Il potente quadrumane, nel
ritirarsi, aveva aperto un solco abbastanza largo nella muraglia di verzura per
permettere ai due cacciatori e alla fanciulla di penetrare nella fitta
boscaglia senza aver bisogno di far uso dei loro coltellacci.
In mezzo a quel caos di vegetali,
che proiettavano un'ombra fittissima, perché le immense foglie dei sagù, degli
areca e dei banani selvatici intercettavano i raggi solari, doveva avvenire un
lotta formidabile. Si udivano urla strozzate, suoni rauchi, scricchiolii di
rami e scrosciare di foglie secche. Chi poteva aver assalito quel poderoso
quadrumane, dotato di una forza così straordinaria?
Procedendo cautamente e nel più
profondo silenzio, il generale, Roberto e la bella siamese giunsero in breve
all'estremità del solco aperto dal thu-vac, e
sboccarono in un piccolo spiazzo, coperto, a venti metri di altezza, da foglie
mostruose che impedivano quasi alla luce del sole di penetrare.
In quella semioscurità, due
animali lottavano con furore, rotolandosi al suolo, urlando spaventosamente: il
thu-vac ed una superba tigre reale.
Quest'ultima, evidentemente
spinta dalla fame, aveva osato assalire il quadrumane fidando nella propria
agilità e nella robustezza delle unghie; invece aveva trovato un avversario
degno di lei.
Probabilmente l'aveva assalito a
tradimento, sperando di abbatterlo di colpo, e, sia che avesse preso male lo
slancio o che il thu-vac l'avesse scorta a tempo,
era stata afferrata dalle braccia potenti del quadrumane.
«Ecco che ha trovato da
divertirsi, mormorò il dottore. Giacché al thu-vac
piace lottare, atterri la tigre se ne è capace. Io non vorrei trovarmi al suo
posto.»
«Ed io nemmeno al posto della
tigre,» rispose sottovoce Lakon-tay.
«Potrebbe riuscire a vincerla?»
«Ne sono convinto.»
«E in quale stato si troverà dopo
la vittoria?»
«In pessimo stato di certo; la
tigre non si lascerà stritolare senza distribuire in abbondanza colpi
d'artiglio.»
«Me ne accorgo,» rispose il
dottore.
E infatti la belva non lesinava le
unghiate. Quantunque dovesse essere quasi soffocata e dovesse sentirsi spezzare
ad una ad una le costole, si dibatteva furiosamente per sottrarsi a quella
stretta irresistibile e rigava profondamente la pelle del quadrumane,
strappandogli ad un tempo lembi di carne e fiocchi di pelo.
Il thu-vac,
sotto quei colpi, urlava spaventosamente e non allargava le braccia, anzi
stringeva con maggior vigore, facendo scricchiolare le ossa dell'avversaria.
Una zampata gli aveva strappato
mezza pelle del volto assieme ad un occhio e a buona parte del naso; una
seconda gli aveva aperto una ferita orribile sulla spalla destra, che metteva a
nudo parte della scapola, e una terza gli aveva straziato il petto.
Pur grondante di sangue e così
atrocemente conciato, il quadrumane, convinto della vittoria finale, non si
lasciava scappare la belva e raddoppiava le strette per fracassarle la spina
dorsale.
Era però caduto al suolo e si
rotolava fra le radici e le foglie secche, ora rimanendo sotto ed ora sopra la
tigre.
La lotta non doveva durare molto.
La belva, coi fianchi semifracassati, i polmoni compressi dalle dita di ferro
del thu-vac che s'affondavano nel pelame, facendo
penetrare le unghie nella carne, aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite e
rantolava colla bocca spalancata, vomitando getti di schiuma sanguigna.
I colpi di zampa diventavano
sempre più radi e non cadevano più col vigore iniziale. Già la morte della
fiera pareva imminente, quando da una macchia vicina si slanciò fuori, con un
balzo fulmineo, una seconda tigre, di dimensioni maggiori della prima.
«In guardia!» sussurrò
Lakon-tay, armando precipitosamente la carabina. «Ecco un
vicino troppo pericoloso, che potrebbe prendersela anche con noi.»
La belva, che doveva essere un
maschio, a giudicare dalle forme più muscolose, si arrestò un momento in mezzo
allo spiazzo, poi con un secondo slancio si precipitò addosso al thu-vac,
nel momento in cui questi si voltava, cacciandosi nuovamente sotto
l'avversaria. Con un tremendo colpo d'artiglio, il tigre strappò quasi l'intera
cotenna del povero lottatore, mettendogli a nudo il cranio.
