Se potesse
prendervi per i polsi, vi farebbe passare un brutto quarto d'ora.»
«Che bestia è dunque?»
«Una scimmia, vi ho detto. La
scorgete fra quei due tek? Ci invita a sbarcare.»
Un quadrumane era infatti apparso
sulla riva, fra due colossali alberi, e guardava il balon ridendo a
crepapelle. Era una scimmia che sotto certi aspetti somigliava, se non ad un
gorilla, ad un mias del Borneo, giacché aveva una statura straordinaria
che superava i cinque piedi, ossia un metro e sessanta centimetri.
Aveva la faccia quasi nera, con
due occhietti iniettati di sangue, una bocca larghissima che andava da un
orecchio all'altro, armata di denti formidabili, e il pelo rossastro e assai
lungo.
Si teneva il ventre con ambo le
mani e rideva, rideva, mostrando la sua terribile rastrelliera, bianca al pari
di quella dei gaviali e dei pescecani.
«Che brutta bestia!» esclamò il
dottore, che la osservava con curiosità. «Io ho veduto gli urang-outang
del Borneo, che sono il terrore dei Dayachi, ma non ho riscontrato in loro né
una bocca così enorme, né dei denti così lunghi. Sono pericolosi questi lu-huoi,
come voi li chiamate?»
«Terribili, dottore, quantunque i
nostri Siamesi sappiano cavarsela a meraviglia se attaccati, senza lasciarsi
sventrare da quei ferocissimi scimmioni.»
«Se provassimo a dargli la
caccia?» chiese il dottore. «Il tramonto non è lontano e quella riva si presta
benissimo per un accampamento. Che ne dite, Len?»
La giovane approvò con un cenno
del capo.
«Fate fuoco dal balon,»
disse il generale.
«La vostra carabina è carica a
palla, Len?» chiese il dottore.
«Sì, signor Roberto.»
«Fate accostare il balon
adagio adagio, generale.»
«Lasciate fare a me.»
L'enorme scimmia, dopo aver riso
a crepapelle, dimenandosi comicamente, con uno slancio improvviso si aggrappò a
un ramo d'un immenso fico baniano che cresceva un po' lontano, formando da solo
una piccola foresta, e scomparve fra il fitto fogliame.
Quasi subito un altro grido
stridente, meno acuto però, echeggiò verso il bosco.
«Sono due i lu-huoi,»
disse il generale. «Devono essere maschio e femmina.»
«Sì, padrone,» disse Feng, che
nelle natie foreste aveva incontrato sovente quei pericolosi quadrumani.
Il primo, che doveva essere il
maschio, continuava a far udire violentissimi scoppi di risa, tenendosi sempre
nascosto nel fitto fogliame del fico baniano.
«A terra,» disse il dottore. «Non
lo si può scorgere da qui.»
«Badate,» disse
Lakon-tay.
«Non temete, sono sicuro dei miei
colpi.»
Il balon con pochi colpi
di remo raggiunse la riva, la quale formava in quel luogo una piccola e
pittoresca caletta, circondata da superbi alberi.
Il dottore aiutò
Len-Pra a scendere, poi balzò a sua volta a terra seguito
dal generale e da Feng, i quali si erano pure armati di carabine rigate, di
buon calibro e di lunghissima portata.
Il dottore guardò Len. La
fanciulla era tranquilla, come se si trattasse di affrontare un capriolo,
anziché una terribile scimmia da tutti temuta.
«Vi ammiro,
Len-Pra,» diss'egli.
«Perché, dottore?» chiese la
giovane sorridendo.
«Per il vostro coraggio.»
«Mio padre mi ha abituato, fin da
fanciulla, a sfidare i pericoli, e poi, non sono armata?»
«Andiamo allora,
Len-Pra.»
Il lu-huoi
non aveva lasciato il fico baniano. Rideva sempre e di quando in quando
scuoteva poderosamente i rami, facendo cadere al suolo una pioggia di frutta.
Eppure da lassù doveva aver veduto gli uomini sbarcare.
La sua compagna, che si trovava
nel bosco a non molta distanza, di tanto in tanto rispondeva con un grido
stridente che finiva in un fischio acutissimo.
«Circondiamo l'albero,» disse
Lakon-tay, che non era meno appassionato cacciatore di
Roberto. «Non allontaniamoci però troppo, perché non ci manchi il tempo di
soccorrerci a vicenda.»
«Len-Pra,
rimanete presso di me,» disse il dottore.
«Sì, signor Roberto,» rispose la
fanciulla colla sua solita voce calma.
Tenendosi nascosti dietro i
cespugli, che crescevano abbondantemente negli intervalli fra i tek, i
cacciatori si trovarono ben presto sotto il fico baniano.
Come abbiamo detto, quella pianta
formava da sola una piccola foresta, costituita non già da un solo tronco,
bensì da due o trecento. Quegli strani vegetali si dilatano enormemente e con
rapidità, mercé le loro radici aeree che scendono dai rami e che, appena
toccato il suolo, si affondano formando un nuovo tronco.
