Allorquando il dottore riaperse
gli occhi dopo una dormita durata forse ventiquattro ore, invece di trovarsi
sotto la sua tenda e di udire l'usuale chiamata di Feng annunciante la
colazione del mattino, si trovò coricato nel fondo d'una piroga, scavata
grossolanamente nel tronco d'un tek e montata da otto uomini quasi
interamente nudi, che prima di allora non aveva mai veduto.
Stupito e anche molto inquieto di
trovarsi in quella barca, fra sconosciuti che avevano delle facce poco
rassicuranti, si alzò a sedere, cercando innanzi tutto il largo coltellaccio
che usava portare alla cintura: ma non lo trovò, poiché i banditi del puram
si erano ben guardati dal lasciarglielo.
«Dove sono io?» gridò. «Chi siete
voi e dove mi conducete? Dov'è Lakon-tay?»
Gli otto battellieri, vedendolo
alzarsi, cessarono di remare, e si misero a fissarlo con viva curiosità.
Non pareva che appartenessero
alla razza veramente siamese, sia pel colorito della pelle, assai più scuro,
sia pei tratti dei loro volti, più duri, più angolosi, dall'espressione cupa e
feroce. Erano poi di statura più alta, più magri; avevano i capelli lunghi,
invece di portarli rasati come i Siamesi, fermati da una specie di pettine di
bambù sormontato da una cresta di fagiano; barbe folte, sopracciglia lunghe e
nerissime, ed il loro vestito consisteva in una semplice sciarpa di tela grossolana,
larga solamente pochi pollici, annodata ed attorcigliata attorno ai fianchi.
Se il loro vestito era così
meschino, quei selvaggi però, almeno sembravano tali, erano formidabilmente
armati. Ognuno teneva a fianco una pesante sciabola a lama larghissima, d'un
acciaio finissimo, che mostrava, come i paranys dei bornesi, le vene del
metallo; inoltre una scure ed un lungo arco; e sulla schiena ognuno portava una
piccola gerla di fibre intrecciate, piena di frecce, le cui punte acutissime
erano coperte da una sostanza bruna, probabilmente qualche materia velenosa.
Il dottore, dopo averli
rapidamente osservati, ripeté la domanda con voce imperiosa:
«Chi siete voi dunque e dove mi
conducete? Rispondete: io sono un uomo bianco.»
Uno dei rematori, che doveva essere,
un capo, poiché portava sul pettine di bambù, oltre la cresta di fagiano, anche
un ciuffo di penne di tucano legate con un filo di ottone, si decise finalmente
a rispondere.
«Giacché l'uomo dalla pelle
bianca desidera saperlo, noi siamo Stienghi del Kun-Boreye,»
disse in un siamese abbastanza comprensibile.
«E dove sono i miei compagni?»
«Quali?»
«Il generale
Lakon-tay, Len-Pra e i due servi.»
«Non li conosco, non ho mai
veduto generali io.»
«Chi mi ha condotto qui? Io mi
ero addormentato sotto la mia tenda ieri sera; come mi trovo ora in questa
scialuppa?»
«Non so,» rispose lo Stiengo, con
aria imbarazzata. «Degli uomini mi hanno incaricato di condurti alla foce del
Kun-Boreye ed io ho obbedito.»
«Chi erano quegli uomini? chiese
il dottore, che non riusciva a raccapezzarsi.
«Non li conosco.»
«E perché mi conduci alla foce di
quel fiume?»
«Non posso risponderti. Ho
ricevuto degli ordini, mi hanno pagato ed io obbedisco.»
«Mi dirai almeno chi ti ha dato
quest'ordine.»
«Un uomo che mi hanno detto
essere uno dei più potenti del Siam. Chi poi sia, io lo ignoro, né mi occupo di
saperlo.»
Il dottore ebbe uno scatto di
collera.
«Bada, io sono un uomo bianco, e
un'offesa fatta a me si paga cara. Riconducimi alla vecchia pagoda da dove voi,
miserabili, mi avete rapito, o vi farò tagliar la testa dai carnefici del re
del Siam.»
