18. Attraverso le foreste
Due giorni dopo la scialuppa
approdava a Sarawan, una borgata che non valeva meglio delle altre, poco
abitata, con capanne di canne e di fango e coi tetti di paglia, piantate su pali
e disposte lungo la riva destra del Men-Sak.
La spedizione doveva abbandonare
definitivamente il fiume per inoltrarsi attraverso i selvaggi territori
dell'alto Siam, abitati da tribù quasi indipendenti, piuttosto avverse alla
dinastia dei re Siamesi.
Prima di prendere una decisione,
Lakon-tay, il dottore e Feng tennero consiglio, e vi
ammisero anche il pilota della scialuppa, il quale già durante il viaggio aveva
a poco a poco manifestato il desiderio di lasciare per sempre il suo faticoso
mestiere per guidarli verso il settentrione, affermando di essere praticissimo
di quelle regioni.
Dopo lunghe discussioni, fu
convenuto di lasciare i battellieri a Sarawan, temendo che una carovana così
numerosa potesse suscitare dei sospetti negli Stienghi già abbastanza mal
disposti verso i Siamesi, e di avanzarsi da soli verso
Ka-ho-lai.
Il pilota si era mostrato il più
risoluto a non aggregare alla carovana i battellieri, uomini che potevano
essere più d'impiccio che di utilità.
Siccome quel briccone, durante
quei quattro giorni di navigazione, non aveva fatto sorgere sul suo conto alcun
sospetto, Lakon-tay e Roberto finirono per arrendersi alle
sue osservazioni.
Presa quella decisione, approvata
anche da Feng, il quale temeva che non potessero trovare nelle immense foreste
del settentrione selvaggina sufficiente per poter nutrire tante persone,
cominciarono subito a fare i preparativi per il viaggio terrestre, che doveva
essere più difficile e anche più pericoloso.
Non riuscì loro difficile
procurarsi dieci cavalli, cinque dei quali dovevano essere destinati al
trasporto delle provviste, ed alcuni fucili di ricambio che non valevano però
certo le loro carabine, essendo generalmente i Siamesi pessimi armaioli.
Feng poi s'incaricò specialmente
dei viveri, che rinchiuse in sacchetti di grossa tela, spalmati di vernice per
preservarli dagli acquazzoni, che non dovevano tardare a cadere, essendo la
stagione delle grandi piogge imminente. Al secondo giorno la comitiva si trovò
in grado di riprendere il viaggio.
Erano le sei pomeridiane quando,
dopo un pranzo offerto dal governatore, lasciarono la borgata, prendendo
risolutamente la via dei grandi boschi, che dovevano ormai accompagnarli fino
al lago di Tuli-Sap.
Infatti il Siam settentrionale
non è altro che una immensa foresta, dove i legnami più preziosi e le piante
più ricercate crescono senza coltura alcuna, tanto sono fertili quelle terre
mai sfruttate da alcuna coltivazione. I tek crescono accanto agli alberi
della cannella; gli alberi dell'olio e della cera insieme ai banani ed ai
manghi; i cocchi mescolati ai tamarindi, ai durion dalle frutta deliziose, agli
areca, ai sagù contenenti una polpa farinosa che serve a fare una specie di
pane, agli alberi del ferro e a quelli che dànno la polvere dell'aquila; ai tonki
dalle cui cortecce si estrae una specie di carta; ai fang che dànno delle
tinture splendide, ai preziosi sandali, ai comoni rossi e a tanti altri che
sarebbe troppo lungo enumerare.
Il pilota, che, come abbiamo
detto, assicurava di conoscere a menadito la regione, anche quella che si
estendeva al di là di Ka-ho-lai, si era messo alla testa
del drappello, mentre Feng si era posto alla retroguardia, per vigilare sugli
animali che portavano i viveri, le tende, le coperte e le munizioni nonché le
armi di riserva.
