Alcune ombre umane erano comparse
sul margine della foresta e stavano avanzandosi cautamente verso il villaggio
distrutto.
Udendo l'intimazione di Feng,
alcune si fermarono, mentre altre si rifugiarono precipitosamente nella
boscaglia.
Non essendo la luna ancora
tramontata, Lakon-tay riconobbe facilmente in quegli uomini
i cercatori d'olio.
«Avanzatevi,» gridò, facendo
cenno a Feng di abbassare il fucile. «Non avete nulla da temere.»
Uno solo obbedì. Era il vecchio
che li aveva invitati ad assistere alla lotta fra le due testuggini.
«Non mi ucciderete, signore?»
chiese.
«Noi non siamo dei bricconi, e i
cerchi d'oro che porto sul mio cappello bastano per rassicurarti.»
Il vecchio esitò ancora qualche
po', quindi si avanzò risolutamente, facendo dei gesti di disperazione.
«Ah! signore!» esclamò quando fu
vicino, con accento desolato. «Quei briganti ci hanno distrutto tutto! Due mesi
di lavoro perduti inutilmente, e le capanne bruciate.»
«Io saprò ricompensarti se tu mi
narrerai ciò che è accaduto qui dopo la nostra partenza,» disse
Lakon-tay. «Chi ha dato da bere ai miei uomini?»
«Dei cacciatori, signore, che
erano giunti al villaggio poco dopo la vostra partenza e che prima non avevamo
mai veduti.»
«O dei pirati?»
«Dei bricconi certo.»
«Quanti erano?»
«Una diecina.»
«Siamesi?»
«Mi pare che fossero piuttosto
dei Birmani o per lo meno dei Cambogiani.
Appena giunti, avvicinarono i
vostri uomini che stavano preparandosi la cena, poi offrirono loro da bere. Che
liquore contenessero le loro fiasche non ve lo saprei dire; so che pochi minuti
dopo i battellieri erano tutti a terra immobili, cogli occhi sbarrati e la
schiuma alle labbra.
Poi quei briganti, senza che noi
avessimo fatto nulla, si gettarono sulle nostre case, incendiandole e
sparandoci addosso parecchi colpi di fucile.
Essendo noi inermi, ci salvammo
nella foresta.»
«Li hai veduti impadronirsi del
mio balon?»
«Hanno rubato la vostra bella
scialuppa?» esclamò il vecchio.
«Non c'è più,» disse
Lakon-tay.
«Il colpo doveva essere stato
preparato.»
«Quei due cacciatori che ci hanno
invitati a seguirli nella foresta, quando erano giunti?»
«Al mattino, signore.»
«Era la prima volta che si
mostravano?»
«Siamo qui da due mesi e non
abbiamo mai veduto quegli uomini.»
«È un colpo da pirati,» disse il
dottore. «Dove potremo trovare una barca?»
«È un po' difficile,» rispose il
vecchio. «Non vi sono villaggi nei dintorni, né costruttori di scialuppe.
Ah, ora che ci penso, potreste
forse trovarne qualcuna a Sarawan.»
«È lontana quella borgata?»
chiese Lakon-tay.
«Una sessantina di miglia.»
«Non approda mai alcuna barca
qui?»
«Ogni mese ne giunge una per
caricare il nostro olio; dovreste aspettare almeno quindici giorni.»
«Preferisco raggiungere Sarawan a
piedi,» disse Lakon-tay. «Sessanta miglia si possono
percorrere in tre o quattro giorni.»
«E noi penseremo alle provviste,
è vero, Len?» chiese il dottore.
«Sì,» rispose la giovane.
«Dottore,» disse
Lakon-tay, «cercate di svegliare i nostri uomini.»
«Non ve n'è bisogno, padrone,»
disse Feng. «Cominciano già a sbadigliare ed a muoversi. Fra pochi minuti
saranno tutti in piedi. Il sonnifero che hanno bevuto non doveva essere troppo
potente.»
In quell'istante verso il fiume
si udì una voce rauca gridare:
«Ohé! avete bruciato il
villaggio?»
Lakon-tay ed
i suoi compagni si accostarono rapidamente alla riva, armando le carabine.
