Quando finalmente i primi albori
diradarono a poco a poco le tenebre, il dottore poté rendersi esattamente conto
della sua situazione.
La corrente del fiume e
fors'anche il vento, che non aveva cessato di soffiare dalla parte della riva,
l'avevano spinto a tre o quattro miglia al largo, facendolo deviare verso il
sud: la foce del Kun-Boreye non si scorgeva più.
La costa che aveva di fronte non
era più quella che aveva osservato il giorno innanzi. Era una terra assai
bassa, interrotta da paludi piene di canneti e da boscaglie con tek
altissimi.
Il tetto non aveva ceduto.
Solamente i suoi margini erano stati danneggiati e ridotti a brandelli dagli
incessanti attacchi delle onde, tuttavia per il momento non correva alcun
pericolo, tanto più che il lago cominciava a calmarsi.
«Come riguadagnare la costa?» si
chiese il dottore, che si era rizzato in piedi per meglio osservarla. «Ci
vorrebbe qualche remo, mentre non posseggo che la mia sciabola... Un remo!...
Non ne ho forse uno? Quello che stringo fra le mani in questo momento? Proviamo
a levarlo.»
Allargò prima colla punta della
sciabola gli strati di foglie che formavano il culmine del tetto, poi si mise a
scuotere vigorosamente il grosso bambù.
Stava già per strapparlo, quando
il tetto s'inclinò improvvisamente da un lato affondando più che mezzo. Se il
naufrago non avesse tenuto in quel momento il bambù ancora fra le mani, sarebbe
certamente caduto in acqua, tanto era stata brusca quella scossa.
«Chi squilibria la mia zattera?»
esclamò, voltandosi rapidamente.
Una testa orribile, armata di
lunghe mascelle irte di denti aguzzi e giallastri, era emersa improvvisamente,
allungandosi verso il naufrago.
«Un gaviale!» esclamò il dottore
impallidendo. «Se cadevo in acqua trovavo una bella bocca!»
Il sauriano aveva già appoggiato
le zampe anteriori sull'orlo del tetto e tentava di spingersi verso la preda
umana.
Il galleggiante, sotto quel peso,
continuava ad inclinarsi, minacciando di capovolgersi.
Il dottore non si perdette
d'animo, quantunque sapesse d'aver a che fare con un avversario non meno
pericoloso dei coccodrilli che infestano le acque dei fiumi africani.
Si aggrappò colla sinistra al
bambù, afferrò colla destra la pesante sciabola che teneva infissa nella
fascia, e menò al sauriano un colpo formidabile. La grossa scatola ossea del
mostro crepitò sotto l'urto dell'acciaio, senza però cedere.
«Ah!... Non vuoi lasciarmi!» gridò
il dottore, che sentiva il tetto inclinarsi sempre. «Prendi, bruto!...»
Menò un secondo colpo e non già
sulle piastre ossee che corazzavano il rettile, bensì su una delle zampe
appoggiate all'orlo della zattera, troncandogliela netta.
Quasi subito il tetto si
raddrizzò, mentre quel pericoloso abitante dei laghi e dei fiumi indocinesi
s'inabissava con fragore, mandando un rauco muggito.
«Perbacco!... Come tagliano
queste sciabole!» esclamò il dottore. «Non avrei creduto che dei selvaggi
potessero dare al loro ferro una simile tempra. Speriamo che quel bruto mi
lasci ora tranquillo.»
Pulì la sciabola rimettendosela
nella fascia, poi con uno strappo violento levò il bambù. Era una bella canna,
grossa quanto il braccio d'un uomo, lunga due metri. Certamente non poteva
servire gran che a dirigere una zattera, per quanto piccola e leggera fosse.
Il dottore seppe trarne
egualmente partito. Strappò alcuni fasci di foglie secche e le legò
strettamente ad una delle estremità.
«Se non sarà precisamente un
remo, me ne servirò egualmente, disse. «La riva non è che a tre miglia e sono
certo di poterla raggiungere fra un paio d'ore.»
Si sedette sulla cima del tetto,
infilando i piedi nel buco che aveva aperto per meglio strappare il bambù, e si
mise a remare, imprimendo al galleggiante delle piccole scosse.
Non guadagnava molto, a dire il
vero, tuttavia avanzava, favorito anche dalle onde che andavano a rompersi
contro la costa.
Dopo il mezzodì poté finalmente toccare
la sponda. Era talmente esausto che, appena salita la riva, si lasciò cadere di
peso al suolo, all'ombra d'un banano selvatico che stendeva per un vasto tratto
le sue immense foglie.
Dove era sbarcato? Per il momento
non si curava di saperlo, troppo contento di aver raggiunto la terra e lasciato
quella pericolosa zattera che poteva da un momento all'altro sfasciarsi.
Appoggiato col dorso contro il
tronco della pianta, guardava con viva curiosità la sponda, che era cosparsa di
sabbia e di penne di cormorani e di pellicani.
