Due ore dopo Lakon-tay
ed i suoi compagni giungevano alla scialuppa carichi di noci di cocco e di
squisitissimi manghi.
Feng, che li aveva preceduti,
aveva già mandato nella boscaglia parte dei battellieri per scuoiare e fare a
pezzi il bufalo. Nessun pericolo poteva minacciarli, poiché i compagni del
morto erano stati già veduti riattraversare la palude per raggiungere un'altra
isola che si scorgeva un po' più a nord-est. Altri animali
non erano approdati. Solo dopo il mezzodì i battellieri fecero ritorno con
degli enormi pezzi di carne sanguinante. Avevano scelto le parti migliori, non
avendo sale sufficiente per conservarla tutta, né tempo disponibile per
seccarla.
La stagione delle piogge non era
lontana e Lakon-tay non voleva fare delle lunghe fermate,
essendo il lago Tuli-Sap ancora così distante.
Dopo una colazione abbondante, la
scialuppa riprese la sua corsa, per giungere al villaggio prima che la sera
calasse. I battellieri, ben pasciuti e riposati a sufficienza, le impressero
una tale velocità, che raggiunsero la borgatella segnalata dal pilota qualche
ora prima che il sole tramontasse.
Anche quella non era che una miserabile
stazione fluviale, composta di una ventina di capanne piantate su pali per
difesa dagli assalti delle tigri, e abitata da qualche centinaio di
raccoglitori d'olio e di cercatori di polvere d'aquila.
Lakon-tay
fece rizzare le tende all'estremità del villaggio dove la scialuppa era
approdata, e fece alcune compere di riso, l'unica derrata che esisteva ed anche
in scarsa quantità, giacché, come abbiamo detto, i Siamesi al pari dei
contadini cinesi non domandano di più per vivere, tanto sono sobri.
Appena terminata la cena il
pilota chiese a Lakon-tay il permesso di assentarsi. Doveva
recarsi ad una fattoria poco lontana per accaparrare una partita di pimento che
avrebbe imbarcato al ritorno.
«Se tardo, non preoccupatevi per
me,» aveva detto, nell'allontanarsi. «Conosco il paese.»
Feng, che temeva potesse correre
qualche pericolo, non già da parte degli abitanti bensì delle belve, si offerse
di accompagnarlo, ma ne ebbe un rifiuto reciso.
Il pilota, attraversata la
borgata, prese un sentiero che serpeggiava fra alcune risaie, seguendo un
argine abbastanza largo.
Se qualcuno lo avesse seguito, si
sarebbe forse accorto che quell'uomo aveva ben altre preoccupazioni che quella
di accaparrarsi una partita di pimento.
Si arrestava di frequente,
guardandosi alle spalle, e cercava di tenersi sempre celato dietro le alte
canne palustri che fiancheggiavano l'argine, come se temesse di venire spiato.
Giunto all'estremità della
risaia, balzò nell'acqua e stette parecchi minuti immobile, osservando
attentamente il sentiero che aveva fino allora percorso.
«Nessuno mi ha seguito,» mormorò.
«Non hanno alcun sospetto su di me.»
Diresse lo sguardo verso est,
fissandolo su un gruppo di vaste capanne che sorgeva in mezzo ad una piantagione
di banani, sormontato da un'antenna dipinta in rosso.
«È quella la fattoria di
Mien-Ming,» disse. «Sono parecchi anni che non vengo qui,
eppure la riconosco ancora.
Sarà già arrivato il padrone? I
cavalli sono stati scelti con cura e la mia scialuppa si è fermata abbastanza a
lungo presso le isole.»
Attraversò l'ultimo tratto della
risaia, guazzando nel fango e tenendo gli sguardi fissi sui gruppi di canne in
mezzo ai quali poteva tenersi imboscata qualche tigre affamata, poi prese terra
sul margine d'una piantagione d'indaco.