I cavalli, scelti con cura,
promettevano di resistere lungamente e di portare facilmente i loro cavalieri
fino sulle rive del Tuli-Sap, senza necessità di venire
cambiati.
Erano animali di statura piccola,
dai garretti solidi, i dorsi robusti, le criniere folte.
Il Siam non ha cavalli di grande
statura, ma quelli che possiede, quantunque non siano più alti dei poney
irlandesi, superano nella corsa qualunque animale selvaggio e, quello che è
più, sono di una sobrietà meravigliosa.
Il drappello dopo tre ore si
trovò ben presto sui primi pendii di quella lunga catena di monti che serpeggia
per il Siam centrale, unendosi con quella più massiccia di
Kao-Dourek, e che divide il versante del Menam da quello
più ampio del Mekong o Camboge.
Foreste immense si estendevano
dovunque, formate da una infinita varietà di alberi e popolate da miriadi di
scimmie, che salutavano il passaggio del piccolo drappello con sberleffi,
scrosci di risa, urla diaboliche e anche con una pioggia di frutta e di rami.
Tutte le numerose specie che infestano le campagne e le boscaglie della immensa
penisola indocinese avevano colà dei rappresentanti.
I siamang abbondavano
soprattutto, ma vi erano anche battaglioni di hodok, di somm-pilui,
di budeng nerissimi, di macachi e di sileni barbuti, i più terribili
devastatori dei campi e delle piantagioni.
Vi erano pure innumerevoli bande
di lar, quelle piccole scimmie che non sono più grosse di uno
scoiattolo, dal pelame morbido come felpa e dagli occhi grandissimi e gialli, e
di lori tardigradi, i brusamundi degli indocinesi, dagli occhi
pure grandissimi circondati da due anelli scuri del più strano effetto e che
sembrano occhiali, i quadrumani più pigri della grande famiglia scimmiesca
perché impiegano un minuto a percorrere a mala pena un metro.
Se abbondavano le scimmie, non
mancavano anche i serpenti, i quali sono numerosissimi nelle selve Siamesi.
Non senza un certo senso di
raccapriccio il dottore ne scorgeva sovente taluni fuggire all'accostarsi dei
cavalli, e nascondersi fra le foglie secche o nelle cavità dei vecchi tronchi.
Ve n'erano di sottili come un
portapenne, dai colori brillanti, di quelli lunghi un paio di metri e tutti
neri, altri più lunghi ancora e grossi come il braccio d'un uomo, dalle scaglie
brillanti ad anelli giallastri e a macchie rosa.
«Si direbbe che questo sia il
paradiso dei serpenti,» disse Roberto, vedendone fuggire sette od otto in una
sola volta. «Sono tutte così popolate le vostre foreste?»
«Il paradiso dei serpenti!... È
la vera frase,» rispose il generale, che pareva non si preoccupasse di quei
ributtanti esseri. «Non sono però tutti pericolosi, dottore, rassicuratevi. Non
vi sono da temere che i cobra, che fortunatamente non sono molto
abbondanti nelle nostre foreste, e gli amadriadi, quei brutti rettili
che hanno la testa somigliante a quella dei cani.»
«Non amerei fare la loro
conoscenza.»
«Vi credo, tanto più che il loro
veleno non risparmia mai. Mi stupisce anzi come voi europei, che sapete tante
cose, non siate riusciti a rendere inoffensive le morsicature di quei terribili
rettili.»
«La scienza si è trovata sempre
impotente contro il veleno dei cobra,» rispose Roberto. «I medici
inglesi soprattutto hanno fatto molti esperimenti per strappare alla morte le
migliaia e migliaia d'indiani che ogni anno soccombono per i morsi dei
serpenti, e non son riusciti a nulla.»
«Cagionano molte vittime nell'India
i cobra?»
«Sedici e anche diciassettemila
persone all'anno muoiono a causa dei serpenti.»
«Che cifra spaventevole!» esclamò
Len-Pra.
