Quantunque fossero convinti che
gli autori di quel misterioso attentato non avrebbero avuto il coraggio di fare
un ritorno offensivo, né il generale, né i suoi compagni osarono quella notte addormentarsi.
Passarono quelle poche ore che li
dividevano dall'alba attorno ai fuochi, colle carabine a portata di mano,
gustando la deliziosa tromba dell'elefante e sorseggiando alcune tazze di tè.
Il dottore, che salvo alcune
ammaccature ed un po' di stordimento non aveva riportato alcuna ferita da
quella caduta, che pure avrebbe potuto avere conseguenze gravissime, tenne
buona compagnia ai suoi amici, consumando non poche sigarette della sua
riserva.
Il pilota dal canto suo, per
meglio allontanare tutti i sospetti, non abbandonò il suo posto di guardia
avanzata, imprecando continuamente contro i banditi che avevano osato tendere
un agguato ad un farang, persona quasi sacra e da tutti rispettata nel
Siam.
Solo verso l'alba presero un po'
di riposo, persuasi ormai che quei furfanti, dopo la lezione ricevuta, si
fossero definitivamente allontanati, rinunziando alle loro criminose
intenzioni.
Verso le dieci
Lakon-tay fece levare il campo, ansioso di lasciare quella
valle pericolosa e di raggiungere Ka-ho-lai, dove contava
di fare le sue ultime provviste prima di intraprendere la traversata della
parte più selvaggia e più deserta del Siam centrale e di spingersi verso il
Tuli-Sap.
Cinque ore dopo lasciavano le
montagne, senza aver fatto alcun incontro sgradevole. Stavano per slanciarsi
attraverso i terreni ondulati che dovevano condurli alla città, quando ai loro
orecchi giunse ancora quella nota misteriosa che si era fatta udire nella
vallata.
Il drappello si arrestò subito,
guardando verso le ultime colline che aveva appena lasciato.
«Questo è un segnale!» esclamò
Lakon-tay, corrugando la fronte. «Chi sono quei misteriosi
individui che ci seguono con tanta ostinazione e indicano la loro presenza con
quella nota metallica, che può essere emessa solo da uno strumento di rame o di
bronzo? Ciò m'inquieta. Che cosa ne dici, pilota?»
«Io dico, signore, che quegli
uomini devono avere uno scopo segreto per seguirvi,» rispose Kopom. «Avete qualche
nemico personale?»
«Nessuno, che io sappia.»
«Che cosa vogliono dunque quei
banditi?»
«Che siano gli stessi che mi
hanno derubato del balon?»
Il pilota alzò le spalle.
«Quelli dovevano essere dei
pirati,» disse. «Bah! Si stancheranno presto di seguirci, e non oseranno
mostrarsi nei pressi di Ka-ho-lai.
Affrettiamo la marcia, signore.
Prima del tramonto saremo al sicuro nella città.»
«Ci seguiranno anche nel Siam
centrale?» chiese il dottore.
«Se non hanno avuto il coraggio
di assalirci nella valle, io spero che rinunceranno per sempre alle loro mire.
Probabilmente cercavano di
rubarvi i cavalli e le armi. Avanti, signore. Ka-ho-lai non
è lontana.»
Non udendo più ripetersi quel
misterioso segnale, partirono al trotto, seguiti dai cinque cavalli della
riserva che erano guidati da Feng.
Cominciarono allora ad apparire
piccoli villaggi, qualche pagoda e anche dei campi coltivati. Fra le risaie e
le piantagioni d'indaco e di canne da zucchero, si vedevano numerosi contadini
occupati a coltivare i loro poderi.
La boscaglia si diradava
rapidamente, ma quei vuoti non dovevano prolungarsi oltre
Ka-ho-lai. Più a nord essa avrebbe ripreso il suo impero.
Verso le quattro, la cittadina
comparve improvvisamente su una piccola altura, colle sue due pagode dai
comignoli dorati, i suoi bastioni semidiroccati e le sue rovine antichissime.
Un'ora dopo, con un'ultima
galoppata, il drappello vi fece la sua entrata, e prese alloggio in una comoda
e vasta capanna che Feng, con pochi tical, aveva fatto sgombrare dai
suoi proprietari.
