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Emilio Salgari
Il boa delle caverne

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Il boa delle caverne

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Tutta l'immensa vallata del rio delle Amazzoni, bagnata dal più grande fiume dell'America meridionale, è coperta da foreste d'una bellezza meravigliosa, che non hanno eguale in tutte le altre parti del mondo, ma che godono di una pessima reputazione per l'abbondanza straordinaria di rettili che si celano sotto quelle infinite vôlte di verzura.

I boa più colossali si trovano sotto o sospesi ai rami degli alberi, dove aspettano il passaggio di un animale o d'un Indiano per lasciarsi cadere e avvolgere fra le loro spire la preda; e vi si trovano anche i più sottili e i più piccoli serpenti lunghi quanto un'asticciuola da scrivere e nondimeno pericolosi e forse più dei grossi, perchè velenosissimi.

Guai all'imprudente che si caccia sotto quelle superbe foreste, senza essere armato d'un buon coltellaccio o d'una sciabola da guastatore! Non esce più vivo e muore o stritolato fra le spire terribili dei boa o fulminato dal veleno dei serpenti corallo, contro i cui morsi non v'è nessun antidoto.

Alcuni anni or sono, una profonda commozione si era impadronita dei piantatori della fazenda di San Felipe, appartenente ad un ricco Brasiliano, che si era dedicato alla proficua coltivazione del caffè.

Alcuni negri che si erano recati nella vicina foresta a raccogliere legna secca, erano tornati mezzi morti di paura, raccontando d'aver incontrato un serpente così lungo e così grosso da non potersene trovare l'eguale.

Don Manuel Herrera, il proprietario della fazenda, avvertito di quel terribile incontro, e temendo che i suoi lavoranti, quasi tutti schiavi negri, abbandonassero la piantagione, aveva fatto chiamare i boscaioli, essendo poco disposto ad ammettere che avessero realmente veduto un rettile di tali dimensioni.

Aveva già veduto più volte dei serpenti mostruosi e anche parecchi ne aveva uccisi, ed aveva udito parlare dagl'Indiani d'un mostro immenso, chiamato giloia, che abitava particolarmente i pantani delle savane o paludi e talvolta certe caverne situate presso le rive delle Amazzoni.

Quando i quattro boscaiuoli condotti dal capataz, ossia l'intendente della fazenda, comparvero dinanzi a lui, quei poveri diavoli tremavano ancora in modo da far compassione ed avevano gli occhi ancora sconvolti dal terrore.

Narra tu, Comodisse al più vecchio. – Che serpente è quello che avete veduto?

– Un serpente enorme, orribile, signorerispose lo schiavo con voce spezzata. – Io non ne ho mai veduto uno simile, e credo che non ne esista un altro in tutte le foreste delle Amazzoni. Stavamo tagliando un albero secco, quando udimmo la terra tremare, poi la vedemmo screpolarsi per un tratto immenso, come se qualcuno cercasse di sollevarla. Spaventati da quel fenomeno per noi assolutamente inesplicabile, fuggimmo fino al margine della foresta. Allora vedemmo una cosa spaventevole. Il terreno si era spaccato, rovesciando molte piante che vi crescevano sopra, e da quella spaccatura enorme uscì un serpente che doveva essere lungo almeno venticinque metri e grosso più del corpo di un uomo.

– L'avete proprio veduto?

– Sì, signorerisposero ad una voce i quattro negri.

– Non era un pitone?

– Non mi parverispose Como.

– Come era?

– Tutto nero e coperto da scaglie lucenti.

Il piantatore si volse verso il capataz, che, essendo nato in quelle regioni ed avendo viaggiato molto, poteva dire qualche cosa.

Credi tu che possano esistere serpenti così enormi? – gli disse.

– Può essere un giloia, padronerispose l'intendente. – Un rettile che è raro, la cui esistenza fu messa in dubbio per molto tempo e che pur vive in certe foreste delle Amazzoni.