«Perbacco! Che pettinata!»
mormorò Roberto.
Il thu-vac
mandò un urlo orribile, che si propagò lungamente sotto le volte di verzura.
Aperse le braccia lasciando
sfuggire l'avversaria e tentò di rizzarsi in piedi per far fronte a quel nuovo
nemico. Il tigre aspettava quella mossa per dargli il colpo mortale: e come
glielo diede! Gli strappò addirittura la gola, squarciandogli le vene del
collo, poi chiuse la bocca attorno al cranio del moribondo, stritolandoglielo.
S'udì un crac sinistro, ed il
povero lottatore cadde per non più rialzarsi.
«Che belve terribili,» mormorò il
dottore. «Generale, lasciamole godersi la loro vittoria.»
«È quello che stavo per
proporvi,» rispose Lakon-tay. «Quella non è la selvaggina
che cercavamo.»
Mentre il tigre s'appressava alla
compagna che brontolava sordamente, stesa fra le foglie, come se fosse incapace
di rimettersi in piedi, i due cacciatori e Len si ritrassero silenziosamente,
ansiosi di riguadagnare il sentiero aperto dagli elefanti.
Disgraziatamente il dottore, che
era l'ultimo e si guardava alle spalle, temendo di vedersi piombare addosso il
vincitore, non fece attenzione ad un ramo basso e lo urtò colla canna della
carabina.
Quel rumore, quantunque lieve,
non sfuggì all'udito del tigre, il quale rispose con un rauco miagolio.
«Siamo stati scoperti,» disse
Lakon-tay, voltandosi rapidamente e gettandosi dinanzi a
Len. «Non muovetevi, dottore!»
Dal luogo dove si trovavano,
potevano ancora scorgere attraverso i rami e le foglie il piccolo spiazzo e
anche le due tigri.
Il maschio non si trovava più
presso la compagna, che gemeva sempre, distesa al suolo.
Aveva fatto alcuni passi innanzi,
accostandosi al solco aperto dal thu-vac, e si
teneva ritto a quindici soli passi dai cacciatori, cogli orecchi tesi, la testa
alta, guardando verso i cespugli.
«Ci ha scorti,» disse
Len-Pra.
«O fiutati,» rispose il dottore.
«Ci assalirà?»
«Può darsi; ma noi sosterremo il
suo attacco, è vero, generale?»
«È solo, e non mi pare che la sua
compagna, dopo la terribile stretta del thu-vac, sia
in grado di poterlo aiutare. Tuttavia aspettiamo, e se possiamo ritirarci senza
impegnare la lotta, sarà meglio per noi.»
Il tigre conservava una
immobilità assoluta; solamente la sua bella coda inanellata si agitava
mollemente, sfiorando il suolo. Pareva che cercasse di raccogliere qualche
nuovo rumore che lo confermasse nei suoi sospetti.
«Generale,» mormorò il dottore,
che tormentava il grilletto della carabina. «Guadagniamoci quella splendida
pelle. L'animale si presenta bene per un buon tiro. Sono sicuro di colpirlo al
cuore.»
«E se, malgrado la ferita, ci
piombasse addosso? Hanno una vitalità straordinaria quelle belve.»
«Non sbaglierò.»
«Ed io tiro con voi, dottore,»
disse Len-Pra, alzandosi sulle ginocchia. «Sarebbe un
peccato lasciarci sfuggire una così bella occasione.»
«Io rimarrò di riserva,» disse il
generale. «Badate di non mancare la belva.»
Il dottore e la giovane alzarono
i fucili, mirando con estrema attenzione, ma il tigre, sia che i suoi occhi
acuti avessero scorto, anche attraverso il fitto fogliame, lo scintillio delle
due canne, sia che avesse intuito il pericolo che lo minacciava, con uno scatto
improvviso si gettò dietro un cespuglio, scomparendo agli sguardi di Roberto e
di Len-Pra.
Quasi nello stesso tempo la
femmina, che pareva avesse ricuperato improvvisamente le sue forze, si rialzò
bruscamente, balzando leggera verso l'estremità del solco aperto poco prima dal
povero lottatore.
«Che gioco è questo?» si chiese
il dottore, punto rassicurato da quella manovra, e rialzando la carabina. «Il
maschio che fugge e la moribonda che prende il suo posto! Generale, ci capite
qualche cosa voi?»
Lakon-tay
corrugò la fronte e fece un mezzo giro a sinistra, scrutando il folto fogliame.