Ka-ho-lai si
può dire che sia una delle ultime città note del regno siamese. Altre ve ne
sono al settentrione, disperse a distanze enormi, essendo il Siam centrale
pressoché deserto.
Non ha importanza che pei suoi
mercati, ai quali intervengono in certe epoche dell'anno dei commercianti
francesi per vendere armi e polvere da sparo, di cui vi è grande ricerca.
Per il resto è una cittadina in
piena decadenza, con un gran numero di rovine antichissime, pagode sfondate,
muraglie diroccate, bastioni crollanti, avanzi d'una città che secoli prima
doveva essere stata floridissima.
Contando di fermarsi un giorno o due,
prima di intraprendere la traversata della regione quasi deserta che li
separava dal lago Tuli-Sap, Lakon-tay
ed i suoi compagni fecero collocare i loro bagagli nella capanna e riparare i
cavalli in una tettoia vicina, ceduta dal proprietario.
Avendo dormito pochissimo la
notte precedente ed essendo ormai chiuso il mercato, rimandarono all'indomani
gli acquisti che avevano intenzione di fare: armi, polvere da sparo, coperte e
tende di ricambio, viveri.
Dopo aver cenato frettolosamente,
prepararono i loro letti, mentre il pilota, dicendo che preferiva dormire
all'aperto, si recava sotto la tettoia occupata dai cavalli, meglio aerata
della capanna.
Il miserabile doveva aver preso
già precedentemente degli accordi col puram. Ed infatti non era
trascorsa ancora un'ora da quando il generale ed i suoi compagni si erano
addormentati, che egli scivolò furtivamente fuor dalla tettoia, non senza
essersi prima armato del suo coltellaccio birmano.
Osservò prima se la porta della
capanna era chiusa e se il lume era stato spento, poi, certo che tutti
dormivano, scavalcò una stecconata e si trovò nella via.
Vide subito, quantunque la notte
fosse piuttosto scura, essendo il cielo coperto da grosse nuvole, un uomo
appoggiato ad una casupola che sorgeva di fronte a quella del generale.
«Deve essere uno di loro,»
mormorò Kopom. «Comunque è meglio che prima me ne assicuri.»
Si mise fra le labbra una foglia
che aveva strappato ad un arbusto ed imitò il sibilo del serpente amadriade.
L'uomo che stava fermo presso la
casa si staccò sollecitamente dalla parete e mosse verso Kopom, dicendogli:
«Ti aspettavo.»
«Dov'è il padrone?» gli chiese il
pilota.
«Si è accampato fuori città,
sull'orlo di una piccola jungla. Non osa mostrarsi qui, anzi questa
notte stessa ripartiremo.»
«Conducimi subito da lui.»
«E il generale?»
«Dormono tutti; non
t'inquietare.»
Uscirono dalla borgata senza
incontrare alcuno, attraversarono una piantagione di canne da zucchero e dopo
venti minuti giunsero presso un immenso campo di bambù altissimi e spinosi.
Nelle tenebre si vedevano agitarsi delle ombre umane e dei cavalli.
La guida mandò un fischio, ed un
uomo sorse da terra, facendosi rapidamente innanzi.
«L'hai trovato?» chiese con voce
aspra.
«Te lo conduco,» rispose la
guida.
«Eccomi, signore,» disse Kopom,
inchinandosi dinanzi a Mien-Ming.
Il puram, come al solito,
non pareva fosse di buon umore, perché disse subito con accento furioso:
«È dunque protetto da qualche
genio quel maledetto farang, per sfuggire sempre ai nostri agguati?»
«Non so, signore, se goda qualche
speciale protezione,» rispose Kopom. «So solo che egli è ancora vivo, e che
malgrado quel capitombolo sta bene quanto me e te.»
«Stupido! Dovevi impedirgli di
assalire l'elefante. Senza quel dannato bestione, a quest'ora sarebbe a bordo
di qualche giunca, ben legato, in viaggio per la Birmania o pel Tonchino.»
