Dieci minuti dopo, i due
cacciatori si trovavano nella foresta, la quale non era, almeno sul principio,
così folta come l'avevano creduta, poiché le piante crescevano a gruppi
staccati.
Il pilota, che doveva conoscere
quei luoghi a menadito e che, come la maggior parte dei selvaggi, aveva
l'istinto dell'orientamento, si diresse verso la montagna, quantunque,
trovandosi sotto quelle altissime piante, non potesse scorgerla.
Si era messo dinanzi al dottore,
tenendo il fucile sotto il braccio e la sinistra sulla lunga impugnatura del
suo coltellaccio a lama larga e quadra, tagliente come un rasoio.
Camminava senza parlare, come se
fosse assorto in un profondo pensiero; e si capiva che si teneva in guardia,
perché di quando in quando girava il capo a destra ed a sinistra, curvandosi
ora da una parte e ora dall'altra per meglio raccogliere i più lievi rumori.
La foresta invece era silenziosa,
come se nessun essere vivente la popolasse. Non si udivano né grida di scimmie
notturne, né sibili di serpenti, né stridore di lucertole volanti, che pur sono
così numerose nelle selve dell'Indocina.
Avanzarono così per circa
mezz'ora, girando attorno a macchioni di areche, di tek, di banani
selvatici e di fichi baniani, finché giunsero su un terreno umidissimo,
ingombro di enormi bambù.
Il pilota si arrestò.
«È qui la sorgente,» disse.
«Non vedo alcun animale,» rispose
il dottore. «Dove sono i cervi e i cinghiali che mi avevi promesso?»
«Abbiate pazienza; è ancora
troppo presto e gli animali non hanno lasciato i loro nascondigli.»
«Sei stato altre volte qui?»
«Ci venivo di frequente una
volta, con mio padre che, oltre ad essere un valente costruttore di barche, era
anche un bravo cacciatore.»
«Hai sempre abitato a Sarawan?»
«Sempre?... No... ho girato molto
il Siam e altri paesi ancora... Udite questo mormorio?»
«Sì.»
«È la sorgente. Aprite gli occhi
e tenete pronto il fucile. Questi bambù sono i rifugi delle tigri e delle
pantere nere.»
«Non temere per me.»
Il pilota girò un'enorme macchia
di bambù e giunse ben presto dinanzi ad uno stagno, le cui acque gorgogliavano
come se bollissero.
«Dove ci imboscheremo?» chiese
Roberto.
«Vi devono essere delle buche
qui, che una volta servivano da trappole. Eccone là una che servirà benissimo
per noi.» Tornò verso la macchia e si arrestò dinanzi ad un grosso tamarindo,
che sorgeva quasi isolato fra le canne giganti.
A pochi passi vi era infatti
un'escavazione profonda un metro e mezzo, con parecchi pali aguzzi piantati nel
fondo, e così vasta che un rinoceronte avrebbe potuto trovarvi comodamente
posto.
«Scendiamo,» disse Kopom.
Stava per calarsi, quando quello
stesso grido metallico, che già avevano udito alcune ore prima, ruppe
bruscamente il silenzio che regnava nella foresta.
Kopom trasalì.
«Che bestia sarà questa?» chiese
il dottore. «Ecco la seconda volta che udiamo questo suono. Si direbbe emesso
da qualche strumento. Che quell'animale ci abbia seguiti?»
«Non ne so nulla,» rispose Kopom.
Saltò nella fossa e, fosse caso o
per progetto, lasciò sfuggire la carica del suo fucile. Vedendo il lampo e
udendo lo sparo, il dottore mandò un grido: credeva che si fosse ferito.
«Maledizione!» grugnì Kopom.
«Colpito?»
«No, signore; fortunatamente
avevo la canna abbassata, e la palla s'è conficcata nel terreno.»
«Imprudente! potevi ferirti.»
«Mi rincresce per voi; gli
animali, allarmati da questo sparo, non oseranno accostarsi alla sorgente.»
Come per dargli una pronta
smentita, in quel momento stesso echeggiò invece a breve distanza un
formidabile barrito, che si ripercosse lungamente sotto le piante.