«Doppio attacco,» diss'egli, «e
che impegna anche la riserva. Come sono astute queste dannate belve!»
«O movimento aggirante?» chiese
Roberto.
«Vera tattica guerresca, dottore,
e senza aver fatto alcuna scuola di guerra.»
«A meno che le tigri non ne
abbiano una!»
«Non scherzate, dottore. Siamo
minacciati da due lati.»
«Faremo fronte d'ambo le parti.
Voi due occupatevi del maschio, mentre io cerco di spedire all'altro mondo la
femmina. Attenti soprattutto alle sorprese.»
«Sono generale,» rispose
Lakon-tay, sorridendo.
La tigre si era a poco a poco
avanzata fino a trenta passi dal gruppo formato dai due cacciatori e dalla
giovane cacciatrice, fermandosi presso un folto cespuglio.
La povera bestia, che aveva
provato le strette formidabili del quadrumane, non pareva in grado di tentare
un fulmineo assalto. I suoi fianchi, già compressi dalle braccia del thu-vac,
battevano febbrilmente e dei rauchi brontolii le uscivano dalla gola. Doveva
avere parecchie costole fracassate; pure era ancora in grado di affrontare una
nuova lotta.
Scorgendo i cacciatori si
accovacciò, guardando con curiosità quei nuovi nemici, risoluta, a quanto
sembrava, a sacrificarsi per salvare il compagno.
I suoi sguardi si fissarono
particolarmente sul dottore. Abituata certamente a trovarsi di fronte degli
uomini dalla pelle scura, sembrava non poco sorpresa di vedersi dinanzi un uomo
che aveva la pelle bianca.
Il dottore, che aveva messo un
ginocchio a terra, si prestava a quella investigazione con una calma
straordinaria, che indicava un coraggio eccezionale e soprattutto un sistema
nervoso molto saldo.
Aveva abbassato nuovamente la
carabina e cercava un buon punto per fare un colpo superbo, mentre Lakon-tay
e Len-Pra sorvegliavano attentamente le macchie di destra,
dove supponevano si celasse il maschio.
Il dottore stava per far fuoco,
quando la belva, che si era raccolta su se stessa come se volesse tentare un
salto disperato, volse pian piano la testa in altra direzione.
«Generale,» disse Roberto. «Il
pericolo sta a sinistra! Il maschio ci ha giocati. Guardatevi!»
Poi, senza attendere altro,
premette risolutamente il grilletto e fece fuoco.
«Bel colpo, dottore!» esclamò
Len-Pra.
Fu veramente un colpo magnifico.
La tigre, colpita al capo, si rizzò improvvisamente, come toccata da una
scarica elettrica, mandando un rauco miagolio, poi cadde pesantemente al suolo
senza agitarsi. La palla l'aveva fulminata.
Quasi nello stesso momento si udì
uno scricchiolio di rami e sì vide balzare in mezzo allo spiazzo il maschio.
Vedendo la compagna morta, mandò
quel grido impressionante, spaventevole, che una volta udito non si dimentica
più mai: haa-oug! Poi si raccolse su se stesso e
scattò improvvisamente.
Lakon-tay,
vedendolo attraversare lo spazio con velocità fulminea, fece fuoco, sperando di
arrestarlo al volo.
Il proiettile colpì il tigre al fianco
destro, fracassandogli forse qualche costola; ma non era sufficiente per
arrestare una tale belva, che al pari dell'orso grigio dell'America del nord
può sfidare parecchie palle.
Il tigre cadde a soli dieci passi
dal cespuglio che riparava i cacciatori, ma per riprendere quasi subito lo
slancio.
Il momento era terribile e il
pericolo gravissimo, tanto più che Lakon-tay si trovava
coll'arma scarica e il dottore non aveva terminato di ricaricare la propria
carabina.
Vi era Len-Pra.
La coraggiosa fanciulla, vedendo che la belva si preparava a scattare, si rizzò
dietro al padre e al dottore che si erano gettati dinanzi a lei per
proteggerla, puntò la pesante carabina e mirò freddamente, con calma
straordinaria.
Doveva avere dei nervi ben solidi
quella brava siamese, per conservare un tale sangue freddo dinanzi a quella
fiera, che è la più tremenda di quante ne esistano.
S'udì una detonazione secca ed il
tigre fu veduto rizzarsi bruscamente come un cavallo che s'impenna sotto un
improvviso colpo di sperone, poi cadere.
«Grazie,
Len-Pra,» disse il dottore, tergendosi il freddo sudore che
gli bagnava la fronte. «Grazie, coraggiosa fanciulla: vi dobbiamo la vita.»