«Mi ero provato a trattenerlo, ma
non mi ha voluto ascoltare.»
«Ha nessun sospetto
Lakon-tay?»
«Nessuno, mio signore. Crede che
gli uomini che hanno cercato di catturarlo fossero dei banditi delle foreste.»
«Sai che ho perduto due dei miei
e che siamo rimasti solo in nove? Lakon-tay, Feng e
Len-Pra tirano come i farang e non sbagliano mai.»
«Specialmente
Len-Pra,» disse maliziosamente Kopom.
«Sì, lo so,» rispose
Mien-Ming a denti stretti. «Che non riesca a sbarazzarmi di
quel rivale? Len-Pra l'ama, è vero?»
«Mi sembra di sì, signore, e se
io fossi al vostro posto, getterei da parte gli scrupoli e lo farei
avvelenare.»
«No, non oso più ucciderlo,
specialmente ora che si trova sotto la protezione di
Lakon-tay, e quasi sono lieto che sia sfuggito alla morte.
Un solo sospetto mi perderebbe.
A Bangkok sarebbe altra cosa.»
«Qui siamo in un paese quasi
selvaggio.»
«Ma a
Lakon-tay potrebbe sorgere qualche sospetto, e allora che
cosa accadrebbe di me? Se ne immischierebbero le potenze estere, e tu sai che
non sono troppo tenere verso di noi.
A me basta catturarlo, imbarcarlo
per il Tonchino o per la Cina, insomma allontanarlo.»
«E Len-Pra?»
«Scomparso il farang,
saprei ben io conquistare il suo cuore ed imporle la mia mano. Lascia che
tornino a Bangkok con o senza il driving-hook e poi
vedrai.
Occupiamoci del farang,
che m'interessa più di tutti gli elefanti bianchi dell'Indocina. La tua
fortuna, ricordalo, dipende dalla scomparsa di quell'uomo.»
«Sono pronto a ucciderlo.»
«Per venire presto o tardi
catturato, e poi torturato per farti strappare delle confessioni e rovinare
anche me? No, tu non devi rivelare il nostro gioco, anzi devi mostrarti sempre
devoto a Lakon-tay, per meglio ingannarlo. Dove vanno ora?»
«Al
Tuli-Sap.»
«Conosci quel lago?»
«Perfettamente, signore.»
«Ed io non meno dite. Se
provassimo a catturare il farang nelle foreste?»
«Stanno tutti in guardia ora, e
l'europeo non si allontanerà più dal campo. Forse sulle rive del lago si
potrebbe tentare il colpo. Lasciamo loro il tempo di riprendere fiducia.»
«Sai dove si trovano le rovine
della pagoda di Kai-hoa?»
«Sì, padrone.»
«Là noi rinnoveremo il colpo. Ho
già il mio piano, e col lago vicino faremo presto ad imbarcarlo pel Mekong.»
«E se non riuscissimo?»
Un lampo terribile balenò negli
occhi obliqui del Cambogiano.
«Allora,» disse con rabbia
concentrata, «non risparmierò più nessuno, e vedremo se i profanatori della
città del Re lebbroso sfuggiranno alla rabbia dei miei compatrioti. Ah,
Len-Pra! Ti preferisco morta, che moglie di quell'odiato farang.
Va': ci rivedremo alle rovine di
Kai-hoa.»
Kopom, spaventato da
quell'improvviso accesso di furore, non si fece ripetere l'ordine due volte.
Fece un inchino e s'allontanò velocemente, rientrando poco dopo nella borgata.
«Gli affari minacciano di
guastarsi,» mormorava, facendo dei gesti che tradivano un vivo malumore. «Se
non riesco questa volta a dargli nelle mani il farang, chissà a quali
eccessi si lascerà trascinare il puram. Bah! Non disperiamo: la mia
stella non è ancora tramontata, ed il berretto di mandarino me lo vedo danzare
ancora dinanzi agli occhi.»
Mezz'ora dopo russava beatamente,
accanto ai cavalli, sognando ricchezze favolose e onori quasi reali.