Una barca di forme grossolane,
senza nessun ornamento, lunga una quindicina di metri, con nel mezzo una
tettoia formata da rami e da foglie di banano, saliva faticosamente il fiume,
spinta da due soli remiganti. A poppa stava un terzo, il quale teneva la lunga
pagaia che gli serviva da timone.
«Approdate,» gridò
Lakon-tay.
Il pilota spostò la pagaia a tribordo
e spinse la canoa verso la riva, incagliando la prora sulla sabbia.
Era un uomo tarchiato, con
braccia assai muscolose, la pelle fosca ed il viso sfregiato da sei tagli che
ancora sanguinavano, tre sulla guancia sinistra e altrettanti sulla destra, che
gli davano un aspetto certo poco piacevole. Invece di avere i capelli annodati
a treccia, li portava sciolti sulle spalle.
Vedendo
Lakon-tay, o meglio i cerchi d'oro che brillavano sul
cappello del generale, fece un profondo inchino.
«Posso esservi utile in qualche
cosa, signore?» chiese.
«Dove sei diretto?» chiese
Lakon-tay.
«A Sarawan, signore, dove devo
caricare del pimento per un mercante di Saraburi.
«Vuoi vendermi la tua barca?»
Il pilota lo guardò senza rispondere,
grattandosi il naso.
«Non lesino sul prezzo,» disse
Lakon-tay.
«Non posso, signore, perché la
barca non mi appartiene.»
«Ho dodici rematori che ti
condurranno più presto a Sarawan e che metto ai tuoi ordini; per di più ti regalo
cento tical se c'imbarcherai tutti.»
«È una proposta che nessuno
rifiuterebbe.»
«Accetti?»
«Sì, signore, purché
v'imbarchiate subito e pensiate a provvedervi di viveri, non avendo noi che un
po' di riso.»
«Non occupartene. Sapremo guadagnarceli
noi coi nostri fucili.»
«Affare concluso,» disse il
pilota.
«Si sono svegliati i nostri
uomini, Feng?»
«Sì, signore.»
«Falli imbarcare.»
I dodici battellieri scendevano
in quel momento la riva, confusi e vergognosi, colla testa bassa.
«Signore...» disse il loro capo.
«Sappiamo tutto,» rispose
Lakon-tay. «Se il balon è stato rubato non è colpa
vostra. Imbarcatevi.»
Regalò al vecchio cercatore
d'olio una verghetta d'oro del valore di qualche centinaio di tical, per
ricompensarlo della distruzione del villaggio e dei vasi, poi prese posto sotto
il cup, ossia la tettoia della scialuppa, assieme a Len ed al dottore,
dopo avervi fatto stendere le tre tende e i cuscini larghissimi che servivano
da letto e che i ladri del balon non avevano predato.
«Qualche cosa ci è rimasto,»
disse il generale, ben felice di poter riprendere il viaggio. «Quello che mi
rincresce è la perdita delle munizioni e delle carabine dei nostri battellieri
e anche della vostra farmacia, dottore.
Ka-ho-lai è
però frequentata di tanto in tanto da negozianti europei e spero che colà
troveremo quanto ci occorre.»
«Generale,» disse Roberto, che
stava osservando il pilota ed i suoi due uomini, gente robusta, con spalle
larghe e muscoli sviluppatissimi pel continuo maneggio del remo, «chi saranno
questi barcaioli?»
«Li credo Cambogiani,» rispose
Lakon-tay.
«Potremo fidarci di costoro?»
«Non sono che tre e noi in
sedici, e non mi pare che posseggano armi da fuoco. D'altronde li sorveglieremo.
Dottore, mancano ancora quattro
ore all'alba e non si sta male sotto questa cup, che è più vasta di
quella del mio balon. Approfittiamone per riposarci un po'. Feng
veglierà assieme ai nostri battellieri.»
Infatti quell'imbarcazione, se era
rozza, era più larga del ricco balon e la tettoia occupava uno spazio
ragguardevole, sufficiente a riparare una dozzina di persone. Il generale, il
dottore e Len potevano quindi avere tutto il posto che volevano per collocare i
loro cuscini e muoversi liberamente durante il giorno.