– Sarà terribile?

– Mi hanno detto che sminuzza un uomo come se fosse un fuscello di paglia.

– Io non credo affatto all'esistenza di simili mostri antidiluvianidisse il piantatore. – Sono però deciso di andare a vedere di quale rettile si tratta e anche di ucciderlo.

– Non esponetevi ad un simile pericolo, signore.

– Avresti paura ad accompagnarmi?

– Io seguo dovunque il mio padronerispose il capataz. – Se andate incontro ad un pericolo, è mio dovere accompagnarvi.

– Allora andremo a cercare questo famoso giloiadisse il piantatore con voce risoluta. – Già non credo affatto alla sua esistenza. Prepara le armi e raduna i cani.

Non era trascorsa mezz'ora quando don Manuel Herrera lasciava la sua casa, seguìto dal capataz e da quattro enormi mastini, di cui si serviva per dare la caccia agli schiavi fuggiaschi e anche per affrontare i giaguari ed i coguari.

Erano cani di una robustezza eccezionale, che avevano tutti un collare di ferro irto di punte assai aguzze, per impedire alle belve di strangolarli.

I quattro negri erano già partiti e dovevano aspettarli sul margine della foresta.

Era il meriggio. Un sole ardentissimo lasciava cadere a piombo i suoi raggi di fuoco, abbrustolendo le spalle dei poveri negri, dispersi fra le piantagioni di caffè, e un silenzio profondo regnava in tutta la vallata. Gli uccelli, assopiti da quel calore intenso, non facevano più udire i loro cicalecci. Perfino i pappagalli, quegli eterni chiacchieroni, stavano zitti, allineati sotto le immense foglie delle palme jupati che li coprivano interamente.

Don Manuel ed il capataz attraversarono frettolosamente i terreni scoperti, dove potevano buscarsi un buon colpo di sole, essendo sommamente pericoloso, nelle vallate delle Amazzoni, esporsi a quei calori dalle undici del mattino fino alle quattro del pomeriggio. Solo i negri e gli Indiani possono sfidarli impunemente, quantunque lavorino senza avere in testa nemmeno un semplice cappello di foglie intrecciate.

Il bosco fortunatamente non era lontano e sotto potevano difendersi dal sole.

Era più che un bosco, una foresta quasi vergine che occupava un'estensione infinita e che seguiva per leghe e leghe la riva deserta delle Amazzoni.

Vi erano piante di tutte le specie e di tutte le dimensioni, che crescevano le une accanto alle altre, collegate da liane, e moltissime veramente preziose.

In quelle regioni fortunate, un uomo può trovare, senza bisogno di coltivare il suolo e di lavorare, tutto ciò che è necessario alla sua esistenza.

In esse sono alberi che vi danno del latte buonissimo, che non è per nulla differente da quello che danno le nostre mucche. Basta fare un'incisione nel tronco, ed il liquido saporito sgorga in abbondanza.

Ve ne sono altri che danno una specie di pane, o meglio certi frutti grossi come la testa d'un fanciullo, pieni d'una certa polpa che si taglia a fette e che si abbrustolisce su carboni ed ha un gusto che rammenta il carciofo.

Altri ancora, poi, che producono la cera per fare delle buone candele, o dei filamenti per tessere vestiti resistentissimi, e poi frutti squisiti come i banani, gli ananassi, le pine, ecc.

Quando il piantatore ed il capataz giunsero presso i primi alberi, trovarono i quattro negri rannicchiati dietro il tronco d'un cocco, coi visi smorti.

Padronedisse Como, – non costringeteci ad andare più innanzi. Noi abbiamo troppa paura del giloia.

– Non saprei che cosa farne del vostro aiutorispose il piantatore.

– L'avete più riveduto il serpente?

– No, signore.

– Da dov'è sorto?

Troverete la spaccatura a cinquecento passi da qui.

Andiamo, capatazdisse Herrera. – E voi, poltroni, tornate alla piantagione.

