Il luogo per l'accampamento non
poteva essere più pittoresco. A destra ed a sinistra della piccola cala
sorgevano dei superbi banani, e dietro di essi s'innalzavano dei tek
immensi, che lanciavano le loro cime a quaranta ed anche a cinquanta metri.
Fra i banani e quelle piante
colossali si stendeva una piccola radura, su cui i battellieri avevano rizzato
le tende ed acceso i fuochi per la cena.
Il loro capo aveva messo già ad
arrostire per i padroni due grossi cormorani, ed a bollire una gigantesca
marmitta piena di riso, cibo ordinario e assolutamente indispensabile ai
Siamesi di bassa condizione, che condito con un orribile intruglio di pesci
marci e di erbe aromatiche costituisce il piatto forte del popolo, chiamato balakang,
apprezzato anche dai nobili del regno.
Vi avevano aggiunto molte frutta
deliziose, che avevano raccolto nei dintorni: dei soai-ooi
o manghi elefanti assai grossi, con polpa abbondante, gialla e succosa, priva
di quello sgradito profumo di resina che rende sgradevoli gli altri, dei soai-nger’a
o manghi cavalli dalla polpa bianca, e un enorme grappolo di banane ben mature.
I cacciatori, a cui l'appetito
certo non mancava, si sedettero intorno ad una bella stuoia variopinta che
serviva da tovaglia, e fecero largamente onore ai due cormorani e alle frutta
veramente squisite, lasciando il balakang ai battellieri.
Avevano appena finito e stavano
accendendo le sigarette in attesa del tè e preparando il betel, quando fra
i rami degli alberi vicini udirono uno strano gracidio, che non doveva essere
emesso da alcun batrace. Si udiva in alto, in basso, fra gli alberi d'alto
fusto e fra i cespugli.
Il dottore guardò il generale, la
cui fronte si era improvvisamente oscurata.
«Chi gracida in questo modo?
Delle rane o dei rospi no di certo, non essendovi qui paludi.»
Lakon-tay non
rispose. Ascoltava attentamente, guardando le piante.
«No,» disse dopo qualche istante.
«Non sono spaventate le than-thay. Griderebbero
diversamente.»
«Che cosa sono queste than-thay?»
chiese il dottore, che non comprendeva il senso di quelle parole.
«Delle graziose lucertole
cantanti,» rispose Lakon-tay, sorridendo.
«Ne ho udito parlare,» rispose il
dottore, «ma non ne ho mai vedute.»
«Feng ne prenderà qualcuna e ve
la mostrerà.»
«Mi direte ora perché, udendo
quelle lucertole cantare, il vostro viso si era oscurato?»
«Perché quando le than-thay
gridano precipitosamente, con un certo tono lugubre, annunciano un imminente
terremoto.
Voi già sapete che il Siam e
anche la Birmania sono di frequente, anzi troppo di frequente, devastati da
quel tremendo fenomeno, che in pochi minuti distrugge delle città intere.»
«E quelle lucertole lo
annunziano?» chiese il dottore.
«Pochi minuti prima che avvenga,
gridando con maggior forza. Quando gli abitanti le odono, fuggono a precipizio,
prima che le case crollino.»
«Frequentano anche le abitazioni,
quelle lucertole?»
«Sì, dottore, specialmente quelle
vecchie.
«Sono inoffensive?»
«Sì, quantunque i nostri
montanari e anche i Malesi della penisola di Malacca ritengano che le feci
delle than-thay siano velenosissime e se ne servano
per intingervi le punte delle lance e quelle dei loro pugnali.»
«Sicché saranno tenute in molta
considerazione, se è vero che annunziano i terremoti!»
«Migliaia e migliaia di persone
devono loro la vita.»
«Eccone una, signore,» disse in
quel momento Feng, che si era inoltrato fra i cespugli per catturarne qualcuna.
