Ventiquattro ore dopo, il piccolo
drappello levava il campo, riprendendo la marcia verso il settentrione.
Tutti avevano premura di giungere
sulle rive del Tuli-Sap, il pilota specialmente, perché là
sperava di guadagnarsi finalmente il tanto sospirato bottone di mandarino,
sbarazzandosi della compagnia del dottore.
Il miserabile si era ormai
accorto che non era solamente un vincolo d'amicizia quello che univa la bella
siamese all'europeo, e gli premeva di mettere in mano a
Mien-Ming quel pericoloso rivale.
Per quattro giorni il drappello
continuò ad avanzare attraverso foreste immense, popolate solamente da bande di
scimmie e da qualche rado rinoceronte, e verso il tramonto del quinto s'arrestò
finalmente sulle rive di quel vasto lago, in prossimità d'una vecchia pagoda,
di cui non rimanevano in piedi che le pareti, essendo la cupola rovinata.
Il Tuli-Sap è
uno dei maggiori laghi che abbia il Siam, avendo una estensione ragguardevole.
Fino a pochi anni or sono era
quasi ignorato dagli stessi Siamesi, i quali ben di rado osavano spingersi fino
a quelle alte regioni, abitate dalle tribù bellicose e selvagge degli Stienghi.
Esso si stende dal 12°25' di
latitudine est fino al 13°55'. La parte che si prolunga verso il Mekong bagna
una immensa pianura ondulata; il lato opposto invece rade le alte giogaie del
Pursat.
Le sue rive sono coperte da
foreste immense, d'una bellezza meravigliosa, popolate da elefanti, da
rinoceronti, da cervi, da porci selvatici e da bande di bufali ferocissimi;
mentre le sue acque, trasparenti e sempre fresche, sono abitate da alligatori
non meno pericolosi delle belve e da stormi giganteschi di pellicani e di
cormorani.
«Un superbo lago!» esclamò il
dottore, che si era spinto fino sulla riva assieme a
Len-Pra ed al generale per cercare di abbattere qualche
coppia di pellicani.
«Dove troverete selvaggina finché
vorrete,» rispose Lakon-tay. «Le boscaglie che circondano
questo ampio bacino ne hanno in così gran copia, che gli Stienghi, quantunque
posseggano qualche raro fucile, preferiscono dedicarsi alla caccia anziché
all'agricoltura.»
«Siamo ancora molto lontani dalle
rovine d'Angkor?»
«Due giorni di marcia, mi ha
detto Feng, che conosce il paese e che le ha più volte visitate nella sua
gioventù. Anzi deve trovarsi in questi dintorni la sua tribù.»
«Alla foce del
Kun-Boreye,» disse Feng, che li aveva in quel momento
raggiunti, per annunciare che la cena era già pronta.
«Troveremo sulla nostra via i
tuoi compatrioti?»
«Certo, padrone.»
«Si ricorderanno ancora di te?»
«Il capo della tribù, che è mio
parente, non mi avrà certo dimenticato.»
«Ha dei villaggi la tua tribù?»
chiese il dottore.
«No, signore. I miei compatrioti
vivono come le belve, in mezzo ai boschi umidi, accontentandosi di poche foglie
poste su tre o quattro bastoni per ripararsi dalle intemperie.»
«Sono selvaggi,» disse il
generale, «che non hanno sedi fisse, che coltivano solo qualche pezzo di terra,
non avendo bisogno di molte cose per vivere. Tutto è buono per loro e non fanno
differenza fra un pollo o un rospo o un pipistrello.»
«Che stomaci!» esclamò Roberto.
«Lasciamo i pellicani e andiamo a
cenare, dottore,» disse Lakon-tay. «Domani avrete quanto
tempo vorrete per fare una buona caccia. Questa sera lasciamoli tranquilli.»
L'accampamento era stato piantato
nel cortile della vecchia pagoda, il quale aveva ancora la sua cinta,
quantunque fosse qua e là screpolata.
Cumuli di rottami ingombravano
parte del recinto. Vi erano ammonticchiate alla rinfusa colonne di legno che
conservavano ancora un po' di dorature, frammenti di statue, ammassi di tegole
di porcellana gialla, ancora bene conservate, aste e travi riccamente
intagliate che dovevano aver fatto parte della cupola o della piramide che un
tempo s'innalzava sulla pagoda.