«Senza contare le persone che
vengono divorate dalle belve feroci.»
«Che saranno molte senza dubbio,»
disse Lakon-tay.
«Poche, in proporzione a quelle
che sono vittime del veleno dei serpenti; ma pur sempre raggiungono una bella
cifra. In media sono tremilacinquecento quelli che cadono sotto i denti delle
tigri e delle pantere.»
«E non pensa il governo inglese a
distruggere serpenti e belve? Gli europei sono numerosi nell'India, così mi
hanno detto.»
«Moltissimi si dedicano con
fervore alla caccia degli animali pericolosi. Si calcola che ogni anno vengano
uccisi non meno di centomila serpenti velenosi e circa ventimila fiere. Anzi la
caccia è diventata un vero mestiere per taluni europei, poiché il governo
inglese paga una certa somma per ogni serpente, o tigre, o pantera o lupo
ucciso. So che l'anno scorso ha speso la bagattella di
103.000 rupie.
«E malgrado tanta distruzione non
scemano?»
«Non ancora,» disse Roberto.
«Che perdite!...»
«Se l'India piange, nemmeno il
vostro paese deve ridere. Anche qui serpenti e tigri devono fare dei vuoti
considerevoli fra la popolazione della campagna.»
«Purtroppo, dottore,» rispose
Lakon-tay. «Specialmente le tigri fanno un bel numero di
vittime, per la stupida credenza che quelle belve siano bestie quasi sacre, e
anche pel pessimo armamento dei nostri contadini.»
«Eh!... Badate!... Quello sì che
è pericoloso.»
Con un'improvvisa strappata fece
fare al suo cavallo un brusco scarto.
Un serpente, che pareva
addormentato, si era rizzato come un lampo, tentando di mordere l'animale al
petto, ma mancatogli il colpo, si cacciò subito in mezzo a un folto cespuglio,
prima ancora che il generale avesse il tempo di staccare la carabina che gli
pendeva dall'arcione.
«Un cobra?» chiese il
dottore, afferrando per le briglie il cavallo di Len.
«Un daboia, dottore, uno
dei rettili più pericolosi e anche più traditori. Se ne incontrate qualcuno,
evitatelo subito.
L'avete veduto? Fingeva di essere
addormentato o morto, mentre invece si teneva pronto a mordere il mio cavallo.
Sono perfidi e lesti. Scattano come saette ed è un vero miracolo se si riesce a
sfuggire al loro morso. Pilota, apri gli occhi e tieni pronto il tuo
coltellaccio.»
«Sì, signore,» rispose Kopom.
Cominciarono allora le prime
alture. I cavalli avevano rallentato il trotto, non essendovi più sentieri.
Cespugli enormi, che crescevano
sotto le piante d'alto fusto, tagliavano ad ogni istante il passo, costringendo
il drappello a fare dei lunghi giri.
L'immensa foresta, che poco prima
era secca, diventava a poco a poco umida, quantunque il terreno, come abbiamo
detto, fosse in salita.
Una nebbiolina leggera s'alzava,
accumulandosi sotto il folto fogliame delle piante, carica di miasmi prodotti
dal corrompersi dei tronchi caduti per decrepitezza e dei rami e delle frutta
che imputridivano su quel suolo saturo di acqua.
«Ecco un luogo dove non vorrei
fermarmi a lungo,» disse il dottore. «Quella nebbiolina deve nascondere la
febbre dei boschi.»
«Il tet, dottore,» rispose
Lakon-tay. «È un male ben peggiore della febbre, che ogni
anno fa vere stragi fra i montanari che abitano queste zone pericolose.»
«Tet? Che cosa vuol dire?»
«Che sale, che monta.»
«Una malattia ancora ignota in
Europa.»
«È una paralisi dei nervi di
senso e di moto, che si manifesta generalmente alle estremità inferiori e che dopo
quattro o cinque giorni raggiunge la parte superiore del torace.