In una mano teneva una graziosa
lucertola, di circa venti centimetri di lunghezza, sottilissima, colla testa
assai voluminosa in proporzione del corpo, gli occhi neri e mobilissimi e la
pelle grigiastra con macchie nere, gialle, rosse e verdi.
Il dottore la prese, osservandola
con vivo interesse.
«Ecco l'organo vocale,» spiegò
Lakon-tay, indicando sotto la gola del piccolo rettile un
fanone assai sviluppato.
«Come è trasparente il corpo di
questa lucertola,» disse il dottore, esponendola contro la luce proiettata dal
fuoco che ardeva a breve distanza. «Si vedono distintamente tutte le vene e gli
organi interni.»
«Ed è anche delicatissimo,»
aggiunse Lakon-tay. «Basta il più leggero colpo perché la
coda si stacchi, e cosa strana, senza che vi sia perdita di sangue.»
In quel momento verso il fico
baniano si udì risuonare un violentissimo scoppio di risa, che fece balzare in
piedi i battellieri.
«La femmina del lu-huoi,»
disse Len colla sua voce sempre calma.
«Avrà trovato il cadavere del
compagno,» disse il dottore. «Che venga a disturbare il nostro sonno?»
«Raddoppieremo i fuochi,» rispose
Lakon-tay. «Nessun animale s'avvicina agli accampamenti bene
illuminati.»
«Feng, a te il primo quarto di
guardia con quattro uomini. Se la lu-huoi
s'avvicina, ci sveglierai.»
Lasciarono in libertà la
lucertola e si ritrassero nelle loro tende, mentre i battellieri, che, udendo
nuovi scoppi di risa parevano un po' impressionati, raddoppiavano i fuochi.
Feng, che non era pauroso, fece
il giro dell'accampamento, chiuse le tende dei padroni, scelse i compagni di
guardia, poi si sedette vicino al fuoco acceso presso il margine della foresta,
tenendo la carabina a portata di mano.
Verso il fico baniano, che si
distingueva confusamente nell'ombra proiettata dagli altissimi tek che
gli crescevano intorno, si udivano sempre, ad intervalli, echeggiare gli scoppi
di risa della compagna del lu-huoi.
Anche nel dolore quel quadrumane
sghignazzava. Di quando in quando invece mandava delle urla acutissime, che
tradivano una rabbia terribile.
Tuttavia non osava abbandonare il
fico baniano, sotto cui giaceva il corpo sanguinante del compagno. Feng
d'altronde era pronto a riceverla a colpi di carabina, ed essendo un buon
tiratore, cosa piuttosto rara fra i Siamesi, che sono tutti pessimi
bersaglieri, si teneva sicuro di abbatterla facilmente anche senza l'aiuto dei
padroni.
La mezzanotte non doveva essere
lontana, quando la sua attenzione fu attirata da alcune ombre che passavano
presso il margine del bosco, tenendosi celate dietro i cespugli che in quel
luogo erano numerosi.
Credendo che fossero altri
quadrumani, Feng si alzò prontamente e chiamò gli uomini di guardia.
Quelle ombre erano dieci o dodici
e cercavano di tenersi lontane dal fico baniano, dove la lu-huoi
continuava a ridere e ad urlare.
«Sembrano uomini, anziché
scimmie,» disse Feng. «Che ve ne pare?»
«Anche a me sembrano uomini,»
rispose un battelliere.
«Perché non s'accostano al nostro
accampamento?» si chiese lo Stiengo. «Che siano dei veri banditi o dei pirati
di fiume?»
Si avanzò di alcuni passi,
tenendo la carabina puntata, e lanciò un tuonante:
«Chi vive? Rispondete o faccio
fuoco.»
Nessuno rispose a
quell'intimazione, anzi quelle dieci o dodici ombre si gettarono nella foresta,
scomparendo rapidamente.
«Che cosa succede, Feng?» chiese
una voce.