Il quadrumane, accortosi senza
dubbio del pericolo che lo minacciava, si era ritirato verso il centro della
pianta, in prossimità del tronco principale, dove il fogliame era più folto, e
continuava a sghignazzare.
Il dottore, dopo aver osservato
la posizione che occupava, si cacciò risolutamente fra i tronchi, seguito da
Len-Pra, mentre Feng e Lakon-tay si
portavano dalla parte opposta, per impedire alla scimmia di guadagnare la
foresta e di unirsi alla sua compagna.
Cogli occhi fissi sui rami e il
dito sul grilletto del fucile, il dottore avanzava cautamente, cercando di
scoprire l'animale.
Quel furbo lu-huoi
però aveva improvvisamente cessato di ridere e non scuoteva più i rami. Si
preparava a tentare un colpo disperato o, spaventato, cercava di nascondersi?
A un tratto il dottore, che era
già giunto in vicinanza del tronco centrale grossissimo a paragone degli altri,
si arrestò, alzando la carabina.
«Lo vedete?» chiese Len che gli
stava dietro.
«Mi sembra che stia disteso su
uno dei più grossi rami.»
«Non fate fuoco se non a colpo
sicuro.»
«Non sprecherò inutilmente la mia
cartuccia.»
Guardò attentamente il grosso
ramo su cui supponeva si tenesse il lu-huoi, e
dovette ben presto convincersi d'essersi ingannato.
Il quadrumane, vedendosi
scoperto, era scivolato silenziosamente su un altro ramo, o si trovava invece
già altrove?
Invano il dottore scrutava il
fogliame che era fittissimo verso le parti centrali del fico; non riusciva a
scorgere nulla.
Ai clamorosi scoppi di risa di
poco prima era successo un profondo silenzio. Anche la compagna del quadrumane
non faceva più udire il suo grido stridente.
«Che sia fuggito senza che noi ce
ne siamo accorti?» si chiese il dottore.
A un tratto uno sparo rimbombò
dalla parte opposta, seguito subito dopo da un secondo e da un urlo rauco.
«L'hanno colpito!» gridò il dottore,
slanciandosi innanzi. «Venite, Len-Pra!»
Si misero a correre verso il
luogo dov'erano echeggiati i due colpi di carabina.
Il dottore, che era più lesto,
aveva già attraversato buona parte dei tronchi, quando udì in alto un crepitio
di rami ed un violento stormire di foglie, poi si sentì precipitare addosso una
massa che lo atterrò. Avendo il dito sul grilletto del fucile, nel cadere fece
partire il colpo, e rimase avvolto in una nube di fumo.
Quasi contemporaneamente udì
dietro di sé uno sparo, poi un grido di spavento e di dolore.
«A me... dottore!»
Roberto, che non si sentiva più
gravitare addosso quella massa che lo aveva atterrato, si levò prontamente. Un
grido d'orrore gli sfuggì.
L'enorme scimmia, grondante
sangue, teneva pei polsi Len-Pra, sghignazzando e
contorcendosi.
La povera giovane, che si sentiva
stritolare i polsi dalle mani di ferro del mostro, mandava grida strazianti e
tentava invano di sottrarsi a quella stretta brutale.
Quantunque ferito e forse
gravemente, il lu-huoi si divertiva immensamente,
vedendo i tentativi che faceva la sua vittima per sfuggirgli. La sua bocca si
apriva smisuratamente con un ghigno spaventevole e gli scoppi di risa si
succedevano ininterrottamente.
Roberto aveva l'arma scarica e
non aveva il tempo di mettervi dentro una nuova cartuccia. La carabina era però
pesante, di una solidità a tutta prova, col calcio rinforzato da una grossa
lamina d'ottone.
L'afferrò per la canna e si
slanciò risolutamente addosso al mostro. Questi non si era nemmeno occupato del
secondo nemico. Il riso d'altronde lo paralizzava.
Il dottore gli piombò alle spalle
e gli menò in mezzo al cranio una tale mazzata, da convertire gli scoppi di
risa in un urlo di dolore. Il lu-huoi si piegò sotto
quel formidabile colpo e abbandonò i polsi della fanciulla.
Quantunque nuovamente ferito,
poiché la punta di metallo del calcio gli aveva spaccato la testa, si voltò,
allungando le mani che erano munite di solide unghie.
Non rideva più: digrignava invece
i denti ed i suoi occhi mandavano sinistri lampi, mentre il suo pelame, sotto
l'accesso di collera, si arruffava.
«Fuggite, dottore!» gridò Len,
che quantunque avesse i polsi indolenziti, cercava di ricaricare la sua carabina.
Ma Roberto non poteva più
fuggire, poiché il lu-huoi con un balzo improvviso
l'aveva già investito, cercando di afferrarlo.