«Un elefante!» esclamò il
dottore, saltando precipitosamente nella fossa.
Una sorda bestemmia sfuggì alle
labbra del pilota.
«È buona selvaggina,» disse il
dottore, un po' sorpreso.
«Troppo pericolosa,» rispose
Kopom con dispetto.
«Non ho paura io.»
«È un solitario, signore, e quei
vecchi elefanti sono cattivi e non si arrestano dinanzi ai colpi di carabina.
Lasciatelo andare, se compare.»
«Sono venuto qui per cacciare e
non già per veder passare la selvaggina. Se lo vedo accostarsi non lo
risparmierò, checché possa accadere.»
«Badate di non aver poi da
pentirvi,» disse Kopom ruvidamente.
«Non sono un cacciatore
novellino.»
«E poi gli elefanti appartengono
al re.»
«Il re è lontano. Eccolo!... Lo
vedi? Che splendido pachiderma!»
Un colossale elefante era
improvvisamente comparso presso lo stagno, dietro ad un gruppo di cespugli, fra
i quali forse si era tenuto nascosto fino ad allora, si mostrava inquieto.
Agitava i suoi enormi orecchi e colla tromba aspirava fragorosamente l'aria.
Certo fiutava l'odor della polvere.
«Miro alla giuntura della
spalla,» disse il dottore. «Non è che a cinquanta metri, e non lo sbaglierò.»
«Vi ripeto di lasciarlo in pace,
signore,» rispose il pilota. «Anche se ferito gravemente, ci caricherà e ci
schiaccerà sotto i suoi larghi piedi.»
«Se hai paura, fuggi; io non lo
lascerò andare.»
«Se vi succede una disgrazia,
tanto peggio per voi.»
«Non occuparti di me.»
Il dottore alzò con precauzione
la carabina, appoggiando la canna sul margine della buca, per meglio mirare.
L'elefante non si era mosso. La
sua enorme massa spiccava nettamente presso lo stagno e si presentava di
fronte. Continuava a dare segni di agitazione alzando ed abbassando la
proboscide, e pestava il suolo colle enormi zampacce, facendo schizzare in aria
larghi spruzzi di fango.
Kopom non aveva nemmeno alzato il
suo archibugio, anzi pareva che non si occupasse in quel momento né del
compagno, né del pericoloso animale.
Guardava da un'altra parte, colle
mani agli orecchi per meglio raccogliere i rumori, facendo di tratto in tratto
un gesto di rabbiosa impazienza e mormorando fra i denti:
«Maledetto elefante!... Guasterà
tutto...»
D'improvviso un lampo illuminò la
buca, seguito da una fragorosa detonazione. Il dottore aveva fatto fuoco.
L'elefante, certamente colpito
dalla palla conica della carabina, fece due o tre passi indietro, mandando un
lungo barrito.
«Fuoco, pilota!» gridò
imprudentemente il dottore. «È toccato!»
Aveva appena finito la frase, che
vide l'enorme pachiderma scagliarsi verso la buca con un slancio irresistibile.
Il grido del dottore l'aveva avvertito della presenza dei suoi nemici: e
caricava all'impazzata, barrendo spaventosamente e colla proboscide alta,
pronto a colpire.
Il dottore con un gesto fulmineo
strappò al pilota l'archibugio. Quantunque non avesse molta fiducia in quella
pessima arma arrugginita, si preparò a servirsene.
L'armò rapidamente e, vedendo
l'elefante che stava per precipitarsi nella buca, fece fuoco a bruciapelo,
quasi sotto la gola.
Il pachiderma, vedendo la fiamma,
si arrestò di colpo, impennandosi, poi, preso da un improvviso terrore, fece un
rapido voltafaccia, fuggendo verso la macchia.
Kopom aveva mandato un urlo di
spavento, credendo che il colosso piombasse nella buca e li schiacciasse.
«Signore!» gridò. «Fuggiamo! Il Sen
ritornerà alla carica.»
«Fuggire!... E dove?»
«Sull'albero, signore.»