Il giorno appresso
Lakon-tay ed i suoi compagni s'occuparono di completare il
loro armamento e le loro provviste, aiutati in ciò dal governatore della
cittadina che si era messo a loro disposizione.
Non riuscì loro difficile
procurarsi alcune buone carabine e qualche ottimo fucile da caccia, armi
portate là qualche mese prima da un negoziante francese del Tonchino, e anche
della polvere da sparo di eccellente qualità.
Le provviste poi furono
accuratamente imballate entro sacchi di tela spalmati di caucciù, affinché le
piogge non le danneggiassero.
Alle quattro pomeridiane il
drappello, seguito dai cinque cavalli di ricambio ben carichi, lasciava la cittadina
puntando verso il nord-est, nella cui direzione si trovava
il Tuli-Sap.
Il pilota, che diceva sempre di
conoscere la regione e che si era anzi opposto all'idea di prendere una guida,
si era messo alla testa della piccola carovana, e bisognava credere che quel
furfante avesse già altre volte percorso il Siam centrale, poiché non esitava
mai sulla via da prendere.
Quella stessa sera già si
trovavano a più di venti miglia da Ka-ho-lai, in mezzo alle
foltissime jungle che occupano una buona parte della regione compresa fra gli
alti corsi del Menam e del Mekong.
Si accamparono come al solito,
accendendo parecchi fuochi per tenere lontane le fiere e dividendosi i quarti
di guardia, dai quali però Len fu esclusa nonostante le sue proteste.
L'indomani ed i giorni seguenti
continuarono la marcia verso il nord-est, ora attraversando
jungle dove i cavalli faticavano assai ad aprirsi il passo, ora foreste immense
formate per la maggior parte di tek giganteschi, ed ora regioni
paludose, senza mai incontrare né gruppi di capanne, né abitanti.
Di quando in quando li coglievano
degli acquazzoni furiosi, i quali tramutavano i terreni in vaste pozzanghere,
che il sole, sempre ardentissimo, dopo poche ore asciugava perfettamente.
Per cinque giorni continuarono la
marcia avanzando in regioni sempre più deserte e selvagge, poi al sesto si
arrestarono in piena foresta per riposarsi ventiquattro ore.
I cavalli soprattutto avevano
bisogno d'una sosta, avendo le zampe rovinate dalle sanguisughe che
strisciavano a battaglioni su quei terreni saturi d'umidità.
«Ne approfitteremo per procurarci
un po' di carne fresca,» disse Lakon-tay. «Già da un po'
non viviamo che di pesce secco e di carne salata. In queste foreste la
selvaggina non scarseggerà.»
La proposta, come si può ben
immaginare, fu accolta con gioia, soprattutto da Roberto, la cui passione per
la caccia non era punto diminuita, malgrado la brutta avventura toccatagli
nella valle. D'altronde più nessuno li minacciava ed avevano quasi dimenticato
quei misteriosi banditi che avevano tentato di assalirli.
Per precauzione circondarono
l'accampamento con una cinta di bambù incrociati, anche per impedire ai cavalli
di allontanarsi e di cadere sotto le unghie di qualche tigre.
Fecero colazione presso la riva
d'un torrentello, che scorreva a pochi passi dall'accampamento; poi il
generale, il dottore e la giovane presero le loro carabine, risoluti a non far
ritorno a mani vuote.
«Veglia sui nostri cavalli,»
disse Lakon-tay al suo fedele servo, prima di allontanarsi.
«Non temete, padrone,» rispose
Feng.
«E noi, badiamo di non
smarrirci,» aggiunse poi il generale, rivolgendosi al dottore. «È facile
perdersi in queste foreste, e faremmo bene a fare qualche incisione sugli
alberi, sempre alla nostra sinistra. Così si regolano i boscaioli ed i
cercatori di polvere d'aquila.»
Il dottore dovette ben presto
convincersi che quella precauzione era indispensabile e anche saggia.
Infatti non avevano percorso
trecento metri, che si trovarono in mezzo ad un vero caos di vegetali, i quali
permettevano a malapena il passaggio ad un quadrumane, tanto crescevano uniti e
tanta era la moltitudine delle piante parassite che s'attorcigliavano attorno
ai tronchi e s'aggrovigliavano ai rami, per poi pendere fino al suolo in
festoni così enormi da resistere a tutti gli sforzi.