Cercò un sentiero e, scopertolo,
si avviò verso la fattoria. Colà non aveva da temere un assalto improvviso,
essendo le piante bassissime, tuttavia per maggior precauzione si tolse dalla
spalla la lancia ed impugnò il coltellaccio dalla lama quadrata ed
affilatissima.
Appena ebbe raggiunto i primi
gruppi di banani, estrasse un pi e lanciò alcuni fischi stridenti. Alla
terza nota udì un'altra chiarina rispondere a breve distanza.
«Il padrone è giunto,» mormorò.
Rispose con una nota più acuta,
poi attese.
Non erano trascorsi dieci minuti,
quando un uomo seguito da altri due, armati di carabine e di coltellacci, sbucò
fra le immense foglie d'un gruppo di banani: era Mien-Ming.
«Tu, Kopom!» esclamò il puram
di Bangkok, facendo un gesto di stupore.
«Sì, signore,» rispose il
Cambogiano, sorridendo. «Ho preso tutte le precauzioni per giungere in tempo
all'appuntamento che mi avevi dato. Che cavalli possiedi! Credevo di non
trovarti qui.»
«Dunque?» chiese il puram.
«Tutto è riuscito secondo i tuoi
desideri, signore. Ormai Lakon-tay mi ha in sua compagnia,
e non lo lascerò più senza tuo ordine.»
«Il balon?»
«Rubato e poi affondato in mezzo
al Men-Sak.»
«Non hanno alcun sospetto?»
«Da quanto ho potuto apprendere,
hanno dato la colpa ai pirati.»
«E i battellieri?»
«Si sono ubriacati senza farsi
pregare. Io però al tuo posto, invece d'un sonnifero, avrei mescolato un po' di
quel veleno che ha mandato all'altro mondo i poveri S’hen-mheng.»
«Avrei forse fatto nascere dei
sospetti!»
«Non ne hanno alcuno, signore.»
«Nemmeno su di te?»
«Chi vuoi che supponga di trovare
Kopom sull'alto corso del Men-Sak? E poi, non sono a sufficienza
trasfigurato, dopo che mi sono sfregiato così bene il viso e lasciato crescere
i capelli? Guarda, padrone: ho tre tagli sulla guancia destra e altrettanti su
quella sinistra.»
«Infatti sei quasi
irriconoscibile,» disse Mien-Ming, «e ammiro il tuo
sacrificio.»
«Per te, signore, mi sarei
tagliato un braccio.»
«Saprò un giorno ricompensarti
come meriti ed innalzarti alla carica di mandarino, purché tu riesca a condurre
a buon fine i miei disegni.»
«Sono pronto a tutto: ordina.»
«È necessario sbarazzarsi,
innanzi a tutto, dell'uomo bianco.»
«Rappresenta il pericolo maggiore
per te, signore. Se non m'inganno, Len-Pra lo ama già.»
Un'orribile contrazione alterò il
viso giallastro del puram.
«Lo ama!» gridò.
«Ed il generale lo ha in grande
stima.»
«È necessario farlo scomparire,»
disse Mien-Ming, con voce cupa.
«Non sarà cosa facile, signore. È
un mago ed il veleno non avrebbe alcun effetto su di lui. Sai che ha salvato
anche Lakon-tay.»
«Lo so,» rispose il puram,
digrignando i denti. «Quei maledetti bianchi sarebbero capaci di far
risuscitare anche un uomo morto. Eppure bisogna che quell'uomo scompaia, o io
perderò per sempre Len-Pra.»
«Prepariamogli un agguato.»
«E come? In qual luogo?»
Kopom non rispose: pareva che
riflettesse profondamente.
«Ah! Se non vi fosse
Len-Pra,» disse poi, «m'incaricherei io di farlo
scomparire; ma la fanciulla ed il generale lo accompagnano sempre, e poi vi è
quel maledetto Stiengo che deve essere più furbo d'un serpente.»
«Feng?»
«Sì, Feng,» rispose Kopom. «Ho
più paura di lui che di tutti gli altri.»
«Sai dove si dirigono?»
«Da un battelliere che ho
interrogato abilmente, ho saputo che hanno intenzione di arrestarsi a
Ka-ho-lai.»