L'intelligenza si mantiene
generalmente libera ed intatta fino all'ultimo momento, e la persona colpita
prova l'atroce supplizio di sentirsi morire fibra per fibra, momento per
momento.»
«E non vi è rimedio?,»
«Nessuno, dottore.»
«Affrettiamoci a lasciare questa
foresta. Ma... che cos'hanno i nostri cavalli che continuano a fare degli
scarti e ad impennarsi? Che temano anch'essi il tet?»
«Si sentono mordere le gambe,» disse
il pilota, che da qualche momento guardava attentamente a terra.
«Da chi?»
«Dalle sanguisughe dei boschi,
signore.»
Il dottore abbassò gli sguardi e
vide pullulare per terra, scivolando e balzando, delle vere sanguisughe, più
sottili e più piccole di quelle comuni. Ve n'erano centinaia e centinaia, che
cercavano di aggrapparsi alle gambe dei cavalli.
«È un altro flagello delle nostre
foreste,» disse Lakon-tay. «Specialmente dopo la stagione
delle piogge si moltiplicano spaventosamente, a segno che certe volte non si
può più passare attraverso le selve umide.»
«Che salassi alle nostre gambe,
se non fossimo a cavallo!» esclamò Roberto.
«Tra poco scompariranno: ecco la
foresta asciutta che ricompare. Pilota, dove siamo?»
«Scendiamo nella valle di Korat,»
rispose Kopom. «Là non avremo più da temere le sanguisughe, ma piuttosto le
tigri.»
«Quasi le preferisco,» rispose il
dottore.
«Un bel luogo per cacciare,
signore. Conosco una sorgente dove ogni sera cervi e cinghiali si recano in
gran numero.
Ho cacciato sovente nella mia
gioventù, assieme a mio padre. Se lo desiderate, vi condurrò colà; non
tornerete a mani vuote.»
«Accetto fin d'ora.»
Un sorriso sfiorò le labbra di
Kopom, mentre un vivo lampo gli illuminava le pupille.
Oltrepassata la cima della prima
collina, apparve dinanzi ai loro sguardi una valle che si prolungava tra due
catene di monti.
Era larga parecchi chilometri,
disseminata di immensi alberi del tek che lanciavano le loro cime a
sessanta e più metri ed ingombra qua e là di piccole jungle, formate da bambù
smisurati e da piante spinose, luoghi favoriti dalle tigri e dalle pantere
macchiate e nere.
«Il passo che ci condurrà a
Ka-ho-lai,» disse Kopom.
Fecero una breve fermata per
prepararsi la colazione, poi qualche ora dopo cominciarono a scendere nella
valle.
Kopom aveva raccomandato di avere
le armi pronte e di tenersi lontani dalle macchie, entro le quali poteva
celarsi qualche tigre.
In mezzo ai tek e fra le
boscaglie che coprivano i due margini della valle, salendo fino alle più alte
cime della collina, non si udiva rumore alcuno. Solamente qualche grido
stridente, mandato da qualche tucano, rompeva di quando in quando il silenzio.
Le scimmie invece non si
mostravano.
Kopom, man mano che avanzavano,
guardava sempre con maggior attenzione le foreste e le macchie, e di tanto in
tanto si arrestava per ascoltare. Temeva un assalto improvviso delle fiere o
aspettava qualcos'altro?
Avevano già percorso un paio di
miglia, tenendosi sempre in mezzo alla valle, quando improvvisamente udirono
risuonare, fra i boschi che coprivano i fianchi della montagna più prossima, un
grido strano, quasi metallico, che pareva fosse uscito più da qualche strumento
di ottone che dalla gola d'un animale.
Kopom, udendolo, trasalì.
«Che grido è questo?» chiese il
dottore. «Non è né il barrito d'un elefante in furore, né quel grido acuto che
manda un bufalo quando viene colpito a morte, né l'urlo d'una tigre.»