I fichi baniani estendevano le
loro foglie smisurate in tutte le direzioni, incrociandole in mille guise con
quelle non meno gigantesche degli areca e dei betel, mentre tutt'intorno
si ammassavano immensi cespugli di pepe selvatico e masse di rotang, fra gruppi
di sagù, di alberi del sandalo, di piante gommifere d'ogni sorta, che formavano
delle muraglie di verzura quasi impenetrabili.
Al suolo centinaia e centinaia di
tronchi imputridivano, coperti da muschi giallastri e da muffe, fra cumuli di
fogliame e di frutta in decomposizione, esalanti miasmi pericolosi.
In mezzo a tutti quei vegetali,
miriadi di lucertole volanti si slanciavano fra i rami, mentre sul terreno
impregnato d'umidità guizzavano battaglioni di sanguisughe avide di sangue, che
invano si accanivano contro i grossi stivali dei cacciatori.
Di quando in quando il dottore e
Lakon-tay, che aprivano il passo a
Len-Pra, incappavano in certe tele di ragno così
resistenti, che non sempre cedevano al primo urto e s'appiccicavano
maledettamente alle loro vesti, reti tese da certi ragni grossissimi i quali
estraggono dal proprio corpo un filo di seta che non è meno solido di quello
prodotto dal baco da seta.
«Per mille diavoli!» esclamava di
tratto in tratto il dottore, che menava colpi disperati su quei vegetali e
sudava come se si trovasse in un forno. «Non potremo andare molto lontano se la
continua così.»
Fortunatamente, dopo un quarto
d'ora trovarono nella foresta un solco larghissimo, fiancheggiato da alberi e
da ammassi di rami.
«La pista di qualche banda di
elefanti,» disse Lakon-tay, fermandosi. «Quei colossi si
sono aperti un comodo passaggio, di cui approfitteremo.»
«Malgrado la brutta avventura
toccatami, non mi spiacerebbe trovarmi nuovamente di fronte a uno di quei
giganti,» disse il dottore.
«È una pista vecchia,» rispose il
generale, dopo aver osservato i cumuli di rami. «Le foglie sono appassite e da
parecchio tempo.»
«Generale, torneremo
all'accampamento a mani vuote? Comincio a temerlo.»
Come per dargli una smentita, in
quello stesso momento sulla loro destra udirono un grido stridente.
«Che cos'è?» chiese
Len-Pra, armando rapidamente la sua carabina.
Il generale corrugò la fronte.
«Pessima selvaggina, che non fa
per noi e che sarà meglio evitare.»
«Non sarà già una pantera!» disse
il dottore.
«No, ma è un animale forse più
pericoloso, se colui che esso aggredisce tenta di difendersi.»
«Sicché l'uomo che lo trova sui
suoi passi deve lasciarsi sbranare tranquillamente ?»
«Non corre pericolo se non oppone
resistenza.»
Un altro grido, più forte e più
vicino del primo, ruppe il profondo silenzio che regnava nella folta foresta.
«Sì, è un thu-vac,
e forse ci ha scorti e viene a misurare con noi la forza dei suoi muscoli.
Preferirei che ci risparmiasse una partita di lotta.»
«Chi verrà a offrirci un simile divertimento?»
chiese il dottore, che non riusciva a comprendere.
«È un divertimento che talvolta
diventa pericoloso, e vi consiglio di lasciarvi atterrare colla migliore buona
grazia del mondo.»
«Mi direte almeno chi sarà questo
lottatore, perché non vi siete ancora spiegato.»
«Lo dicevo io che doveva averci
scorti: eccolo che s'avanza. Non temete: lasciatevi atterrare e non farà male a
nessuno, I thu-vac sono sempre di buon umore.»
Il dottore si voltò vivamente,
udendo un fruscio di fronde, e vide avanzarsi una scimmia alta più d'un metro e
mezzo, di forme massicce, con due braccia grosse e muscolose. Aveva un aspetto
ferocissimo, con quei suoi occhietti neri incavati e quella sua larga bocca,
armata di denti aguzzi e solidi, che gli andava da un orecchio all'altro.