Feng ed il pilota, poco fidandosi
delle malferme pareti del tempio, avevano innalzato le tende all'opposta
estremità del cortile, affinché il crollo eventuale di qualche colonnato non
schiacciasse i padroni durante la notte, ed avevano radunato i cavalli presso
la porta della cinta.
«È in completo disordine questa
pagoda,» disse il dottore, che terminata la cena si era diretto verso la porta
per visitare quell'antichissima costruzione. «Deve contare dei secoli.»
«O delle migliaia d'anni?» disse
Lakon-tay che lo accompagnava. «Deve essere stata alzata
dagli abitanti dell'antico regno di Khmer.»
«Da quel popolo che ha lasciato
in queste regioni tante tracce della sua potenza e della sua civiltà, e che poi
è così miseramente scomparso?»
«Sì, dottore; come vi dissi, era
così potente da poter mettere in campagna cinque milioni di combattenti e aveva
centoventi re tributari.»
«E come è scomparso quel regno?»
«Non se ne sa nulla.
Probabilmente deve essere stato assorbito dai Cambogiani e dai Siamesi.»
«Sicché gli ultimi rappresentanti
sarebbero ora gli Stienghi. Come può un popolo così progredito, che ha
innalzato monumenti e città così superbe, essere caduto così in basso?»
«Chissà... guerre, cataclismi,
invasioni di altre genti meno civilizzate.
Guardate, dottore, come era ampia
questa pagoda, che va lentamente sfasciandosi sotto l'incessante rodere delle
intemperie.»
Erano entrati nel tempio,
passando in mezzo ad ammassi di macerie.
Quattro ordini di colonne
variopinte e riccamente intagliate, colle basi dorate, s'alzavano intorno alle
pareti, stringendosi a poco a poco verso il centro, dove raggiungevano delle
altezze straordinarie.
Nel mezzo una enorme statua
dorata troneggiava su una specie di altare, formato da tronchi massicci,
artisticamente intarsiati di madreperla e di tartaruga. Doveva rappresentare
Gautama, il Budda adorato anticamente in quelle regioni.
Il dottore e
Lakon-tay si erano spinti fra le colonne per meglio
osservare, quando nel volgersi credettero di scorgere una forma umana scivolare
rapidamente lungo la parete e scomparire entro un oscuro corridoio, che doveva
condurre nelle celle un tempo abitate dai talapoini.
«Che mi sia ingannato?» si chiese
il dottore.
«Avete veduto anche voi una forma
umana?» chiese Lakon-tay, il quale si era bruscamente arrestato.
«Sì, generale.»
«Che si è cacciata in quel
corridoio?»
«Ma sì... sì...»
«Che questa pagoda sia abitata da
qualche spirito?»
«Io non ho di queste
superstizioni,» disse Roberto.
«Visitiamo quel corridoio. Ho un
pezzo di candela nella mia borsa.»
«Sarà qualche povero Stiengo che
ha preso alloggio fra queste rovine.»
«Desidererei però assicurarmene,
quantunque non siamo persone da inquietarci per la vicinanza d'uno di quei
selvaggi.»
Accesero la candela, impugnarono
i loro coltellacci e si cacciarono nel corridoio, che era fiancheggiato da
enormi paraventi laccati ed istoriati. Un'oscurità profonda regnava là dentro,
mentre saliva dal suolo un tanfo insopportabile di muffa.
Anche là vi erano rottami. Le
volte in più luoghi avevano ceduto e le arcate di legno giacevano al suolo, in
mezzo ad ammassi di tegole di porcellana azzurra e di mattonelle pure di
porcellana.
Percorsi sessanta o settanta
passi, senza aver nulla trovato, sbucarono in un secondo cortile, dove un tempo
dovevano elevarsi le stanze dei talapoini e dei bonzi. Anche di quelle non
rimanevano che poche pareti semicrollate e cumuli di macerie.
«Dobbiamo esserci ingannati,»
disse il generale. «Probabilmente abbiamo scambiato una delle nostre due ombre,
proiettata sulla parete, per un uomo.»
Rassicurati, tornarono nella
pagoda e raggiunsero il primo cortile, dove Feng aveva acceso un gran fuoco fra
le due tende.
Per non allarmare
Len-Pra, durante la serata non fecero cenno dell'ombra che
avevano scorto. Quando però la fanciulla si fu ritirata nella sua tenda,
avvertirono Feng e il pilota di far buona guardia, non essendo del tutto
convinti d'aver preso un granchio.