«È ferito e forse gravemente.»
«Tornerà, vi dico.»
«Cerchiamo un rifugio dunque.»
L'elefante, reso pazzo dal dolore
prodottogli da quelle due ferite, si era precipitato in mezzo ai bambù della
macchia, barrendo ferocemente. I due cacciatori erano già balzati fuori dalla
buca e si erano slanciati verso il tamarindo, il cui tronco, coperto da piante
parassite, permetteva una rapida scalata.
«Salite, signore,» gridò Kopom.
Il dottore si aggrappò ad alcuni
rotang che pendevano dai rami più bassi, senza dimenticare di portare con sé la
carabina, arma troppo preziosa per essere lasciata a terra.
Kopom si era già afferrato alle
piante parassite e saliva precipitosamente, temendo che l'elefante giungesse in
tempo per afferrarlo.
Non ritenendosi sicuri sui primi
rami, passarono su altri più elevati, tenendosi bene stretti.
Il pachiderma, come Kopom aveva
preveduto, passato il primo momento di terrore causatogli da quella fucilata
che si era veduto sparare quasi sotto la gola, tornava nuovamente alla carica.
Era in preda ad uno spaventevole
accesso di furore. I suoi barriti rimbombavano nella foresta come scoppi di
artiglierie e la sua tromba sferzava con impeto formidabile le piante e le
canne, abbattendole come se fossero fuscelli di paglia.
Rovinò addosso al tamarindo con
tale violenza che la pianta, quantunque fosse grossissima, oscillò
violentemente, crepitando come se fosse lì lì per essere schiantata.
Fu un vero miracolo se Kopom e
Roberto non furono scaraventati al suolo.
«La sradica!» gridò il dottore.
«Non temete,» rispose il pilota.
«I tamarindi sono elastici, ma d'una solidità eccezionale.»
Il colosso, visto che la pianta
non era caduta sotto quel poderoso urto, alzò la tromba e la introdusse fra i
rami, sperando di poter afferrare i due cacciatori e di strapparli dal loro
rifugio.
Vista l'inutilità dei suoi
sforzi, si mise a rompere con furore i rami più bassi, imprimendo alla pianta
nuove e violentissime scosse, per resistere alle quali il pilota e Roberto
erano costretti a tenersi abbracciati al tronco.
«Se ci lascia un momento in pace,
ricomincerò il fuoco,» disse il dottore. «Possibile che non si calmi un
momento? Che cosa ne dici, pilota?»
Kopom non rispose. Non era
l'elefante che in quel momento lo preoccupava. Per la seconda volta ascoltava
attentamente, borbottando fra i denti:
«Che cosa aspettano quegli
stupidi? L'occasione per prenderlo non potrebbe essere migliore.
Se Mien-Ming
m'avesse lasciato fare, questo dannato farang non sarebbe più vivo.
Perché vuole risparmiarlo? Una disgrazia può succedere anche ad un europeo.»
Intanto l'elefante, sempre più
inferocito, raddoppiava i suoi sforzi, impedendo al dottore di ricaricare la
carabina, giacché doveva tenersi ben stretto al tronco per non venire sbalzato
a terra.
Il furibondo pachiderma, dopo
aver strappato tutti i rami che erano a portata della sua proboscide, aveva
ricominciato a investire la pianta.
La sua enorme testa, pari ad un
ariete, cozzava contro il tronco, mentre le sue larghe zanne strappavano lembi
di corteccia e si sprofondavano nel legno. Vi era da temere che, continuando a
quel modo, finisse veramente per atterrare l'albero.
«Pilota!» gridò il dottore.
«Cerca di caricare il tuo archibugio.»
«È impossibile, signore,» rispose
Kopom, che cominciava a diventare inquieto. «Se lascio il tronco, cado.»
«Non si stancherà mai?»
«Ci vuole a terra, signore.»
«E finirà per buttare giù il
tamarindo, se non riusciamo a finirlo.»
«È quello che avverrà, signore.»
«Ah!... Maledetta bestia!...»