Il capo alzò le spalle, dicendo:
«Il re del Siam è troppo lontano
per essere temibile e poi le sue truppe non oserebbero avanzare attraverso le
nostre foreste. La febbre dei boschi fa troppa paura ai Siamesi.»
«Lakon-tay è
ancora troppo vicino, e tu ti ricorderai che lui non ha avuto paura di invadere
le vostre selve.»
Udendo per la seconda volta quel
nome, lo Stiengo trasalì e la sua faccia si oscurò. Il dottore si era accorto
che quel nome aveva prodotto una certa impressione sul selvaggio.
«Ah! è vicino,» disse lo Stiengo
dopo qualche minuto di silenzio.
«Vedi che lo conosci? E prima
affermavi di non averlo mai udito nominare!»
Il selvaggio fece un gesto di
stizza, evidentemente seccato di essersi tradito, poi riprese:
«Venga pure
Lakon-tay; vedremo se questa volta devasterà le nostre
selve. Ha molte truppe con sé?»
«Moltissime e agguerrite.»
«Perché allora ti hanno rapito
dal suo campo?»
«È a te che lo domando,» disse il
dottore.
Il capo rimase silenzioso per
qualche minuto, evidentemente impensierito, poi disse:
«No, non posso: Tolom non può
smentire la sua promessa, e poi io ho giurato su Brâ, la nostra divinità.
D'altronde tu non hai nulla da temere, perché quegli uomini non mi hanno detto
di ucciderti.»
«Dimmi almeno perché mi conduci
alla foce del Kun-Boreye. Chi mi attende colà?»
«Non so nulla.»
Si volse verso i suoi uomini e
diede alcuni ordini in una lingua che il dottore non comprendeva.
Subito la piroga, che fino ad
allora aveva proseguito la corsa verso est, allontanandosi sempre dalle rive
che erano ormai appena visibili, virò di bordo, dirigendosi invece verso il
settentrione.
Aveva cambiato idea il capo? Si
poteva crederlo.
Il dottore, che avrebbe ben
desiderato tornare alla riva per raggiungere i suoi compagni, si provò ad
interrogarlo, ma senza risultato. Lo Stiengo si era rinchiuso in un silenzio
ostinato e fingeva di non udire le domande del prigioniero.
Anche i suoi uomini non
parlavano: lavoravano invece con accanimento, arrancando con vigore ed
imprimendo alla piroga una velocità straordinaria.
Calava allora la sera, ciò che
fece supporre al dottore d'aver dormito almeno ventiquattro ore, poiché quando
si era addormentato sotto la tenda erano appena le nove.
Come aveva potuto dormire tanto?
Non era ammissibile. Dovevano avergli somministrato qualche narcotico, ma chi e
quando? Ecco quello che si chiedeva insistentemente, senza riuscire a trovare
la soluzione di quel problema ingarbugliato.
E poi a quale scopo lo avevano
rapito dall'accampamento, per affidarlo a quel drappello di selvaggi? E di
Lakon-tay che cosa era successo? E di
Len-Pra? E di Feng?
Così immerso in quei pensieri,
egli non si era nemmeno accorto che la piroga, dopo una corsa rapidissima,
durata qualche ora, aveva imboccato un largo fiume, ingombro d'isolotti coperti
di foltissime piante, così bassi che emergevano dal livello delle acque appena
pochi pollici.
Un urto abbastanza violento lo
strappò dai suoi pensieri.
La piroga si era arenata contro
una di quelle isolette, e in quello stesso momento un lampo abbagliante ruppe l'oscurità
che aveva ormai avvolto il fiume e le rive.
«Sbarca,» gli disse Tolom, che
era già balzato a terra portando tutte le sue armi.
«Dove mi conduci?» chiese
Roberto.
«Cerchiamo un ricovero contro
l'uragano che sta per scoppiare.»
Il dottore alzò gli occhi e solo
in quel momento s'avvide che delle masse di vapori avevano coperto interamente
la volta celeste.
«Dove siamo?» chiese.
«Alla foce del
Kun-Boreye,» rispose il capo.