Fece sguinzagliare i quattro mastini, armò il fucile e s'avanzò sotto la foresta.

Guardate sempre in alto, padronedisse il capataz. – I boa si nascondono sovente fra le foglie e si gettano penzoloni non appena scorgono la preda.

– Me ne guarderòrispose il piantatore.

I mastini cominciavano a dar segni di inquietudine.

Si fermavano sovente, fiutando ora l'aria ed ora la terra e mugolavano, guardando il padrone.

Parevano spaventati, eppure erano animali da non temere nemmeno i ferocissimi giaguari che sono le tigri dell'America.

Percorsi i cinquecento passi, si trovarono dinanzi ad una spaccatura grandissima. Il suolo, che pareva formato da fango secco, era stato sollevato per un tratto lunghissimo e la spinta del mostro era stata tale da rovesciare parecchie piante.

Era qui sotto che si nascondeva il rettiledisse il piantatore, stupito che un serpente avesse potuto sviluppare una simile forza.

– Si vedono ancora delle scaglie e dei lembi di pelle dispersi fra i rottamirispose il capataz, che girava intorno sguardi smarriti.

Credi tu che si tratti veramente di uno di quei famosi giloia?

– Io ho udito raccontare che quei mostruosi rettili, durante la stagione secca, s'immergono nei pantani dove cadono in un profondo letargo o che si nascondono nelle caverne, dalle quali non escono che dopo due o tre mesi.

Dove sarà fuggito quel mostro?

– Si sarà diretto verso il fiume per cercare un asilo in quelle caverne. Voi sapete, signore, che se ne trovano molte in questi luoghi.

Affidiamoci ai canidisse il piantatore. – Mi pare che siano già sulla buona pista.

I quattro mastini, dopo aver percorso tutta la fenditura, annusando, erano risaliti dalla parte opposta, mettendosi a sgambettare tra le foglie secche che ricoprivano il suolo della foresta.

Dovevano avere scoperto la traccia dell'enorme rettile e si preparavano a seguirla.

Don Herrera ed il capataz armarono i fucili e si misero in cammino dietro ai cani, guardando ora sotto i folti cespugli o fra i rami, quantunque fossero convinti che un mostro di quella mole non potesse salire su quelle piante senza spezzarle.

Avevano scoperto un passaggio fra le piante, come un solco immenso, che doveva essere stato tracciato dal mostruoso rettile.

Molte giovani piante erano state atterrate e numerosi cespugli interamente fracassati.

Il piantatore cominciava a credere alla esistenza del favoloso giloia, confermata dagli Indiani a più riprese. Le prove ormai erano troppo evidenti.

Camminavano da mezz'ora, seguendo sempre i cani, quando questi si misero a latrare in modo speciale ed a ringhiare.

Si trovavano allora nei pressi del fiume. Si udivano già i muggiti dell'immenso Amazzoni, le cui acque urtavano poderosamente le rive rocciose che si opponevano al suo corso.

Padronedisse il capataz, che era diventato livido, – dobbiamo trovarci presso il rifugio del serpente.

– Ci sono delle caverne qui? – chiese il piantatore.

– Sì, ve n'è una immensa, che nessuno ha mai osato esplorare e che si crede metta nel cuore d'una montagna.

Taglieremo dei rami resinosi e andremo a visitarla.

Stavano per rimettersi in cammino, quando udirono verso il fiume delle urla orribili che pareva uscissero dalla gola di una donna.

Jaco! Jaco! – gridava quella voce, con accento di terrore impossibile a descriversi.

Il piantatore ed il capataz si slanciarono verso il fiume, preceduti dai cani che urlavano ferocemente.

L'Amazzoni scorreva fra due alte ripe rocciose traforate da buchi profondi, che dovevano forse mettere nelle caverne accennate dal capataz.

 

Lo spaventoso rettile l'aveva scorta e scendeva con la bocca spalancata...

 




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