Mentre si disponevano a prendere
un po' di riposo, la scialuppa, spinta da quattordici remi, risaliva
rapidamente il fiume, tenendosi quasi nel mezzo, per evitare qualche sorpresa
da parte di coloro che si erano impossessati del balon.
Sembrava però che quegli audaci
bricconi, troppo contenti della felice riuscita del loro colpo, si fossero
eclissati. Probabilmente in quel momento stavano scendendo il
Men-Sak invece di risalirlo, per recarsi ad Ajuthia a vendere
la loro ricca preda. Alle cinque del mattino, Lakon-tay,
Len e Roberto erano già in piedi.
La scialuppa, che non si era
arrestata un solo istante, si trovava già ad una considerevole distanza dal
villaggio dei cercatori d'olio.
La regione era tornata selvaggia
e sulle due rive non si scorgevano che vaste paludi, interrotte da qualche
isolotto ingombro d'una folta vegetazione, senza un palmo di terra coltivata e
senza una capanna che indicasse la presenza di qualche contadino.
«Dobbiamo pensare a procurarci la
colazione,» disse Roberto. «Non dimentichiamoci che vi sono diciannove bocche
da nutrire, e che nella barca non vi è che un po' di riso e forse avariato.
Len, aiutatemi, giacché ci hanno nominati i provveditori della spedizione.»
«Gli uccelli sono diventati rari,
signor Roberto. Che si siano accorti che noi contavamo sulle loro carni?»
«Vedo volare laggiù, presso
quelle canne, qualche airone.»
«Che sarà appena bastante per
noi,» rispose Len, sorridendo.
«Batteremo le paludi, se vostro
padre acconsentirà a fermarsi.»
«Sarà necessario, dottore,» disse
Lakon-tay. «I nostri uomini non si sono ancora
completamente rimessi da quella bevuta e anche il pilota vorrà riposarsi.»
«Troveremo selvaggina nelle
paludi?»
«Sono frequentate dai cinghiali e
anche dai bambiral. Ne troveremo, non dubitate. Ecco laggiù delle
macchie di bambù e dei boschetti. Non mancherà la selvaggina là sotto.
Siamo già abbastanza lontani per
aver da temere una nuova sorpresa da parte dei pirati che ci hanno rubato il balon.»
«Signore,» disse in quel momento
il pilota, entrando nella cup. «Io ed i miei uomini abbiamo remato tutta
la notte, senza prendere alcun riposo, e abbiamo già percorso oltre trenta
miglia.»
«Stavo per proporti di prendere
terra.»
«Anche ripartendo dopo il
mezzodì, questa sera noi giungeremo egualmente a Kontior.»
«Che cos'è questo Kontior?»
«Un piccolo villaggio, dove sarò
costretto a fermarmi per accaparrare una partita di pimento.»
«Raggiungi quelle macchie di
bambù che costeggiano quella palude. Abbiamo bisogno di procurarci dei viveri.»
«Non vi sono case colà.»
«Cacceremo.»
Il pilota tornò al timone,
gridando ai battellieri di forzare la battuta, essendo in quel luogo la
corrente assai rapida, e diresse la scialuppa verso il luogo indicato dal
generale.
La vasta palude, che si estendeva
sulla riva destra, colà si interrompeva. Una serie d'isole di dimensioni
ragguardevoli, che le piene periodiche del Men-Sak non
avevano sommerso perché troppo elevate, servivano come di divisione fra il
corso d'acqua ed il bacino stagnante, ed erano coperte di alberi e soprattutto
di macchie enormi di bambù, alti quindici e più metri e dal fusto grossissimo.
Poiché i cinghiali amano i luoghi
umidi e pantanosi, non era improbabile che se ne potesse trovare qualcuno
isolato e fors'anche qualche grosso branco.
Ora la cattura di alcuni capi di
selvaggina di quella mole poteva permettere all'equipaggio di giungere fino a
qualche villaggio del settentrione senza pericolo di soffrire la fame.