«Se potessimo preparare un
agguato all'uomo bianco quando saranno impegnati fra le montagne! È necessario
che scompaia; quella fanciulla deve diventare mia, dovessi distruggerli tutti.
La passione che mi rode ormai è diventata così gigante, che non indietreggerei
dinanzi ad alcun delitto.
Len-Pra o la
morte: ecco ormai il mio motto.»
«Aspetta che giungano nella città
del Re lebbroso,» disse Kopom. «Tu mi hai detto che conosci tutte le entrate segrete
di quegli antichi palazzi.»
«È vero: sono nato in quei
dintorni e quelle immense rovine mi sono familiari,» disse il puram.
«Ma che esista il driving-hook?»
«Tutti lo affermano.»
«E glielo lascerai trovare?»
chiese Kopom.
«Chi ti dice che essi possano
giungere alla città del Re lebbroso? No, non lascerò trionfare
Lakon-tay. Io ho suggerito al talapoino quel sogno, colla
speranza di allontanarlo senza Len. Mi sono ingannato stupidamente e bisogna
rimediare a quanto ho fatto. Ah! Len-Pra, quanti tormenti
mi costi! E tuo padre ha rifiutato la mia mano, la mano d'un uomo potente quasi
quanto il re!...»
«Per concederla ad un uomo
bianco, ad uno straniero.»
«Kopom, bisogna che quell'uomo
scompaia dalla circolazione. Vieni alla mia fattoria, e a meno che non sia un
gran stregone, egli non vedrà la città del Re lebbroso, né tornerà mai più a
Bangkok!»
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Due ore dopo, Kopom usciva dalla
fattoria e riprendeva la via che doveva condurlo alla risaia e di là al
villaggio.
Il furfante pareva lietissimo,
perché fischiettava fra i denti e di quando in quando si fregava le mani come
persona soddisfattissima.
«Saliamo,» mormorava, guazzando
fra il fango e le acque corrotte delle risaie. «Sì, avrò anch'io il mio
cappello col cerchio d'oro e le rosette, e certo non mi accontenterò di un
cerchio solo.
Kopom non è uno scimunito e vedo
già in lontananza apparire i distintivi di puram. Se
Mien-Ming dal nulla è salito così in alto, perché io, che
valgo quanto lui, se non di più, non riuscirò un giorno a raggiungerlo? Onori e
ricchezze! Ecco la mia ambizione.
Che importa se ho il viso
sfregiato? Bisogna ben fare qualche sacrificio per riuscire! Il mio sogno
comincia a realizzarsi, e mi vedo già alla corte, possente e temuto quanto lo
stesso re.»
Così monologando, il briccone
attraversò la risaia e raggiunse la borgatella senza fare alcun cattivo
incontro, quantunque le belve feroci ronzino ordinariamente quasi sempre
intorno ai villaggi, in attesa di fare un buon colpo.
Feng lo attendeva accanto al
fuoco, acceso nel centro dell'accampamento, assieme agli uomini del primo
quarto di guardia.
«Hai trovato la fattoria,
pilota?» gli chiese.
«La fattoria sì, ma il pimento
no. Altri l'hanno accaparrato prima di me,» rispose Kopom, fingendosi irritato.
«Ecco una perdita considerevole per me.»
«Il padrone saprà ricompensarti.»
Kopom alzò leggermente le spalle
ed entrò nella sua barca, sdraiandosi fra i suoi due battellieri.
L'indomani la scialuppa lasciava
la borgatella, dopo aver fatto provvista di frutta, di noci di cocco, durion,
banane e d'una certa quantità di kang, riso dal granello piccolissimo e
aromatico, assai apprezzato dai Siamesi. Il capo della borgatella vi aveva
aggiunto anche dei galli selvatici che un cacciatore aveva ucciso nella notte
sugli argini della risaia e delle zucche piene di liquore zuccherino chiamato toddy.