Fece assicurare la piroga al
tronco d'un albero, poi si aprì il passo fra i folti cespugli che coprivano
l'isolotto, mentre i suoi uomini si mettevano ai lati del prigioniero, come se
avessero timore che fuggisse.
S'avanzarono così per un
centinaio di passi e s'arrestarono dinanzi ad una capanna che sorgeva su un
piccolo spiazzo, un'abitazione abbastanza ben fatta e solida, per essere stata
costruita da selvaggi che si accontentano solitamente d'una piccola tettoia
aperta a tutti i venti.
«È la tua capanna? chiese il
dottore.
«È una pagoda dedicata a Brâ.»
«Non vale quelle che costruiscono
i Siamesi.»
«Gli Stienghi non sono Siamesi,»
si limitò a rispondere il capo. «Accontentati di quello che ti posso offrire e
siimi grato.»
Fece il giro della capanna come
se avesse voluto assicurarsi della solidità delle pareti e del tetto, poi fece
accendere un bel fuoco con dei rami resinosi e preparare la cena, avendo
portato con sé un quarto di cervo. Invece di arrostirlo intero, quei selvaggi
lo divisero in vari pezzi, poi li cacciarono entro tubi di bambù verdi e li
esposero al fuoco; sistema molto strano, ma in uso presso tutte le tribù degli
Stienghi, i quali non hanno mai conosciuto i forni e tanto meno gli spiedi e le
pentole.
Avevano appena cominciato a
mangiare, quando un improvviso colpo di vento passò sulle foreste che coprivano
le due rive del fiume, facendo scricchiolare i rami e torcendo le immense
foglie.
Quasi nello stesso momento dei
tuoni spaventevoli si ripercossero nelle profondità del cielo, mentre lampi
accecanti si succedevano l'uno dietro l'altro, con intervalli di appena pochi
secondi.
«L'uragano!» disse il capo al
dottore. «Spicciati.»
Le prime gocce cominciavano a
cadere, e che gocce! Cadevano con gran rumore, battendo sulle larghe foglie con
tale forza che parevano chicchi di grandine.
Il capo prese un ramo acceso, e
volgendosi al dottore che aveva terminato la cena, gli disse:
«Seguimi, se ti preme metterti al
riparo da questa doccia colossale.»
Entrò nella capanna, alzando la
spessa stuoia che serviva da porta, e lo spinse dentro, piantando il ramo in terra.
«Buona notte,» disse,
indicandogli un folto strato di foglie secche.
«E voi, non vi rifugiate qui
dentro?» chiese Roberto.
«Noi non abbiamo paura
dell'acqua,» rispose lo Stiengo, sorridendo. «Un cespuglio ci serve quanto una
capanna.»
E lasciò ricadere la stuoia,
mentre i tuoni scrosciavano con fragore assordante e l'acqua cadeva con rabbia
estrema come nei tristi giorni del diluvio universale.
La capanna non conteneva che un
idolo d'argilla, situato proprio nel mezzo, su un masso di pietra scolpito rozzamente,
rappresentante certamente Brâ, la dea venerata dalle tribù degli Stienghi.
Appese alle pareti vi erano
alcune di quelle pesanti sciabole adoperate da quei selvaggi, che forse il
capo, nella sua fretta di andarsene, non aveva nemmeno osservato.
«Sarei uno stupido se non ne
prendessi una,» disse Roberto. «Non si sa mai quello che può succedere.»
Ne staccò una e si coricò sul
letto di foglie, mentre al di fuori l'uragano raddoppiava la sua furia.
Il vento ululava fra le selve che
coprivano le due rive, torcendo rami e tronchi, mentre i tuoni rombavano con
tale intensità da far tremare persino le pareti della capanna.
«Una notte d'inferno,» mormorò il
dottore. «Non invidio certamente quei selvaggi, ai quali auguro che un fulmine
li incenerisca.»
«Mia diletta
Len-Pra, quando potrò rivederti? Possibile che io non
riesca a scoprire il motivo di questo rapimento?»
Ad un tratto trasalì e si alzò a
sedere.»