La scialuppa, con un ultimo
sforzo, fu spinta verso la prima isola, che sembrava fosse la maggiore e aveva
una vegetazione più rigogliosa delle altre e anche piante da frutta. Infatti
sopra i bambù si vedevano ergersi le bellissime foglie dei cocchi e gli alti
tronchi dei durion e dei manghi.
«Se non troviamo selvaggina,
faremo una raccolta di frutta,» disse il dottore.
Voleva aiutare Len a sbarcare,
quando il pilota, che stava legando la scialuppa al tronco d'un piccolo tek,
gli fece cenno di non muoversi.
«Cos'hai?» chiese Roberto.
«Guardate, signore, là, verso la
palude. Ma è selvaggina troppo pericolosa per essere affrontata da una
fanciulla. Vi consiglio di non condurla con voi.»
Tutti volsero gli sguardi verso
la palude. Delle teste nerastre, armate di lunghe corna ricurve all'indietro,
s'avanzavano verso l'isola, fendendo impetuosamente l'acqua. Erano dieci o
dodici ed altre ne apparivano più lontane, dirette verso altri isolotti.
«Sono bufali che nuotano,» disse
Lakon-tay.
«Ecco una bella occasione per
procurarci bistecche in abbondanza,» disse il dottore. «Lasciamoli approdare,
poi andremo a scovarli.»
«Ammiro il vostro coraggio,»
disse Lakon-tay, «ma devo anche avvertirvi che i nostri
bufali selvaggi sono più pericolosi delle tigri e delle pantere. Se le
giovenche sfuggono il cacciatore, i tori invece lo affrontano con coraggio
disperato.»
«Suppongo che quel drappello non
sarà composto esclusivamente di tori. Agiremo con prudenza e non spareremo che
a colpo sicuro. Se riusciamo ad abbatterne uno, non mancheremo di viveri per
qualche settimana.»
«Signore,» disse il pilota. «io
ho già cacciato altre volte quegli animali, e vi assicuro che è necessario aver
buone gambe, per evitare le loro cariche furiose. Non conducete la fanciulla,
ve lo ripeto.»
«Io vi seguirò, signor Roberto,»
disse invece Len, con accento risoluto.
Il pilota fece un gesto di
stizza, ma non insistette oltre.
«Andiamo,» disse
Lakon-tay. «Abbiamo quattro fucili e faremo fronte ai tori.
Non li assaliremo che quando saremo ben vicini. Siate prudente, dottore:
giochiamo la vita.»
Presero le carabine e sbarcarono,
seguiti da Feng, il quale era, come abbiamo detto, un bravo tiratore e anche un
valente cacciatore.
I bufali avevano già preso terra
cinquecento passi più innanzi ed erano scomparsi fra i boschetti e le macchie
di bambù.
I cacciatori, dopo aver notato il
luogo ove erano approdati quei pericolosi animali, si cacciarono a loro volta
fra le macchie, aprendosi il passo con precauzione. Volevano sorprendere i
bufali e non già venire sorpresi, perciò non s'avanzavano che con estrema
prudenza, cercando di non far rumore.
Quelle precauzioni erano
necessarie, poiché i bufali dell'Indocina sono più terribili di tutti quelli
delle altre regioni, più vendicativi e anche più robusti.
Rassomigliano ai buoi comuni, ma
hanno la testa più corta e più larga, le corna più solide, oltremodo
ravvicinate alla base e colle punte incurvate all'indietro, la groppa alta e le
gambe corte e vigorose, gli occhi piccoli, quasi sempre iniettati di sangue,
con un'espressione selvaggia e cattiva.
Tutte le foreste della immensa
penisola indocinese e più specialmente i luoghi paludosi sono frequentati da
bande di bufali. Essi s'incontrano però più di frequente lungo i fiumi, essendo
assai amanti dell'acqua e dei bassifondi melmosi, ove trovano certe erbe dure
che i buoi sdegnerebbero. Le correnti più rapide non sono un ostacolo alle loro
emigrazioni, essendo essi dei nuotatori abilissimi.
Vivono per lo più in banchi
piuttosto numerosi, ma di tanto in tanto terribili battaglie scoppiano fra di
loro, ed i giovani cacciano i vecchi a colpi di corna, ciò che d'altronde
succede anche fra gli elefanti.