Uno scricchiolio sinistro si era
fatto udire, dopo un urto più violento degli altri. Il dottore aveva mandato un
grido, mentre Kopom si era lasciata sfuggire una rauca imprecazione.
A un tratto gli urti cessarono.
L'elefante doveva aver compreso che con una carica furiosa poteva riuscire a
sradicare la pianta.
Si allontanò rapidamente per
prendere lo slancio ed investirla con tutta la massa del suo enorme corpaccio.
«Signore!» gridò Kopom, con
accento di terrore. «Si prepara ad investirci!»
Il dottore stava approfittando di
quel momento di sosta. Introdusse rapidamente una cartuccia nella carabina e
abbassò l'arma.
Il pachiderma si precipitava
innanzi a testa bassa.
Egli fece fuoco, credendo di
arrestarlo in piena volata, ma la nube di fumo non s'era ancora diradata, che
udì uno schianto terribile.
Non ebbe il tempo di riafferrarsi
ai rami e si sentì proiettato in aria. Girò due o tre volte su se stesso, poi
piombò in mezzo ai fasci di bambù che si trovavano a breve distanza e che si
piegarono scrosciando sotto il peso del suo corpo. Gli parve di udire
confusamente delle grida, parecchi colpi di fucile; poi più nulla.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
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«Ebbene, come state, dottore?»
Roberto, udendo la voce armoniosa
di Len-Pra, riaperse gli occhi, guardandosi intorno con
vivo stupore.
Si trovava nella sua tenda,
coricato sopra un soffice cuscino di seta rossa, e la graziosa figlia del
generale gli stava accanto, porgendogli, sorridente, una tazza colma di un
liquido fumante e odoroso.
«Una buona sorsata di tè, signor
Roberto. Ve l'ho preparato io e vi assicuro che vi farà bene.»
Il dottore si alzò a sedere,
continuando a guardare Len e la tenda. Non riusciva a raccapezzarsi.
A un tratto si rammentò
dell'elefante e del capitombolo in mezzo ai bambù.
«Come mai sono qui, Len?» chiese.
«E l'elefante?... Ed il pilota?... Mi sembra impossibile di trovarmi ancora
vivo. Che cosa è successo, Len?»
«Molte cose, dottore, ma prima
bevete questo tè,» rispose la fanciulla.
Il dottore prese la tazza e la
vuotò avidamente.
«Come state? Mio padre vi ha
esaminato e non ha trovato alcuna ferita sul vostro corpo, quantunque quei
briganti facessero un fuoco infernale.»
«I briganti!... Quali briganti?»
chiese il dottore, la cui sorpresa aumentava. «Volete dire l'elefante?»
«Era già morto, dottore,» disse
Lakon-tay, entrando nella tenda, «Non sentite questo
profumo? È un pezzo della sua tromba che cuoce. Siete ancora debole?»
«Ah!... Generale!» esclamò
Roberto, stringendo la mano che gli veniva tesa. «Spiegatemi che cosa è
avvenuto dopo il mio capitombolo.
Mi ricordo vagamente d'aver udito
uno scroscio e veduto l'albero rovinare, e poi... che cosa è successo poi? Chi
mi ha portato qui?»
«Sono avvenute delle cose molto
gravi e per me assolutamente inesplicabili, per ora. Prima di tutto, rispondete
ad alcune mie domande. Come vi sentite?»
«Ho le membra un po' ammaccate,
ma nulla di più.»
«Sfido io! Una caduta di sessanta
piedi! Se non c'erano i bambù lì presso, non so, dottore, se sareste ancora
vivo.»
«E il pilota?»
«Se l'è cavata meglio di voi,»
rispose Lakon-tay. «Invece di lasciarsi cadere, si è tenuto
ben stretto al tronco dell'albero ed i rami, urtando contro il suolo, lo hanno
preservato.»
«E l'elefante non l'ha
stritolato?»
«Non ne ha avuto il tempo.
L'avete colpito mortalmente, a quanto pare, col vostro ultimo colpo di fucile,
e, appena rovesciato l'albero, è caduto anche lui per non rialzarsi più. Aveva
resistito perfino troppo alle vostre palle.