«Che gli uomini che mi hanno
rapito siano gli stessi che hanno cercato di assassinarmi durante la caccia
all'elefante? E che questi Stienghi siano loro complici? Ma il motivo? Perché
devono avercela con me? Che male ho fatto loro? Che cosa darei per spiegare
tutto ciò!
Oh, non rimarrò a lungo nelle
mani di questi selvaggi. Ora ho delle armi e, dovessi impegnare una lotta
suprema, saprò riacquistare la mia libertà.»
Così monologando, finì per
addormentarsi. L'aria d'altronde era così satura di elettricità, che nessuno
avrebbe potuto resistervi.
Quanto dormì? Difficile saperlo.
Fu bruscamente svegliato da una sensazione di freddo che aumentava rapidamente.
Non sapendo a che cosa
attribuirla, s'alzò di colpo, domandandosi se dei serpenti si fossero
introdotti nella capanna.
La torcia si era spenta ed una
profonda oscurità regnava intorno a lui.
Si toccò le vesti che erano
diventate estremamente pesanti, e ritrasse le mani bagnate.
«Questa è una inondazione!»
esclamo.
Raccolse la sciabola che aveva
deposto presso il letto di foglie e alzò i piedi. Solo allora s'accorse che tutto
il pavimento della capanna era coperto da uno strato considerevole d'acqua.
«Sgombriamo!» esclamò. «Non sono
già un topo per annegare in questa gabbia.»
S'avanzò a tentoni finché scoprì
la stuoia che serviva da porta. Con un calcio poderoso la squarciò e balzò
fuori.
La pioggia cadeva sempre con
furia estrema, ma i lampi erano cessati e per di più il fuoco acceso dagli
Stienghi si era spento.
«Ohé, capo!» gridò. «Dove sei?»
Nessuno rispose alla sua domanda.
«Che siano fuggiti?» mormorò. «Da
un lato sarebbe una fortuna, dall'altro una disgrazia. Mi pare che il fiume si
sia improvvisamente ingrossato e che le sue acque abbiano invaso l'isola.
Questa è una vera inondazione.»
Non s'ingannava, perché anche
fuori dalla capanna vi era un buon piede d'acqua, e la corrente si frangeva con
una certa violenza contro i cespugli che coprivano quel brano di terra.
«Cerchiamo la scialuppa,» disse
Roberto.
S'avanzò a tentoni verso il luogo
dove supponeva si trovasse ancora l'imbarcazione, sperando di incontrare colà
gli Stienghi; invece si smarrì fra i cespugli che coprivano l'isoletta da una
estremità all'altra.
Fortunatamente un lampo gli
mostrò la capanna, e fu ancora in tempo a raggiungerla.
Era una vera fortuna. Durante
quei minuti la corrente che aveva invaso l'isola era diventata fortissima, e
l'acqua si era tanto alzata da giungergli alle caviglie.
«Salviamoci sul tetto,» pensò.
«Impossibile che la piena mi raggiunga anche lassù!»
La scalata non era difficile,
essendo le pareti formate da canne di bambù grossissime, trattenute da traverse
tenute ferme da nodi di rotang.
Aggrappandosi ora all'una ed ora
all'altra, Roberto, che non era meno agile d'un siamese, in pochi slanci riuscì
a guadagnare il tetto, che era formato da fitti strati di foglie secche e da
travicelli di bambù.
Si appollaiò sulla parte più alta
e attese, colla convinzione che le acque non lo avrebbero raggiunto a
quell'altezza.
La pioggia non cessava di cadere
e l'oscurità era diventata così profonda, essendo cessati i lampi, che il dottore
non riusciva a vedere a cinque passi dalla punta del suo naso.
Intorno all'isoletta, già tutta
sommersa, udiva il fiume muggire cupamente. Improvvisamente gonfiato da quel
furioso acquazzone che durava già da parecchie ore, straripava da tutte le parti.
Anche le folte foreste delle due rive dovevano essere state allagate.
«Come finirà tutto ciò?» si
chiese il dottore, le cui inquietudini aumentavano di momento in momento. «E
quei furfanti che mi hanno abbandonato senza prendersi la briga di svegliarmi?