E quei vecchi, che vivono
solitari, sono appunto i più terribili. Nessun pericolo li trattiene e caricano
con eguale slancio un solo uomo come un reggimento di soldati, con una specie
di frenesia o meglio di pazzia.
E sono questi inoltre i più furbi
e i più vendicativi. Inseguiti e anche feriti non fuggono. Si cacciano bensì
nelle macchie, ma per farne il giro e sorprendere alle spalle i cacciatori.
Guai allora a chi si trova sulla
loro corsa! Lanciano in aria gli uomini, fracassando loro le costole, e
sventrano e gettano al suolo moribondi i cavalli. Nemmeno gli elefanti li
atterriscono, e si sono veduti dei tori assalire quei colossi montati dai
cacciatori e tentare di sollevarli colle loro corna!
Feng, che nel suo paese aveva già
cacciato altre volte quei pericolosi animali e che sapeva quanto fossero
terribili, a mano a mano che si avvicinava alle macchie dove supponeva
pascolassero, raddoppiava le precauzioni. Piegava dolcemente le immense canne
senza farle scricchiolare, poi si arrestava per ascoltare, quindi riprendeva la
marcia.
Dopo un centinaio di passi trovò
fortunatamente un sentiero, aperto probabilmente dai rinoceronti, animali che
al pari dei bufali amano le paludi e le terre umide e che dove passano lasciano
una traccia larghissima.
«Seguiamolo,» disse a
Lakon-tay. «Se non m'inganno, ci condurrà là dove pascolano
i bufali.»
«Tenete pronte le armi e non fate
fuoco che a bruciapelo. La loro pelle è grossa e resistente al pari di quella
degli elefanti.»
«Non resisterà alle nostre palle
coniche,» disse Roberto.
«Le nostre palle non sono le
lance degli Stienghi. Quelle sì che forano bene, quando si raddoppia la carica
dei fucili.»
«Sparano forse delle lance gli
Stienghi?» chiese il dottore.
«O meglio dei giavellotti,» rispose
Lakon-tay. «E ottengono un buon successo. Invece delle
palle, i nostri cacciatori di bufali adoperano un ferro da freccia a bocciolo
del peso di quattro o cinquecento grammi, largo quattro o cinque centimetri, e
grosso, verso la metà, non più di uno.
Sotto vi imperniano un manico
fornito d'un legno pesantissimo e durissimo, che ha il calibro della canna del
fucile.
Quel proiettile, che è lungo
abbastanza per superare l'arma di un mezzo piede, penetrando nel corpo del
bufalo, produce delle ferite così orribili da causare la morte. Aggiungete che
sovente i cacciatori avvelenano la punta della freccia.»
«M'immagino gli strappi che
devono produrre simili proiettili.»
«Altri invece adoperano delle
frecce a fusto schiacciato, che fissano ad un manico fendendone la cima e
unendovi la freccia mediante una solida legatura. Queste pesano molto più delle
altre, perfino un chilogrammo e mezzo, e uccidono sempre, tanta è la forza del
proiettile.»
«Si sparano quei fucili a breve
distanza?»
«A venti o trenta metri, non di
più e...»
«Silenzio, padrone,» disse in
quel momento Feng. «Odo delle canne spezzarsi. I bufali devono essere vicini.»
Il dottore guardò Len. La
fanciulla, pur sapendo che poteva correre il pericolo di venire assalita, era,
come sempre, calmissima.
«Len-Pra,
tenetevi dietro di me e non fuggite senza che io ve lo dica,» disse. «Io vi
farò scudo col mio corpo.»
La voce di Roberto era così
commossa, che la fanciulla lo guardò un po' sorpresa.
«Farò come vorrete, signor
Roberto,» disse poi, alzando la carabina che aveva già armato. «Non mi
allontanerò da voi.»
«Non sparate che a colpo sicuro.»
«Dopo di voi, sì...»
In mezzo ai bambù si udivano
degli scricchiolii, come se dei grossi animali cercassero d'aprirsi un passaggio.
«S'avanzano,» disse Feng,
sottovoce.