Con quelle provviste e la carne
del bufalo, che era stata arrostita perché si conservasse meglio, la spedizione
poteva giungere a Sarawan senza fare altre fermate.
La scialuppa, spinta
vigorosamente dai quattordici remi, si trovò ben presto lontana dalla
borgatella.
Il fiume cominciava a
restringersi, pur avendo ancora una larghezza considerevole, che variava fra i
cinque ed i seicento metri.
Di quando in quando comparivano
degli isolotti coperti di manghi e di bambù, e siccome erano popolati di uccelli
acquatici, il dottore e Len non mancavano di salutare quei volatili con qualche
colpo di fucile per aumentare le provviste.
Anche sulle rive gli uccelli
erano abbondanti, non pochi bufali si mostravano nelle paludi. Vedendo la
scialuppa avanzarsi, la guardavano coi loro piccoli occhi iniettati di sangue,
poi fuggivano al galoppo, rifugiandosi sotto i boschetti o in mezzo alle canne.
A mezzodì, mentre Feng stava
servendo la colazione, uno spettacolo inatteso s'offerse agli sguardi dei
naviganti.
Una banda di elefanti, con
parecchi piccini, sbucò improvvisamente da una foresta che aveva preso il posto
delle eterne paludi, e si immerse nel fiume per attraversarlo. Si componeva per
la maggior parte di maschi, guidati da due femmine di statura colossale.
Scorgendo la scialuppa, quei
giganti, che si trovavano quasi già in mezzo al fiume, si arrestarono dando
segni d'inquietudine e barrendo con fragore, poi si misero a fuggire
disordinatamente.
Tuttavia maschi e femmine non
abbandonarono i piccini. Se li cacciavano innanzi, spingendoli colle proboscidi
e tentando di sollevarli, onde nella precipitosa ritirata non corressero il
pericolo di affogare.
«Che peccato non poterli
cacciare,» disse il dottore, che tormentava il grilletto della sua carabina.
«Siamo ancora troppo vicini ad
Ajuthia e qualcuno potrebbe denunciarci,» rispose
Lakon-tay. «Come vi dissi, tutti appartengono al re ed è
vietato ucciderli. Quando saremo giunti fra le foreste del settentrione, non vi
impedirò di affrontare quei colossi.»
«È d'altronde una legge saggia,
che si dovrebbe applicare anche in altre regioni, per impedire la distruzione
di quei preziosi animali così utili all'uomo,» disse il dottore.
«Li uccidono, altrove?» chiese Lakon-tay,
sorpreso da quelle parole.
«Li massacrano su larga scala,
generale. In Africa per esempio, e notate che gli elefanti africani sono più
alti e più robusti di quelli asiatici, la razza già tende a scomparire. Tutti
gli anni se ne uccidono cinquanta ed anche sessantamila.»
«Per mangiarli?»
«Più per impadronirsi
dell'avorio, di cui si fa una grande esportazione. Circa
800.000 chilogrammi di avorio vengono introdotti ogni anno
in Europa, ma a quale prezzo!»
«Sessantamila elefanti!» esclamò
Lakon-tay. «Non sanno dunque ammaestrarli quei popoli?»
«Anticamente sì: numidi e
cartaginesi, due popoli ormai scomparsi, se ne servivano nelle guerre e li
caricavano di torri piene d'arcieri. Nello scompiglio avvenuto mille anni or
sono, l'arte di addomesticarli andò perduta ed ora, in tutta l'Africa, non ne
esiste uno che serva all'uomo di aiuto nei lavori più gravosi.»
«La razza finirà collo
scomparire.»
«È già immensamente diminuita, ed
è probabile che fra cinquanta anni, se non mettono un freno all'avidità dei
cacciatori d'avorio, l'elefante africano non esisterà più.»
«Peccato,» disse il generale.
«Distruggere degli animali così preziosi, così docili che rendono all'uomo
tanti servigi! Dove volete trovare degli ausiliari più vigorosi e anche più
intelligenti?