Lakon-tay ed
il dottore, svegliati da quel grido e credendo che la compagna del lu-huoi
minacciasse gli uomini di guardia, avevano lasciato precipitosamente le loro
tende e accorrevano armati delle loro carabine.
«Non so, signore,» rispose Feng.
«Ho veduto degli uomini, almeno li credo tali, costeggiare la foresta, cercando
di tenersi celati dietro i cespugli.»
«Degli uomini che viaggiano di
notte e che sfuggono un accampamento non devono essere dei galantuomini,» disse
il dottore.
«Sono fuggiti?» chiese
Lakon-tay.
«Si sono rifugiati nella foresta,
signore,» rispose Feng.
«Erano armati?»
«Mi parve che avessero delle
lance o dei fucili.»
«Forse saranno cacciatori,» disse
Lakon-tay. «Non occupiamoci di loro, dottore.»
Raccomandarono agli uomini di
guardia di vegliare attentamente e tornarono alle loro tende.
Prima che spuntasse l'alba furono
nuovamente svegliati da alcuni colpi di fucile. Erano stati sparati dai
battellieri del terzo quarto di guardia contro quelle ombre che si erano
nuovamente mostrate sul margine della foresta, per scomparire subito dopo.
Temendo di dover subire qualche
attacco da parte di quei misteriosi individui, Lakon-tay
fece levare il campo prima ancora che spuntasse il sole.
«Se sono armati di fucili,
potrebbero fare una scarica improvvisa,» disse a Roberto. «Vedremo se ci
seguiranno sul fiume.»
Per evitare appunto quella
scarica, spinsero il balon verso la riva opposta; ed essendo il fiume largo
più di cinquecento metri non ebbero più da temere, poiché i fucili usati in
quell'epoca dai Siamesi erano di pessima fabbrica e di poca portata.
«Che fossero pirati?» chiese il
dottore, quando furono al sicuro.
«Delle persone sospette di
certo,» rispose Lakon-tay. «I banditi non mancano nelle
nostre foreste.»
«Forse speravano di sorprenderci
per rubarci le armi. Mi rincresce per voi, dottore.»
«E perché?»
«Con questa partenza precipitosa,
avete dimenticato a terra la pelle del lu-huoi.»
«È vero, generale.»
«Ne troveremo degli altri, non
dubitate. Quegli scimmioni non sono rari nelle foreste del settentrione.»
«Ah! Ecco delle altre ricchezze
trascurate. Guardate quegli alberi dottore; ma forse sono stati già visitati e
trovati privi della preziosa polvere.»
«Che piante sono?» chiese
Roberto, che guardava con un certo interesse un gruppo d'alberi d'alto fusto,
coronati da un ammasso di foglie dalla tinta assai cupa.
«Sono quelli che dànno la famosa
polvere detta d'aquila, che si paga a peso d'oro anche da noi.»
«Che ha un profumo meraviglioso?»
«Sì, dottore.»
«A che cosa serve?»
«La si adopera nelle cremazioni
dei re e dei grandi del regno e nelle nostre pagode la si brucia come da voi
l'incenso. È così pregiata, che molte tribù pagano le imposte colla polvere
d'aquila.»
«Mi hanno detto che ve ne servite
anche come medicina.»
«È vero, e si dice che la
polvere, mescolata a qualche po' di gomma disciolta, fortifichi lo stomaco
contro ogni sorta di veleni.»
L'italiano fece un gesto di
dubbio.
«Eppure tutti l'affermano,» disse
Lakon-tay.
«Può essere,» rispose Roberto. «E
quella preziosa polvere si trova in tutti gli alberi dell'aquila?»
«No, e occorre una grande abilità
per conoscere le piante che la contengono. I capi che ogni anno, nella buona
stagione, conducono i drappelli di cercatori, sanno quali sono le piante che
devono venire abbattute; lo capiscono dal suono che produce il tronco quando
viene battuto fortemente, dall'odore emanato dai nodi e da altri indizi che
essi soli conoscono e di cui conservano gelosamente il segreto.