«Che ci abbiamo fiutati?» chiese
Lakon-tay.
«È possibile, signore. Sdraiatevi
fra le canne e fate fuoco sul primo che appare, che deve essere un toro. Ucciso
il capo, le giovenche non oseranno assalire.»
Si gettarono tutti a terra,
tenendosi l'uno presso l'altro per meglio potersi soccorrere a vicenda. Le
canne in quel luogo erano così fitte che li coprivano interamente.
I fruscii e gli scricchiolii
aumentavano. La mandria s'avanzava lentamente, cercando forse un luogo per
riposarsi. Di quando in quando si udiva un rauco muggito, poi delle canne
cadevano a destra ed a sinistra sotto le cornate del capofila.
Pochi minuti dopo, una testa
armata di lunghissime corna apparve ad una decina di metri.
«Sotto la gola e alla spalla,»
sussurrò Roberto a Len.
L'animale, dopo una breve
esitazione, aveva allontanato le grosse canne che lo stringevano da tutte le
parti.
Era un toro di dimensioni enormi,
dal pelame nero sul dorso e rossastro sui fianchi.
Udendo lo scricchiolio dei
grilletti delle carabine, si voltò vivamente, guardando verso il luogo ove si
tenevano celati i cacciatori.
Abbassò improvvisamente la testa
come per caricare, ma in quel momento rimbombarono quattro spari.
Il toro, colpito in più parti,
stramazzò pesantemente al suolo, fulminato da quella scarica sparata quasi a
bruciapelo.
Fra le canne si udirono subito
dei muggiti, poi dieci o dodici corpacci s'aprirono violentemente il passo e
scomparvero nel folto della macchia, col fragore d'un treno diretto, tutto
abbattendo nella loro corsa precipitosa.
«È nostro!» gridò allegramente il
dottore, balzando in piedi e facendo atto di slanciarsi verso il toro.
Feng fu pronto ad arrestarlo.
«No, signore, non accostatevi senza
aver prima ricaricato la carabina.»
«È morto, amico.»
«Fermatevi, dottore,» disse
Lakon-tay. «Questi animali posseggono una vitalità e una
vigoria prodigiosa, e talvolta si fingono morti per assalire poi
improvvisamente i cacciatori.»
Ricaricarono le carabine, poi si
accostarono con precauzione all'animale.
Non dava più segno di vita: due
palle l'avevano colpito ad una spalla e le altre due presso la gola. La morte
era stata istantanea.
«E gli altri, che ritornino?»
chiese Lakon-tay. «Tu sai, Feng, che sono eccessivamente
vendicativi.»
«Può darsi, signore, che stiano
facendo il giro della macchia per sorprenderci alle spalle. Affrettiamoci a
raggiungere la barca. Manderemo poi qui i battellieri a fare a pezzi il toro.»
«E la colazione?» chiese il
dottore.
«La faremo più tardi, signore.
Non è prudente fermarci qui per ora. Lasciamo che la mandria si calmi o si
allontani.»
Temendo giustamente di venire da
un momento all'altro assaliti furiosamente dai compagni del morto,
s'affrettarono a uscire dalla macchia ed a raggiungere la riva del
Men-Sak. Là almeno non correvano il pericolo di venire
sorpresi.
«Si vedono i bufali?» chiese il
dottore.
«No,» rispose Feng. «Forse
avranno continuato la loro corsa verso la palude.»
«E mi dite che sono così
vendicativi?»
«Sono certo che a quest'ora sono
rientrati nella macchia, sperando di sorprenderci e vendicare la morte del
compagno. Sono bestie cattive, signore.»
«Non assaliranno poi i nostri
uomini?»
«Non rimarranno molto nella
macchia, dove non possono trovare le erbe dure e amare che servono loro di
nutrimento.»
«Seguiamo la riva,» disse
Lakon-tay. «Può darsi che facciamo l'incontro di altra
selvaggina. Mi sembra impossibile che non vi siano dei cinghiali qui.
Se non troviamo altro da
ammazzare, ci accontenteremo per ora delle noci di cocco. Ecco là un gruppo di
quelle belle palme che si piegano sotto il peso delle loro frutta.»
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