Che i gaviali del lago li divorino tutti!»
Uno scricchiolio sinistro, che si
ripercosse fino alla punta del tetto, lo fece trasalire.
L'intera capanna vibrava come se
fosse lì lì per sfasciarsi sotto gli urti incessanti delle acque, le quali si
accavalcavano disordinatamente sopra l'isoletta, frangendosi contro i cespugli.
«Questa costruzione non resisterà
a lungo,» mormorò il disgraziato dottore. «Fortunatamente sono un buon
nuotatore e spero di poter guadagnare in qualche modo la riva.
Peccato che non lampeggi più! Con
questa oscurità non sarà facile dirigersi e trovare...»
Un nuovo scricchiolio, seguito da
alcuni schianti, lo interruppe.
I bambù che formavano le pareti
cominciavano a cedere, due o tre per volta, e l'acqua irrompeva ormai entro la
capanna, gorgogliando.
Il dottore affondò le mani nella
massa di fogliame che formava il tetto.
«Chissà!» mormorò. «Forse
galleggerà. Non disperiamo.»
Le oscillazioni della capanna
aumentavano ed il tetto cominciava ad inclinarsi da un lato.
Per fortuna, proprio nel centro,
s'ergeva un'asta formata da un grosso bambù, sicché il dottore, che vi si era
aggrappato solidamente, poteva resistere a qualunque inclinazione.
Ad un tratto i pali cedettero
assieme ai rotang, ed il tetto precipitò in acqua. Si sommerse, sollevando
tutt'intorno alti spruzzi di spuma, poi rimontò a galla e filò attraverso
l'isola, ondeggiando e girando lentamente su se stesso.
Come il dottore aveva previsto,
galleggiava come una zattera, quantunque fosse in parte sommerso.
Quando però si trovò nel fiume,
la sua corsa divenne rapidissima, tanto che il naufrago ebbe per qualche
momento il timore di non poter più resistere.
Quella strana zattera correva
vertiginosamente, girando e rigirando su se stessa entro i gorghi o balzando e
rimbalzando sui cavalloni. La corrente del fiume la trasportava verso il lago.
Ad ogni momento urtava con grandi
scossoni contro tronchi d'albero. Quella massa di foglie, fortunatamente ben
unita da fibre solidissime di rotang e di sagù, cappeggiava pericolosamente e
affondava, facendo prendere al naufrago dei continui bagni.
«Purché non si sfasci, tutto
andrà bene,» mormorava Roberto, stringendo nervosamente il bambù.
Quella corsa vertiginosa durò una
ventina di minuti, poi quasi improvvisamente cessò, ma allora successero delle
ondulazioni ben più pericolose.
Dei cavalloni si rovesciavano
incessantemente sulla zattera, muggendo e scrosciando, passandovi sopra e
coprendo volta a volta il naufrago, il quale faticava assai e correva pericolo
di venir portato via.
Erano le onde del lago.
Anche il
Tuli-Sap era in piena e l'uragano l'aveva sconvolto. Quei
pochi, ma poderosissimi soffi erano bastati per turbare la sua superficie,
solitamente così tranquilla.
Sempre ondulando, il tetto della
capanna continuava ad allontanarsi dalla foce del
Kun-Boreye, spinto dalla corrente del fiume che doveva
farsi sentire ad una distanza notevole.
Il dottore resisteva sempre
tenacemente agli assalti delle onde, che non gli accordavano un istante di
tregua. Quantunque si sentisse affranto, non lasciava il bambù, anzi lo
stringeva con crescente energia colle mani e colle gambe.
Non sapeva più dove fosse. Si
trovava ormai molto lontano dalla riva o vicino? Era impossibile saperlo,
perché l'oscurità regnava sempre sovrana sul lago.
«Non disperiamo,» ripeteva.
«L'alba non tarderà a rompere queste maledette tenebre. Se riesco a resistere
fino ad allora, saprò ben io dirigere alla meglio la mia zattera.
Dopo tutto, non debbo lamentarmi
di questo uragano, che mi ha strappato dalla compagnia di quei bricconi.»
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