Immensi servigi rendono
certamente anche i buoi ed i cavalli, ma che cosa sono a paragone degli
elefanti, questi facchini sovrumani, che portano decine e decine di quintali
sui loro dorsi poderosi, che percorrono perfino ottanta chilometri al giorno
con simili carichi, che spinti alla corsa, malgrado la loro corpulenza,
superano in velocità il miglior destriero dei nostri paesi, e si arrampicano su
per le montagne come capre?
E quanta bontà posseggono quei
giganti! Mai che abbiano uno scatto violento, mai che rifiutino un lavoro, per
quanto gravoso possa essere, mai che si ribellino al loro mahut.»
«È vero,» disse il dottore. «Essi
per intelligenza hanno il diritto di venire classificati dopo l'uomo, e prima
della scimmia.»
«E che memoria meravigliosa
hanno!... Io mi ricordo di un elefante, chiamato Tong, che apparteneva ad un
mio amico, governatore di una città sul confine birmano.
Un giorno, mentre quel mio amico
attraversava una jungla con parecchi elefanti, due tigri affamate si
scagliarono contro la carovana. Tong, che era addomesticato da poco, invece di
far fronte all'attacco fuggì, facendo cadere il suo mahut.
Diciotto mesi dopo, in una
battuta di elefanti, Tong venne ripreso assieme a molti altri.
Era già ridiventato selvaggio, e
si dibatteva con furore contro le elefantesse addomesticate che cercavano di
atterrarlo.
Per un caso strano, fra i
cacciatori si trovava il suo mahut. Costui, riconosciutolo, gli
s'avvicinò, montato su una femmina, e lo prese per un orecchio, chiamandolo per
nome.
Ebbene, lo credereste? Appena
Tong udì la voce del suo antico domatore, non solo cessò ogni resistenza, ma
dette segni di viva gioia e si lasciò docilmente condurre via.
Poche settimane dopo lavorava
come nel passato, dimostrando di non aver nulla dimenticato di ciò che aveva
appreso durante la sua prigionia.»
«È meraviglioso!» esclamò il
dottore.
«Ed ecco un altro caso ancora più
sorprendente,» disse Lakon-tay. «Un altro mio amico, un
generale, aveva abituato un suo elefante a giocare coi bambini della casa, e il
colosso pareva ci si divertisse assai. Li seguiva nei campi, se li metteva in
groppa quando mostravano di essere stanchi, si lasciava tirare gli orecchi e
pizzicare la proboscide senza aversene a male! Un giorno, mentre i fanciulli
giocavano presso le rive del Menam, sul margine d'una jungla, ecco
sbucare improvvisamente una grossa tigre.
Potete immaginare il terrore di
quei bambini, che fra tutti e quattro non avevano vent'anni e che erano
assolutamente inermi.
Che cosa fece l'elefante? Se li
cacciò tutt'e quattro sotto il ventre, per paura che la tigre con un salto gli
balzasse in groppa, cosa facile per quei terribili felini che sono dotati d'una
agilità straordinaria; poi si mise a indietreggiare lentamente verso il fiume,
con infinite precauzioni, per non calpestare i piccini che costringeva a
seguirlo nella ritirata.
Per due volte la tigre tentò
l'assalto finché, vedendo accorrere una scialuppa montata da parecchi uomini,
stimò prudente abbandonare la partita e rintanarsi nella jungla.»
«Quanta intelligenza!»
esclamarono Len-Pra e Roberto, che s'interessavano assai a
quei racconti.
«E quanta docilità in quegli
animali e quanta rara dolcezza e come si sottomettono volentieri all'impero
materno!
Osservate: mentre tutti gli altri
animali che vivono in comune subiscono la tirannia d'un maschio, è sempre una
femmina che dirige le bande degli elefanti, e nessuno osa ribellarsi.»
«Invece d'un re hanno una
regina,» disse Roberto, ridendo.
«È così, dottore.»
Mentre chiacchieravano, i colossi
avevano attraversato il fiume ed erano scomparsi frettolosamente in mezzo agli
altissimi bambù.