Kopom, che aveva già sospettato
qualche cosa, quand'ebbe udito dalla bocca del generale la storia di
quell'ombra, alzò le spalle, dicendo:
«Dovete esservi ingannati.
Nessuno oserebbe stabilire il suo domicilio in quella pagoda che cade da tutte
le parti.»
Poi soggiunse fra sé: «Per poco
non si tradivano, quegli stupidi. Non sono né furbi né prudenti, gli uomini del
puram.»
Essendosi assunto il primo quarto
di guardia, stese una coperta presso il fuoco e vi si sdraiò sopra, cacciandosi
in bocca un pugno di betel.
«Se l'ombra si mostrerà, la
saluterò con un buon colpo di fucile,» disse a Feng, che appariva un po' impressionato.
«Puoi dormire tranquillo, finché io veglio, poiché non ho mai avuto paura degli
spiriti. Buona notte, amico, non temere né per te, né per i tuoi padroni.»
Lasciò trascorrere qualche ora,
poi quando fu ben sicuro che tutti dormivano profondamente, si levò senza far
rumore, prese il fucile e si diresse verso la pagoda.
Stava per giungere al primo
gradino, quando vide comparire fra le colonne un uomo che subito riconobbe per
la sua obesità, quantunque la luce del falò non giungesse fin là.
«Mien-Ming,»
disse fra sé. «Come è stato puntuale!»
Salì rapidamente e s'inchinò
dinanzi al possente puram.
«Eccomi, padrone,» mormorò.
«Sono due giorni che ti aspetto,
e cominciavo già a dubitare della tua venuta,» disse il puram.
«Si sono fermati per riposarsi,
padrone.»
«Ho acquistato una barca dagli
Stienghi del Kun-Boreye e m'aspetta a cinquecento passi da
qui con otto battellieri. Sbrighiamoci.»
«Che cosa devo fare, padrone? Sai
bene che sono sempre ai tuoi ordini.»
«Dorme il farang?»
«Sì, padrone.»
«E quel servo, dov'è?»
«Si trova presso il fuoco.»
Mien-Ming
estrasse dalla sua larga fascia di seta due fiale microscopiche e uno spillone
d'argento dalla punta sottilissima.
Basta una leggera puntura per far
cadere l'uomo più robusto in un sonno profondissimo, che durerà molte ore.
Pungi prima il servo, poi il farang.
«E non mi udrà entrare nella
tenda?» chiese Kopom. «L'uomo bianco può essere sveglio.»
«Vorresti tu guadagnarti il
bottone di mandarino senza correre alcun rischio?»
«Accordami il permesso di
ucciderlo, se mi sorprende.»
«No, mai; non desidero
compromettermi, né avere questioni cogli europei, te lo dissi già.»
«Se poi gli Stienghi che io ho
assoldato lo faranno sparire, tanto peggio per lui: la colpa non ricadrà su di
me. Essi ignorano d'altronde chi io sia.»
«Ammiro la tua prudenza,
signore.»
«Credi che un puram possa
avere il cervello corto?»
«Oh no, padrone. Toh, e se ne
approfittassimo per rapire la fanciulla? Una puntura anche a lei e sarebbe in
tua balìa, signore.»
«Kopom, tu non sarai altro che un
mandarino idiota,» rispose Mien-Ming, severamente. «Se
dovessi accettare i tuoi consigli, non saprei, al mio ritorno a Bangkok, dove
andrebbe a finire la mia testa.
Lakon-tay,
anche se non gode più la fiducia del re, è sempre un uomo troppo potente perché
io possa giocare apertamente con lui.
Un brutto giorno
Len-Pra potrebbe narrare ogni cosa a suo padre e allora che
cosa accadrebbe di me?»
«Hai ragione, signore, io sono
una bestia,» disse Kopom a denti stretti.
«Infatti non sei molto furbo,
giovanotto mio, e mi pare che tu invecchi innanzi tempo.
Lascia che il farang
scompaia e vedrai che io non avrò più rivali degni di starmi a fronte. Chi
oserebbe misurarsi con un puram? Orsù, sbrigati: io ho fretta di
finirla.
Portami quel dannato europeo. I
miei uomini sono nascosti dietro le colonne, e se Lakon-tay
s'accorgerà di ciò che accade, saranno pronti ad imprigionarlo sotto la tenda,
finché tu avrai finito.
Soprattutto, sii prudente e non
far rumore.»