Non vi erano né barche, né
capanne, né verso nord, né verso sud. Forse quella parte del lago non era mai
stata visitata nemmeno dagli Stienghi, i quali di rado escono dalle loro folte
ed umide foreste.
«Procuriamoci la colazione,» disse
Roberto, dopo essersi riposato una mezz'ora. «Poi cercherò di orientarmi per
raggiungere la pagoda. Lakon-tay e
Len-Pra non l'avranno certo lasciata e mi aspetteranno
ancora.
Poveri e cari amici! Come saranno
inquieti per questa mia lunga assenza! Ma non piangere, mia adorata fanciulla:
noi ci rivedremo ancora, a dispetto di quei misteriosi nemici che mi
perseguitano con tanta ostinazione. Ora infatti sono ben convinto che si tratta
degli stessi che mi hanno teso un agguato durante la caccia all'elefante.»
Si alzò e discese la riva, dove
si scorgevano numerose buche coperte da ramoscelli e da foglie secche.
«Devono essere nidi di
cormorani,» mormorò.
Dopo averne visitati parecchi
senza risultato, riuscì finalmente a scoprirne uno che conteneva una mezza
dozzina d'uova, un po' più grosse di quelle dei piccioni e col guscio
leggermente rugoso.
«Per il momento basteranno,»
disse. E le vuotò una dietro l'altra, senza nemmeno accorgersi che avevano un
certo gusto di pesce poco gradevole.
Un po' riconfortato da quella
modesta colazione, tagliò un ramo per servirsene di bastone e si mise a
costeggiare il lago, dirigendosi verso il sud.
Avendo voltato le spalle alla
foce del Kun-Boreye, era certo di rintracciare la vecchia
pagoda, quantunque ignorasse a quale distanza si trovava. La sua marcia non
durò a lungo, perché dopo qualche ora si vide chiuso il passo da una vastissima
palude, che pareva dovesse avere una estensione immensa.
«Non avevo pensato a questi
ostacoli,» disse, facendo un gesto di malumore. «Se dovrò fare il giro di
questa palude, raddoppierò e forse anche triplicherò il mio cammino, e corro il
pericolo di non ritrovare mai più Lakon-tay e
Len-Pra. A meno che non mi spinga fino alla città del Re
lebbroso, se saprò trovarla.»
Rimase parecchi minuti immobile,
cercando invano la soluzione di quel difficile problema, poi prese ad un tratto
il suo partito.
«Giriamola,» disse. «Raddoppierò
le marce e non dormirò che qualche ora.»
E si cacciò senz'altro nella
boscaglia che contornava la palude.
Era una di quelle foreste umide
che sono preferite dalle tribù degli Stienghi, perché li pongono al coperto
dalle invasioni dei loro nemici, i Cambogiani ed i Laotini. Foreste orribili,
sature di umidità, sorte su terreni paludosi, pullulanti di sanguisughe, di
scorpioni, di centopiedi, di scolopendre e di serpenti velenosi, e che celano
sotto la loro ombra quella terribile febbre dei boschi, così micidiale agli
europei non solo, ma perfino agli stessi Siamesi.
Il dottore, animato dal desiderio
di ritrovare il generale e soprattutto Len-Pra, che ormai
amava intensamente, proseguiva intrepidamente la sua marcia, sciabolando i rami
ed i rotang che gli ostacolavano il passaggio, inoltrandosi sempre più in
quella gigantesca foresta.
Aveva lasciato la riva paludosa a
causa della poca consistenza del suolo, e badava di non allontanarsi troppo per
paura di smarrirsi fra quelle migliaia e migliaia di piante, cosa non
improbabile, non avendo alcun mezzo per dirigersi, nemmeno il sole, il quale
non si lasciava vedere fra quelle foglie mostruose che formavano una volta
assolutamente impenetrabile.
Avanzò così per parecchie ore,
raccogliendo qua e là qualche frutto, finché, esausto da quella lunga marcia e
semisoffocato dal calore intenso che regnava nella foresta, si fermò sotto un
albero d'aquila di proporzioni enormi, coll'intenzione di passare colà la
notte. Mancando ancora qualche ora al tramonto, si mise a frugare i cespugli
vicini colla speranza di sorprendere qualche cerbiatto, avendone scorti
parecchi fuggire durante la giornata.
Era tutto intento nelle sue
ricerche, quando udì sopra il suo capo agitarsi le fronde d'un tonki.
Alzò gli occhi e scorse, non senza un brivido di terrore, un grosso animale dal
pelame giallastro, picchiettato di macchie a forma di mezzaluna, che stava
appiattato nella biforcazione d'un grosso ramo e lo fissava con due occhi
gialloverdognoli dalla pupilla rotonda.
Il dottore fece tre o quattro
salti indietro, alzando la sciabola e mettendosi in guardia, come uno
schermitore che si prepara a parare una botta.
«Una pantera!» esclamò. «Cattivo
incontro, se è affamata. Se non avessi questa sciabola, per me la sarebbe
finita subito.»