Ordinariamente quella polvere si
forma nelle cavità interne dell'albero, che quanto più è vecchio, tanto più ne
contiene.
Io ho conosciuto dei boscaioli
che hanno fatto delle fortune considerevoli ed in pochissimo tempo, poiché,
come vi dissi, l'aquila si paga a peso d'oro.
Dottore, volete occuparvi della
cena? Ecco là dei volatili che non attendono altro che di venire fucilati.»
«Venite, Len,» disse Roberto alla
fanciulla. «Noi saremo i provveditori della spedizione.»
Delle vaste paludi cominciavano a
mostrarsi lungo le due rive del fiume, e gli uccelli acquatici ricomparivano in
stormi immensi, volteggiando senza alcuna inquietudine anche sopra il balon.
Vi erano delle cicogne nere colla
testa bianca che passeggiavano gravemente fra le canne delle due rive, dando la
caccia ai vermiciattoli e alle sanguisughe che sono numerosissime nel Siam; dei
plotus melanogaster, volatili che stanno fra gli aironi e i cormorani,
col becco acutissimo, la testa piatta e il collo lunghissimo, si tuffavano
arditamente nell'acqua per uscire quasi subito, tenendo nel becco dei grossi ca-bong,
i pesci migliori che si trovino nei fiumi indocinesi; mentre fra i canneti,
saltellavano, cantando a piena gola, numerosi galli selvatici, più grossi di
quelli domestici e del pari eccellenti. Le loro grida, che rassomigliano a
quelle dei pavoni, risuonavano dappertutto, specialmente là dove si scorgeva
qualche boschetto basso, prediligendo quei volatili i luoghi umidi.
«I galli di preferenza,» disse
Lakon-tay al dottore.
«Non li risparmieremo,» risposero
Len e Roberto.
E non li risparmiarono, no. Le fucilate
si succedevano alle fucilate, obbligando i rematori ad accostare ogni momento
il balon alla riva per raccogliere gli uccelli uccisi.
Se Roberto si mostrava valente
cacciatore, anche la giovane siamese faceva stupire i suoi compatrioti con dei
tiri meravigliosi, che inorgoglivano il generale.
Le paludi furono ben presto
oltrepassate e i boschi ripresero a regnare fitti, interrotti di quando in
quando da una risaia, frequentata solo da pochi solitari aironi.
Qualche gruppo di capanne
cominciava ad apparire ed anche qualche barca attraversava di quando in quando
il fiume, carica di campagnoli quasi nudi e tutti armati.
«Ci avviciniamo a Saraburi,»
disse Lakon-tay al dottore. «È l'ultimo villaggio
considerevole che incontreremo; più a nord la regione è quasi deserta.»
«Vi giungeremo oggi?»
«Sì, prima del tramonto.»
Dopo una breve fermata fatta a
mezzodì per allestire la colazione e fare raccolta di banane e di noci di cocco
in una piantagione, il balon riprese la sua corsa, per giungere alla
borgata prima che calassero le tenebre.
Ma solo a sera tarda vi giunse e
quando già ormai tutti gli abitanti si erano ritirati nelle loro capanne.
Non avendo nessun motivo per
trattenersi in quel villaggio andarono ad accamparsi sulla riva opposta, per
ripartire prima ancora che gli abitanti si fossero svegliati.
Alle 6 del mattino i comignoli
dorati della pagoda della borgata non erano già più visibili, tanto procedeva
veloce il balon.
A dieci o dodici miglia più a
nord, la regione era assolutamente deserta. Sulle due rive non si scorgevano
che boscaglie, popolate da grosse truppe di sciamang-hobloch,
brutte scimmie alte quasi un metro, col pelame nero come il carbone, una
striscia bianca sul dorso e sulla fronte, che gridavano senza posa: ulok!
ulok! Di risaie e di campi coltivati non vi era più traccia.