«Spero di cavarmela bene anche
questa volta, padrone,» rispose Kopom.
«Se riesci, tu sarai mandarino.»
«Grazie, signore.»
Kopom prese le due fiale e lo
spillone d'argento e tornò verso l'accampamento, camminando sulla punta dei
piedi.
Il fuoco stava per spegnersi e
Feng, che aveva assai faticato durante la giornata, russava sonoramente,
avvolto nella sua coperta di lana.
«Non lo sveglierebbe nemmeno un
colpo di cannone,» mormorò Kopom, sorridendo. «Ecco il momento di guadagnarmi
il mio mandarinato.»
S'avvicinò al servo e adagio
adagio svolse la coperta, soffiando dolcemente sul viso dell'addormentato. Imitava,
forse senza saperlo, la manovra dei vampiri, i quali, affinché le loro vittime
non si sveglino, producono colle ali una leggera corrente d'aria.
Messo allo scoperto un braccio,
il briccone sturò la fiala, vi immerse l'ago, poi punse leggermente.
Feng sussultò, portando una mano
sulla puntura e facendo un gesto come se volesse scacciare un insetto
importuno; ma non aprì gli occhi.
«Che specie di narcotico sarà
questo?» mormorò Kopom. «In fatto di veleni è un vero maestro quel diabolico puram.»
Si provò a scrollare dolcemente
il servo, sussurrandogli agli orecchi:
«Svegliati: ho veduto l'ombra.»
Feng non si mosse e continuò a
russare con maggior fracasso.
«All'altro ora, e speriamo che
non abbia il sonno più leggero,» disse Kopom.
Si diresse verso la tenda e ne
sollevò con tutte le precauzioni un lembo.
L'europeo dormiva non meno
profondamente dello Stiengo, sdraiato su un soffice tappeto. Per essere più
libero, si era sbarazzato della casacca, sicché mostrava le muscolose braccia
nude.
Kopom strisciò entro la tenda e
lo punse risolutamente. Era tale il sonno del dottore, che non fece alcuna
mossa.
Il bandito attese quattro o
cinque minuti per essere ben sicuro che quel misterioso narcotico avesse
prodotto il suo effetto, poi lo scosse vigorosamente, dicendo a mezza voce:
«Signore! Signore! Svegliatevi!
Assaltano il campo.»
Non ottenendo nessuna risposta,
lo afferrò a mezzo corpo e lo sollevò.
«È ben pesante,» mormorò Kopom.
«Fortunatamente la pagoda non si trova che a pochi passi.»
Uscì barcollando dalla tenda, nel
passare diede un calcio agli ultimi tizzoni perché si spegnessero, e si diresse
verso la pagoda.
Mien-Ming
l'aspettava sull'ultimo gradino, circondato dai suoi banditi.
«Ecco il farang,» gli
disse Kopom. «Sei contento, signore?»
«Tu sarai mandarino,» rispose
Mien-Ming, facendo un gesto di gioia.
Diede un lungo sguardo, pregno
d'odio, al suo rivale che giaceva inerte fra le braccia di Kopom, poi disse ai
suoi uomini:
«Avete preparato la barella?»
«Sì,» rispose il più attempato.
«Portatelo sulla riva del lago,
là ove gli Stienghi ci aspettano.»
«Ed io, signore, che cosa devo
fare?» chiese Kopom.
«Accompagnare sempre
Lakon-tay; noi ci rivedremo nella città del Re lebbroso.
Ora che il dottore dalla pelle bianca è in mia mano, voglio la rovina del
generale.»
«Quando sarà caduto in disgrazia,
vedremo se rifiuterà a me, ricco e potente, la mano di
Len-Pra.»
«La partita non è ancora finita.»
«Avrò ancora da lavorare,
padrone?»
«Sì, ma non più pel tuo
mandarinato, bensì per dell'oro, e ne avrai tanto da farti ricco, se
continuerai a servirmi come hai fatto finora.
Addio, e arrivederci alle rovine
di Angkor. Colà riceverai mie nuove.»
Ciò detto, il puram seguì i
suoi uomini, che erano rientrati nella pagoda, portando con sé, su una barella
improvvisata con rami intrecciati e foglie, il disgraziato dottore che era
sempre addormentato.
Attraversarono alcune gallerie,
uscirono nel secondo cortile senza essere stati disturbati e si cacciarono
sotto i boschi che si estendevano fino alle rive del
Tuli-Sap.
|