La giovane siamese arrossì di
piacere, mentre lasciava cadere al suolo l'arma ancora fumante di cui si era
così ben servita in quel momento terribile, e guardò sorridendo il dottore, che
appariva estremamente commosso.
Lakon-tay,
che era diventato pallidissimo, strinse fra le braccia la figlia, dicendole con
voce quasi tremante:
«Tu sei ben degna di tuo padre,
Len-Pra. Hai nelle vene sangue di guerrieri.»
«Un semplice colpo di fucile
sparato a tempo,» disse la giovane, ridendo.
«Che nemmeno un vecchio cacciatore
sarebbe stato capace di sparare,» rispose il generale.
«No,» disse Roberto, «nessuno
avrebbe potuto avere un tale sangue freddo, ve lo dico io,
Len-Pra.»
«Ecco un elogio che non scorderò
mai, perché detto da un uomo bianco,» disse la siamese.
«Un elogio che vi meritate, Len;
se siete la più bella fanciulla che io abbia veduto nel Siam, siete pure la più
valorosa, e le donne d'Europa potrebbero ben invidiarvi.»
Il generale, che pareva più
commosso ancora del dottore, guardava i due giovani cogli occhi umidi.
Aveva compreso ormai che non era
più solo una dolce amicizia la loro; un affetto ben più tenace, ben più
ardente, ormai univa il giovane europeo e la figlia delle regioni tropicali.
Vedendoli guardarsi con aria
imbarazzata, ma cogli occhi ardenti, credette opportuno intervenire.
«Andiamo a vedere le tigri,
dottore,» disse. «Sono due belve superbe, ve l'assicuro.»
Mentre si volgeva per raggiungere
lo spiazzo dove le due fiere giacevano a pochi passi l'una dall'altra, Roberto
si chinò verso la fanciulla.
«Vi amo, Len,» le sussurrò
all'orecchio.
La giovane abbassò gli occhi,
arrossì, poi rispose con un filo di voce:
«Sarebbe un sogno troppo bello,
dottore. Io amata da un europeo!»
Due lagrime le tremolavano sotto
le lunghe ciglia.
«Venite,
Len-Pra,» disse Roberto. «Vediamo dove avete colpito il
tigre che contava di banchettare colle nostre carni.»
Attraversarono l'ultimo tratto
del sentiero aperto dal povero lottatore e giunsero sullo spiazzo.
Il tigre era caduto contro un
cespuglio: proprio in mezzo alla fronte aveva un foro rotondo, da cui usciva un
po' di materia cerebrale assieme ad alcune gocce di sangue.
«Che precisione!» esclamò il
dottore. «Come avete fatto, Len-Pra, a sparare un simile colpo,
mentre le braccia degli uomini tremavano?»
«Sì,» disse il generale,
guardando la fanciulla con orgoglio. «Un colpo superbo, figlia mia, che io non
avrei potuto tirare, specialmente in quel momento.»
«Un caso, padre,» rispose la
giovane.
«E l'altra?» disse il generale.
«Come è stata conciata dal lottatore!... Non deve avere due costole intatte.»
«Eppure non era meno pericolosa
del maschio,» disse il dottore. «Queste fiere hanno il diavolo in corpo e anche
colla spina dorsale fiaccata spiccano dei salti. Che vitalità
straordinaria!...»
«Abbiamo fatto un bel massacro,
dottore, eppure non ci siamo guadagnata la cena.»
«Vi rinuncio volentieri, pur di
avere queste due superbe pelli. L'occasione non mancherà per procurarci delle
bistecche. Per oggi accontentiamoci delle tigri.»
«Manderemo il pilota e Feng a
scuoiarle. Orsù, in ritirata. Per oggi possiamo essere soddisfatti.»
Un quarto d'ora dopo i due
cacciatori e Len-Pra facevano ritorno all'accampamento,
dove trovarono Feng che soffiava a tutta lena sotto una pentola da cui usciva
un profumo appetitoso.
«Pare che il mio servo non abbia
perduto il suo tempo,» disse il generale. «Che cosa bolle lì dentro, Feng?»
«Un bel tucano, signore,» rispose
lo Stiengo.
«Sei un bravo ragazzo. Noi non
avremmo potuto mettere nella pentola che due pelli di tigre, e temo che non
avrebbero fatto un brodo bevibile. È vero, dottore?»
«Pieno di parassiti, generale,»
rispose Roberto, ridendo.
«A tavola, signori,» disse lo
Stiengo. «Il tucano è cotto a puntino.»
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