«Questi sono veri luoghi da
caccia,» disse Lakon-tay al dottore. «In queste foreste
abbondano i bufali, i cinghiali, i cervi dalle lunghe corna; e anche le tigri
ed i serpenti non sono rari, anzi.»
«Come farei volentieri una
battuta,» rispose Roberto.
«Aspettate che risaliamo ancora
per qualche giorno il fiume; non perderete nulla nell'attesa. Allora
dedicheremo qualche mezza giornata alla caccia per lasciar riposare i nostri
battellieri.»
«Ci conto.»
Tutta quella giornata il balon
continuò a salire il fiume e anche buona parte del giorno seguente, mettendo a
dura prova i muscoli dei battellieri, i quali dovevano fare sforzi erculei per
vincere la rapidità della corrente.
Verso le quattro, mentre
cercavano un luogo adatto per accamparsi, non volendo il generale affaticare
troppo i suoi uomini, superata una curva, si trovarono improvvisamente dinanzi
ad un minuscolo villaggio, formato da due dozzine di capanne piantate su pali
immersi nell'acqua.
Sulla riva si scorgeva un gran
numero di grossi vasi d'argilla, allineati su parecchi ordini: una quindicina
di uomini seminudi stavano raggruppati intorno a qualcosa che non si poteva
ancora distinguere, e ridevano fragorosamente battendo le mani.
«Che cosa fanno?» chiese il
dottore.
«Pare che si divertano,» rispose
Lakon-tay.
«Sono contadini?»
«No, cercatori d'olio. Guardate
tutti quei vasi...»
«Andiamo a vedere che cosa fanno,
padre,» disse Len. «Nulla avremo da temere.»
«Approdiamo, Feng,» ordinò il
generale. «Ci accamperemo presso quelle capanne, così saremo più al sicuro
dagli assalti delle belve.»
Vedendo accostarsi il balon
e sbarcare Lakon-tay con Len ed il dottore, gl'indigeni si
affrettarono ad allargare il circolo e interruppero le loro risate.
«Vi divertite a giocare?» chiese
il generale, mentre i cercatori d'olio si inchinavano profondamente.
«No, signore,» rispose un
vecchio, che doveva essere il capo del villaggio. «Abbiamo preso stamane due
testuggini e le facciamo combattere.
Fate largo a questo signore e al farang.»
Il circolo si aperse per lasciare
il passo al generale, a Len ed al dottore.
Nel mezzo di quel gruppo c'era una
lunga tavola, che aveva i margini rialzati come una cassa, con una sola
apertura; e sulla tavola si trovavano due grosse tartarughe di fiume, sui cui
gusci erano stati collocati due piccoli fornelli pieni di carbone, che venivano
alimentati con violenti colpi di ventaglio.
I due rettili lottavano
fieramente fra di loro presso l'apertura, mordendosi crudelmente il collo e le
zampe e facendo sforzi poderosi per atterrarsi.
I combattimenti fra le testuggini
sono assai apprezzati dai Siamesi, forse più ancora di quelli fra i galli, e
dànno luogo a scommesse sfrenate.
Per rendere furiosi quegli
animali, che sono piuttosto lenti e di temperamento tutt'altro che bellicoso,
gli indigeni collocano sul loro dorso dei fornelli senza fondo. Sentendosi
bruciare la corazza, i poveri anfibi cercano di fuggire verso l'unica apertura,
e non potendo passare tutti e due in una sola volta, si combattono ferocemente.
Le due testuggini, che si
sentivano arrostire il dorso, lottavano disperatamente per uscire. Non
riuscendovi, cercavano di respingersi a vicenda, urtandosi violentemente e
lacerandosi il collo.