«Sicché il pilota è salvo?»
«Sì, salvo; anzi parliamo di lui,
giacché è lontano. Vi ha dato qualche motivo per sospettare di lui?»
«Nessuno,» rispose il dottore,
facendo un gesto di meraviglia. «Perché mi fate questa domanda?»
«Non aveva dato alcun segnale?
Pensateci bene, dottore.»
«No, ne sono certo.»
«Come si è comportato con voi?»
«Come un uomo premuroso di farmi
fare una buona caccia; anzi mi aveva avvertito del pericolo a cui mi esponevo
affrontando l'elefante.»
«Non avete il più lontano
sospetto che possa avervi teso invece un agguato?»
«No, assolutamente.»
«Come si spiega allora quella
improvvisa aggressione?»
«Di quale aggressione parlate?»
«È vero, voi la ignorate, giacché
quando noi vi abbiamo raccolto eravate svenuto.»
«Spiegatevi, generale,» disse il
dottore, che cadeva di sorpresa in sorpresa.
«Noi avevamo udito i vostri
spari. Ma prima di questi ci aveva impressionato l'udir echeggiare nella
direzione da voi presa quella misteriosa nota. Non mi sembrava naturale che
dovesse ripetersi ad una così notevole distanza, avendola noi udita per la
prima volta a venti o venticinque miglia da qui.
Non so perché, mi venne il
sospetto che fosse invece qualche segnale, e decisi di venire a cercarvi con
Len e Feng.
Eravamo a mezza via, quando ci
giunsero agli orecchi i due primi spari. Affrettammo il passo e giungemmo alla
sorgente nel momento in cui l'albero veniva sradicato e voi cadevate fra le
canne, salutato da una scarica di fucilate.
Vedemmo subito sette od otto
uomini slanciarsi verso i bambù, armati di coltellacci. Chi fossero, non ve lo
saprei dire, perché l'oscurità era troppo profonda in quel luogo.
Compresi però che ce l'avevano
con voi. Scaricammo senza indugio le nostre armi contro quei banditi e li
mettemmo in fuga. Qualcuno era caduto, e fu subito raccolto dai compagni e
portato via.»
«Erano Siamesi?»
«Non lo so: dei briganti forse,
quantunque io abbia il sospetto che si tratti di qualcosa di più grave.
Dottore, non trovate qualche relazione fra il vostro tentato assassinio presso
le rive del Menam, la scomparsa del mio balon e questo nuovo attentato?»
Roberto lo guardò a lungo senza
rispondere.
«Ditemelo,» disse
Lakon-tay.
«Sì,» rispose il dottore. «Vi
sono ormai troppi indizi per poter dubitare. Qualcuno cerca di sopprimermi, e
questo secondo agguato ne è la prova; ma a quale scopo? Io non ho mai avuto
nemici a Bangkok.»
«E poi,» disse Len, che era
diventata pallidissima, «chi oserebbe attentare alla vita d'un europeo?»
«Potremmo tuttavia ingannarci nei
nostri sospetti,» disse Lakon-tay, dopo un breve silenzio.
«Il primo attentato può essere stato commesso da ladri volgari, che speravano
di trovarvi indosso qualche somma rilevante. Il balon può esserci stato
rubato da pirati di fiume che non avevano alcuna relazione coi primi; gli
uomini che vi hanno assalito poco fa possono pure essere dei banditi, operanti
per loro conto e che forse altro non desideravano se non impadronirsi del
vostro fucile e dell'elefante ucciso.»
«Forse,» rispose il dottore, il
quale era tuttavia diventato pensieroso.
«Signor Roberto,» disse la
fanciulla. «Non lasciatevi sorprendere in qualche altra imboscata.»
«Non andrò più a cacciare solo,
ve lo prometto, Len. Che ritornino quei banditi, generale?»
«Non credo, dopo l'accoglienza
che hanno avuto. Orsù, lasciamo che quei bricconi fuggano e andiamo ad
assaggiare un pezzo di tromba d'elefante.
Ve la siete ben guadagnata,
dottore.»
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