«La scimmia che ride!» esclamò
Roberto, gettandosi dinanzi a Len-Pra per proteggerla.
«No, non è un lu-huoi;
è un thu-vac, ossia una scimmia lottatrice.»
«La freddo con una fucilata in
mezzo al petto.»
«Non commettete una simile
imprudenza, dottore,» s'affrettò a dire Lakon-tay. «Forse
non è sola, e le sue compagne non tarderebbero a vendicarla. Lasciate che si
accosti, anzi deponete il fucile.»
Il quadrumane si era fermato a
pochi passi dai cacciatori, guardandoli con una certa curiosità, cercando
probabilmente colui che poteva opporre una valida resistenza. Parve che la
pelle bianca del dottore gli facesse un certo effetto, perché si diresse subito
verso di lui, dondolandosi comicamente e soffregandosi il villoso petto per
meglio esercitare i muscoli.
«Come è brutto questo scimmione!»
esclamò Len-Pra. «Signor Roberto, guardatevi e non
fidatevi. Ce l'ha con voi.»
«Lasciate che s'accosti,» rispose
il dottore, rassicurato pienamente dalle parole di
Lakon-tay. «Se vuol provare a misurarsi con me, faccia
pure.»
«E poi, noi saremo pronti ad
intervenire con due colpi di carabina,» disse il generale.»
Il thu-vac
si fermò dinanzi a Roberto, guardandolo attentamente, poi si lasciò sfuggire un
grande scoppio di risa, aprendo la bocca da un orecchio all'altro e tenendosi
il ventre colle mani.
Evidentemente quella pelle bianca
era la causa del suo fragoroso accesso d'allegria.
Ad un tratto però assunse un
aspetto feroce, allungò le braccia e tentò di afferrare il dottore, il quale
invece si ritrasse lestamente, cercando di atterrarlo con uno sgambetto che non
ebbe però il desiderato successo.
«Padre!» esclamò
Len-Pra, spaventata.
«Lascia fare,» rispose il
generale.
Il thu-vac,
soddisfatto forse dell'abile mossa del suo competitore, tornò a stropicciarsi
le braccia, poi, con uno slancio fulmineo, si gettò sull'avversario,
afferrandolo strettamente pei fianchi e scuotendolo ruvidamente.
Il dottore, che nella sua
gioventù era stato un lottatore non disprezzabile, si provò a resistergli, ma
comprese subito che sarebbe stata una follia tener testa a quel quadrumane, che
sviluppava una forza enorme.
E infatti non erano trascorsi
cinque secondi, che si trovò a terra colle gambe in aria.
Il thu-vac
lanciò un grido stridente, un grido di vittoria; poi, contentissimo di aver atterrato
l'avversario, si allontanò tranquillo, dondolandosi sempre comicamente, e
scomparve nel fitto della boscaglia.
Il dottore si era subito
rialzato, fregandosi i fianchi.
«Ah! diavolo!» esclamò. «Che
stretta! Ci vorrebbe un gigante per lottare con queste scimmie.»
«Vi ha fatto male, signor
Roberto?» chiese premurosamente Len-Pra.
«Mi ha stretto un po' forte, anzi
troppo forte, tanto che credevo mi stritolasse le costole, ma niente di più.
Sono ben strane quelle scimmie, in fede mia!»
«E come avete veduto, non
pericolose, quando non si irritano,» rispose Lakon-tay. «I
nostri montanari quando le incontrano non si dànno nemmeno la cura di evitarle.
Si lasciano atterrare e tutto finisce lì.»
In quel momento un urlo terribile
echeggiò a breve distanza, seguito da un miagolio rauco, che pareva uscito da
una canna di metallo, e da uno spezzarsi furioso di rami.
«Che cosa succede?» chiese il
dottore, raccogliendo rapidamente la carabina.
«Qualcuno ha assalito il thu-vac,»
rispose Lakon-tay. «Questo è il suo grido di guerra.
Venite!»
|