Si rizzavano sulle zampe
posteriori, lasciandosi cadere di peso, poi s'investivano con rabbia estrema,
mentre le loro corazze fumavano, spandendo all'intorno un nauseante odore di
corno bruciato.
I raccoglitori d'olio le
incoraggiavano con grida e soffiavano sui fornelli, mentre le scommesse si
succedevano con frenesia. Giocavano le loro capanne, i loro vasi d'olio e
perfino le vesti che avevano indosso.
«Gl'inglesi hanno qui dei
maestri,» disse il dottore, che seguiva con vivo interesse quella strana lotta.
«Sarebbero capaci di imitare i Siamesi, essi che fanno combattere tra di loro
galli, topi e cani.»
Le due povere testuggini, che il
dolore rendeva pazze, erano ormai ridotte in uno stato miserando, eppure non
cessavano di contendersi il passaggio. Una aveva perduto una zampa anteriore e
l'altra perdeva sangue in abbondanza dal collo, che era stato crudelmente
straziato dalla rivale.
«Povere bestie,» disse
Len-Pra. «Se continueranno ancora un po' i carboni
cuoceranno loro la spina dorsale. Vi è già un buco nelle loro corazze.»
«Che col tempo i loro padroni
tureranno nuovamente,» disse Lakon-tay. «Non le lasceranno
morire; sono troppo brave combattenti.»
In quel momento quella che aveva
perduto la zampa, vinta dal dolore e stremata dalla perdita di sangue,
impotente a sostenere gli urti dell'avversario, abbandonò il campo, fuggendo
disperatamente intorno al rialzo.
La vincitrice passò lesta
attraverso l'apertura, precipitando in un vaso colmo d'acqua, fra le grida
giulive di coloro che avevano scommesso in suo favore e le imprecazioni di
quelli che avevano perduto.
Lakon-tay
stava per lasciare i cercatori d'olio e far ritorno verso la riva, quando vide
giungere due uomini armati di fucili, che non sembravano Siamesi.
Ciascuno portava sulle spalle una
scimmia ed una enorme pentola di rame.
«Chi sono costoro?» chiese al
vecchio capo, che gli stava accanto.
«Due cacciatori, signore, giunti
stamane.»
«Siamesi?»
«Non mi sembra, quantunque
parlino la nostra lingua. Mi hanno chiesto il permesso di distruggere le
scimmie dei dintorni e hanno già fatto preparare del riso col pimento per
questa sera.
Per noi sarà una fortuna se vi
riescono. Quelle cattive bestie distruggono i raccolti delle nostre ortaglie.»
I due cacciatori, due, giovani di
forme quasi atletiche, dalla pelle quasi nera, dagli occhi foschi, coperti di
un semplice languri che arrivava appena alle ginocchia, e armati di due
bellissime carabine di fabbrica indiana, scorgendo
Lakon-tay si inchinarono quasi fino a terra, avendo notato
il distintivo di nobiltà che gli ornava l'alto berretto.
«Avete fatto buona caccia?»
chiese il generale.
«Due sole scimmie in quattro
ore,» rispose uno dei due. «Non si lasciano avvicinare. Ma questa sera ne
prenderemo molte. Sappiamo già dove si radunano.»
«Da dove venite?»
«Da Ajuthia, e siamo ai servigi
d'un farang che traffica in pelli d'animali.»
«Me n'ero accorto, vedendo che
avete delle così belle carabine. Quando farete la battuta?»
«Fra due ore, signore. Il riso è
pronto e ben pimentato.»
«Dottore,» disse
Lakon-tay, volgendosi verso Roberto. «Volete assistere a
quella caccia? Sarà interessante, ve lo assicuro.»
«Volentieri, se questi cacciatori
non rifiuteranno la nostra compagnia.»
«Ad un farang nulla si
rifiuta,» rispose uno dei due.
«Andiamo a cenare,» disse
Lakon-tay. «Fra due ore, appena il sole sarà tramontato, andremo
nei boschi con questi uomini.»
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