Il coraggioso giovane non si
smarrì d'animo. Tenendo sempre la carabina per la canna, tirava colpi all'impazzata,
percuotendo il mostro ora sul muso, ora sul petto ed ora sulle braccia. Balzava
a destra ed a sinistra per sfuggire alle strette del formidabile animale ed
indietreggiava verso Len per coprirla.
A un tratto un grido gli sfuggì.
Aveva incespicato contro una radice ed era caduto, lasciandosi sfuggire la
carabina.
Il lu-huoi
stava per rovinargli addosso e farlo a brani coi denti e colle unghie, quando
due colpi di fucile rimbombarono a breve distanza.
Lakon-tay e Feng, allarmati dagli spari, erano accorsi ed
avevano fatto nuovamente fuoco sul quadrumane, che avevano già ferito pochi
minuti prima.
Il lu-huoi
non era ancora caduto, quantunque avesse nel corpo tre o quattro proiettili.
Vedendo comparire quei nuovi nemici tentò, con uno sforzo disperato, di
riguadagnare ancora il fico baniano e di cercare un rifugio fra il fogliame.
Aveva fatto troppo calcolo sulle
sue forze, ormai stremate dalla perdita del sangue. Era riuscito nondimeno ad
aggrapparsi a un ramo basso ed anche ad issarvisi, quando ad un tratto fu
veduto arrestarsi, portare ambo le mani al petto foracchiato dai proiettili,
poi distendere bruscamente le braccia e abbandonarsi nel vuoto.
Piombò al suolo con sordo rumore,
colla testa in giù, si rotolò due o tre volte fra le radici e le foglie secche,
agitando convulsivamente le gambe e rantolando, poi s'irrigidì.
Tutti accorsero, dopo aver
ricaricato, per maggior precauzione, le armi.
«È morto,» disse
Lakon-tay.
«Che resistenza hanno questi
animali!» disse il dottore.
«Signor Roberto,» disse Len,
avvicinandoglisi e porgendogli la sua piccola mano, mentre un lampo di
riconoscenza le brillava nei dolcissimi occhi. «Grazie.»
«E anche da parte mia, dottore,»
aggiunse il generale con voce un po' commossa. «Da lungi ho veduto tutto, e se
non foste intervenuto con tanto coraggio, non so se avrei ancora mia figlia.»
«Un altro al mio posto avrebbe
fatto altrettanto,» rispose Roberto.
«O sarebbe invece fuggito,» disse
Lakon-tay. «Queste scimmie fanno troppa paura, quando
montano in furore.»
«Questo è vero, generale. Era
spaventevole lo scimmione, e vi confesso che, per un momento, mi sono sentito
gelare il sangue nelle vene e venir meno il coraggio di assalirlo.
Vi fanno male i polsi, Len?»
«Solamente un po', signor
Roberto. La scimmia aveva solo cominciato a stringere.»
«Se il soccorso tardava, te li
stritolava, prima di farti a pezzi,» disse Lakon-tay.
«Afferrano sempre le loro vittime
per i polsi?» chiese il dottore.
«Sempre, e, come vi dissi, i
nostri montanari hanno trovato un mezzo ingegnosissimo per corbellare questi
mostruosi quadrumani.
Conoscendo la loro abitudine,
quando si recano a cacciare nelle foreste che sanno essere frequentate dai lu-huoi,
portano con sé dei tubi di bambù, lunghi un piede e grossi quanto basta per
passarvi il braccio.
Allorquando si trovano dinanzi a
qualche lu-huoi, si coprono i polsi con quei tubi.
La scimmia appena li vede corre loro addosso, li afferra e comincia a ridere
pazzamente.
I montanari la lasciano fare
senza opporre resistenza, e quando s'accorgono che l'animale, invasato dalla
gioia, chiude gli occhi, lesti se la dànno a gambe lasciando nelle sue mani i
due tubi.»
«E non se ne accorge il lu-huoi?»
«Pare che quello scoppio convulso
d'ilarità lo renda cieco e anche stupido. Ben si avvede più tardi di non
stringere che due tubi anziché due polsi, ma ormai l'uomo che aveva afferrato è
lontano.
Vi sono anzi certi coraggiosi che
approfittano dell'ilarità del quadrumane per piantargli nel petto un bel
coltellaccio.»
«E se l'uomo non avesse quei
tubi, che cosa accadrebbe?»
«Il quadrumane, appena calmata la
sua ilarità, si scaglia sulla vittima e la fa a pezzi,» rispose il generale.
«Guardatevi da quelle cattive bestie, dottore; sono le peggiori che esistano
nelle nostre foreste.»
«Porterò con me la pelle di
questo quadrumane, che non è ancora conosciuto in Europa.»
«S'incaricherà Feng di scuoiarlo.
Andiamo a cenare; le tende sono state già piantate.»
«E raddoppiamo la guardia questa
notte,» disse Feng. «Vi è la femmina del morto.»
«Non oserà avvicinarsi al fuoco,»
rispose il generale. «D'altronde siamo in buon numero e le armi non mancano.»
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