La pantera pareva però che non
avesse fretta di assalirlo. Forse la posa del dottore e lo scintillio dell'arma
tenuta in alto la rendevano più prudente.
Lo fissava coi suoi occhi
verdastri, contraendo le labbra e ondeggiando lievemente la coda, mentre le sue
unghie s'affondavano con un sinistro crepitio nella corteccia del ramo.
Il dottore stava per fare
un'altra mossa indietro, onde mettersi fuori portata dallo slancio della belva,
quando vide i cespugli che crescevano attorno al tronco della pianta aprirsi
con precauzione, e comparire un uomo, il quale aveva l'arco già teso con una
lunga freccia incoccata.
«Toh! Uno Stiengo ora!» esclamò
il dottore. «Non bastava la pantera?»
Il selvaggio aveva puntato
risolutamente la freccia sul dottore, alzandola e abbassandola come se cercasse
il punto migliore per toccare qualche organo vitale.
Era un uomo di alta statura,
dalla carnagione assai scura con riflessi giallastri, i lineamenti duri e
angolosi, gli occhi nerissimi e foschi: era quasi nudo, non avendo che uno
straccio grossolano attorno ai fianchi.
Oltre l'arco e la faretra,
portava dietro al dorso una sciabola simile a quella che aveva il dottore.
Pareva non si fosse ancora
accorto della presenza della pantera, che gli stava quasi sopra la testa. Altrimenti
non si sarebbe certo fermato in quel luogo troppo pericoloso.
Il dottore, che temeva fosse uno
di quelli che lo avevano rapito, con una mossa fulminea si gettò dietro il
tronco d'un albero d'aquila, gridando al selvaggio con voce minacciosa:
«Abbassa quella freccia,
canaglia! Non vedi che sono un uomo bianco? Guarda invece sopra la tua testa.»
Lo Stiengo, sia che non
comprendesse il siamese o che fosse deciso ad assalire l'uomo dalla pelle
bianca, invece di abbassare la freccia uscì dai cespugli, tenendo l'arco sempre
teso, e fece due passi di fianco per prendere una posizione più adatta a
scagliare quel pericoloso dardo.
In quell'istante il dottore, che
non perdeva d'occhio neanche la pantera, vide la belva alzarsi lentamente sulle
sue tozze e robuste zampe e raccogliersi come i gatti quando si preparano a
saltare.
«Guardati!» gridò al selvaggio.
«La pantera! Stupido, sta per scagliarsi su di te!»
Un sordo brontolio fece alzare la
testa allo Stiengo. Vedendo il felino, fece l'atto di fuggire, ma gliene mancò
il tempo.
La terribile belva con uno
slancio fulmineo gli piombò addosso, lo atterrò di colpo con una poderosa
zampata sulla spalla sinistra, poi scomparve in mezzo agli alberi, mandando un
sordo mugolio.
L'assalto era stato così rapido,
che il dottore non aveva avuto il tempo di accorrere in aiuto del selvaggio.
Lo Stiengo, colla spalla
sanguinante, si rotolava fra le erbe, mandando urla di rabbia più che di dolore
e digrignando i denti come una belva feroce.
«Finiscila,» gli disse il
dottore. «Non guarirai certo in quel modo: anzi!»
Gli si avvicinò, gettando via la
sciabola.
Il selvaggio si arrestò e riprese
l'arco, dardeggiando sull'italiano uno sguardo feroce. Certo credeva che
volesse approfittare della sua impotenza per finirlo.
«Non ti voglio fare alcun male,»
disse il dottore, in siamese. «Mi comprendi?»
«Sì,» rispose lo Stiengo nella
stessa lingua.
«Allora lascia in pace l'arco e
mostrami la ferita. Io sono un uomo che sa curare gli ammalati.»
Il selvaggio rimase muto. Il suo
sguardo però a poco a poco perdeva il suo lampo feroce.
«È vero che non mi ucciderai?»
chiese finalmente.
«Gli uomini bianchi non sono
cattivi come tu credi.»
«Eppure mi avevano detto che
mangiavano i loro nemici.»
«Chi ti ha narrato ciò era un
grande imbecille. Lascia che esamini la tua ferita.»
Lo Stiengo si mise a sedere,
tergendosi colle mani il sangue che colava in abbondanza dalla spalla,
dilaniata dalle terribili unghie della fiera.
«Mi prometti di non uccidermi?»
chiese nuovamente.
«Ti ho detto che non ti farò alcun
male.»
«Ecco la mia spalla,» disse lo
Stiengo, che pareva non dubitasse più.
Il dottore gli s'inginocchiò
accanto ed esaminò attentamente la ferita. La pantera non aveva avuto il tempo
di squarciargli la spalla, però l'aveva rigata piuttosto profondamente colle
cinque unghie.
«Credevo di peggio,» disse il
dottore. «Se le unghie non erano infette, la ferita potrà rimarginarsi in un
paio di giorni.
Tuttavia non perdiamo tempo ed
arrestiamo il sangue.»
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