Soltanto uno si era fermato dietro
un gruppo d'alberi, per sorvegliare le mosse della scialuppa; poi, vedendola
proseguire, anche quello se ne andò al trotto, aprendosi un largo solco in
mezzo alla vegetazione. Si era però appena internato quando un clamore
assordante scoppiò fra quelle canne giganti.
Si udivano barriti formidabili,
accompagnati da fischi stridenti, poi si videro i bambù agitarsi in tutti i
sensi e cadere a gruppi.
«Che cosa accade là sotto?»
chiese Roberto.
Lakon-tay
fece segno al pilota di accostarsi ad un isolotto che si trovava quasi in mezzo
al fiume.
Pareva che una terribile rissa
fosse scoppiata fra gli elefanti ed altri animali che non si potevano ancora
scorgere.
I clamori diventavano assordanti
e le canne continuavano a cadere, assieme alle palme che vi crescevano nel
mezzo; di quando in quando delle proboscidi apparivano al di sopra dei
vegetali, poi s'abbassavano violentemente.
«Che degli uomini abbiano
assalito quei colossi?» chiese Len.
«No, non sono uomini,» disse
Lakon-tay, che ascoltava attentamente. «Chi oserebbe
cacciare degli animali che sono proprietà del re? Ah!... Ora comprendo. Udite
questi fischi stridenti?»
«Sì, generale.
Gli elefanti sono stati sorpresi
da qualche coppia di rinoceronti. Sono certo di non ingannarmi.
Quei bruti odiano a morte gli
elefanti e, quando si presenta l'occasione, li assalgono con cieco furore,
tentando di sventrarli.
Guardate, ecco i colossi che
indietreggiano verso la riva.»
La banda usciva a corsa sfrenata
dalla macchia, colle proboscidi tese, barrendo spaventosamente.
«Fuggono!» esclamò il dottore.
«O prendono invece posizione, per
caricare a loro volta su terreno scoperto?» disse
Lakon-tay.»
I pachidermi infatti non pareva
avessero intenzione di attraversare di nuovo il fiume. Giunti sulla riva, che
in quel luogo era sgombra di vegetali d'alto fusto, si schierarono su una sola
linea di fronte alla macchia. Alcuni pareva fossero stati assai maltrattati,
perché perdevano sangue dai fianchi. Uno anzi si era separato dai compagni e
barriva lamentosamente, versandosi acqua sul petto.
«Deve aver ricevuto un buon colpo
di corno,» disse Lakon-tay, che lo osservava. «Le ferite
che producono i rinoceronti sono spaventevoli. Ah!... Eccoli!»
Due animali di forme tozze, con
gambe corte e grosse, il corpo lordo di fango disseccato, il muso armato di un
doppio corno, uno lungo più di mezzo metro e l'altro cortissimo, erano
improvvisamente balzati fuori dalla macchia.
Quei pericolosi animali, che
misuravano ognuno quasi quattro metri di lunghezza, senza spaventarsi
dell'atteggiamento risoluto degli elefanti, caricavano all'impazzata.
Con una velocità straordinaria e
un'agilità incredibile per corpacci così tozzi, piombarono addosso ai loro
avversari, tentando di sfondare la linea e di avere buon gioco.
Miravano soprattutto a
raggiungere i piccini, che si erano nascosti dietro le madri; ma la loro
furiosa carica non ebbe l'esito sperato.
I pachidermi, stretta la fila, li
accolsero con tali colpi di proboscide, da strappare ai due bruti urla di
dolore.
Uno fu rovesciato per ben due
volte, poi orrendamente calpestato dai pachidermi inferociti; l'altro, dopo
aver tentato invano di sventrare la guida della truppa, tornò al galoppo verso
la macchia, urlando spaventosamente.
I colpi di proboscide dovevano
avergli spezzato parecchie costole.
«Ben prese,» disse il dottore,
mentre gli elefanti a loro volta si cacciavano fra i bambù. «Ecco una severa
lezione data a quegli intrattabili e brutali devastatori delle foreste.»
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