«Non saprei dirvelo,» disse
Lakon-tay, che appariva un po' sorpreso. «Hai mai udito un
grido simile, Feng?»
«No, padrone,» rispose lo
Stiengo, che ascoltava attentamente.
«E tu, pilota?»
«Solo un rinoceronte furibondo
può averlo mandato,» rispose Kopom.
«Ne ho cacciato più d'uno, eppure
anche nelle loro cariche irresistibili mai li ho uditi lanciare un tale grido.»
«Non so che cosa dire,» rispose
il pilota.
Si fermarono qualche minuto,
sperando di riudire quella nota strana; poi ripresero la marcia.
«Bah!... Sarà stato qualche
uccello di una specie a noi sconosciuta,» concluse
Lakon-tay, «o qualche scimmia. È vero, Kopom?»
Un altro sorriso spuntò sulle
labbra del Cambogiano, ma egli credette meglio non rispondere.
La marcia nella valle, che
diventava sempre più selvaggia, continuò fino a che il sole scomparve e le
tenebre cominciarono a calare.
Verso le nove il pilota diede il
segnale della fermata, assicurando che la fonte si trovava in quei dintorni.
Il luogo scelto per
l'accampamento era ottimo, non essendovi che pochi alberi e nessun cespuglio
dove si potesse nascondere qualche animale pericoloso.
La vera foresta non cominciava
che a quattro o cinquecento passi di distanza e si estendeva su uno spazio
immenso, essendo la valle diventata larghissima.
Prima di alzare le tende, Feng,
armatosi d'un bastone, esplorò il suolo tutt'intorno al campo per allontanare i
serpenti; poi furono accesi due fuochi e messe le pentole di ferro a bollire.
Mentre lo Stiengo e il pilota
preparavano la cena, il dottore con Len e Lakon-tay, andò a
fare raccolta di banane e di manghi, avendo scorto parecchie di quelle piante
sul margine della foresta.
«Io credo che il pilota abbia
esagerato,» disse Roberto mentre tornavano carichi di frutta. «Non si ode alcun
animale qui, ed in quanto alle tigri, le credo ben lontane.»
«Io però non oserei cacciarmi da
solo in queste foreste,» rispose Lakon-tay, «e specialmente
di notte. Quando meno la si aspetta, la tigre compare. Sono animali astuti,
dottore, che assaltano solo a colpo sicuro.»
«Eppure non rinuncio all'idea di
recarmi a visitare la sorgente assieme al pilota.»
«Volete che vi accompagni
anch'io, dottore?» chiese Len.
«No,» disse il generale. «Una
donna si trova troppo impacciata nelle folte foreste e nelle jungle.»
«Non sarebbe prudente, è vero,
generale?» disse Roberto. «La caccia notturna è ben più pericolosa di quella
diurna. Le occasioni non mancheranno per far tuonare la vostra carabina, Len.»
«Ne avremo forse perfino troppe,»
disse Lakon-tay. «Il paese degli Stienghi è ricco di
selvaggina.»
Quando tornarono, la cena era già
pronta. Il dottore mangiò in fretta, cambiò carica alla carabina, si passò
nella fascia un lungo coltellaccio e s'alzò, dicendo al pilota:
«Andiamo, se non hai paura.»
«E la signora?» chiese Kopom.
«Rimarrà al campo.»
Il pilota fece un segno
d'assenso, poi disse: «Seguitemi, signore.»
«Siate prudente, dottore,» disse
Lakon-tay. «Se non vi fossero i cavalli da guardare, vi accompagnerei,
ma ci tengo a non perderli. Desiderate che Feng vi segua?»
«È inutile, generale; d'altronde
la nostra assenza non sarà lunga.»
«In caso di pericolo, sparate tre
colpi a brevi intervalli.»
«Siamo d'accordo: buon riposo.»
Guardò Len che gli sorrideva e
s'allontanò assieme al pilota, il quale si era armato d'uno dei fucili di
ricambio acquistati a Sarawan.
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