Il boa delle caverne
Testo
Tutta l'immensa
vallata del rio delle Amazzoni, bagnata dal più grande fiume dell'America meridionale,
è coperta da foreste d'una bellezza meravigliosa, che non hanno eguale in tutte
le altre parti del mondo, ma che godono di una pessima reputazione per
l'abbondanza straordinaria di rettili che si celano sotto quelle infinite vôlte
di verzura.
I boa più colossali si trovano
là sotto o sospesi ai rami degli alberi, dove aspettano il passaggio di un
animale o d'un Indiano per lasciarsi cadere e avvolgere fra le loro spire la
preda; e vi si trovano anche i più sottili e i più piccoli serpenti lunghi
quanto un'asticciuola da scrivere e nondimeno
pericolosi e forse più dei grossi, perchè velenosissimi.
Guai all'imprudente che si
caccia sotto quelle superbe foreste, senza essere armato d'un buon coltellaccio
o d'una sciabola da guastatore! Non esce più vivo e muore o stritolato fra le
spire terribili dei boa o fulminato dal veleno dei serpenti corallo, contro i
cui morsi non v'è nessun antidoto.
Alcuni anni or sono, una
profonda commozione si era impadronita dei piantatori della fazenda di
San Felipe, appartenente ad un ricco Brasiliano, che
si era dedicato alla proficua coltivazione del caffè.
Alcuni negri che si erano recati
nella vicina foresta a raccogliere legna secca, erano tornati mezzi morti di
paura, raccontando d'aver incontrato un serpente così lungo e così grosso da
non potersene trovare l'eguale.
Don Manuel Herrera,
il proprietario della fazenda, avvertito di quel terribile incontro, e
temendo che i suoi lavoranti, quasi tutti schiavi negri, abbandonassero la
piantagione, aveva fatto chiamare i boscaioli, essendo poco disposto ad
ammettere che avessero realmente veduto un rettile di tali dimensioni.
Aveva già veduto più volte dei
serpenti mostruosi e anche parecchi ne aveva uccisi, ed aveva udito parlare
dagl'Indiani d'un mostro immenso, chiamato giloia,
che abitava particolarmente i pantani delle savane o paludi e talvolta certe
caverne situate presso le rive delle Amazzoni.
Quando i quattro boscaiuoli condotti dal capataz,
ossia l'intendente della fazenda, comparvero dinanzi a lui, quei poveri
diavoli tremavano ancora in modo da far compassione ed avevano gli occhi ancora
sconvolti dal terrore.
– Narra tu, Como – disse al più
vecchio. – Che serpente è quello che avete veduto?
– Un serpente enorme, orribile, signore
– rispose lo schiavo con voce spezzata. – Io non ne ho mai veduto uno simile, e
credo che non ne esista un altro in tutte le foreste delle Amazzoni. Stavamo
tagliando un albero secco, quando udimmo la terra tremare, poi la vedemmo
screpolarsi per un tratto immenso, come se qualcuno cercasse di sollevarla.
Spaventati da quel fenomeno per noi assolutamente inesplicabile, fuggimmo fino
al margine della foresta. Allora vedemmo una cosa spaventevole. Il terreno si
era spaccato, rovesciando molte piante che vi crescevano sopra, e da quella
spaccatura enorme uscì un serpente che doveva essere lungo almeno venticinque
metri e grosso più del corpo di un uomo.
– L'avete proprio veduto?
– Sì, signore – risposero ad una
voce i quattro negri.
– Non era un pitone?
– Non mi parve – rispose Como.
– Come era?
– Tutto nero e coperto da
scaglie lucenti.
Il piantatore si volse verso il capataz, che, essendo nato in quelle regioni ed
avendo viaggiato molto, poteva dire qualche cosa.
– Credi tu che possano esistere
serpenti così enormi? – gli disse.
– Può essere un giloia, padrone – rispose l'intendente. – Un rettile
che è raro, la cui esistenza fu messa in dubbio per molto tempo e che pur vive
in certe foreste delle Amazzoni.
– Sarà terribile?
– Mi hanno detto che sminuzza un
uomo come se fosse un fuscello di paglia.
– Io non credo affatto
all'esistenza di simili mostri antidiluviani – disse il piantatore. – Sono però
deciso di andare a vedere di quale rettile si tratta e anche di ucciderlo.
– Non esponetevi ad un simile pericolo,
signore.
– Avresti paura ad
accompagnarmi?
– Io seguo dovunque il mio
padrone – rispose il capataz. – Se andate
incontro ad un pericolo, è mio dovere accompagnarvi.
– Allora andremo a cercare
questo famoso giloia – disse il piantatore con
voce risoluta. – Già non credo affatto alla sua esistenza. Prepara le armi e
raduna i cani.
Non era trascorsa mezz'ora
quando don Manuel Herrera lasciava la sua casa, seguìto dal capataz e
da quattro enormi mastini, di cui si serviva per dare la caccia agli schiavi
fuggiaschi e anche per affrontare i giaguari ed i coguari.
Erano cani di una robustezza
eccezionale, che avevano tutti un collare di ferro irto di punte assai aguzze,
per impedire alle belve di strangolarli.
I quattro negri erano già
partiti e dovevano aspettarli sul margine della foresta.
Era il meriggio. Un sole ardentissimo lasciava cadere a piombo i suoi raggi di
fuoco, abbrustolendo le spalle dei poveri negri, dispersi fra le piantagioni di
caffè, e un silenzio profondo regnava in tutta la
vallata. Gli uccelli, assopiti da quel calore intenso, non facevano più udire i
loro cicalecci. Perfino i pappagalli, quegli eterni chiacchieroni, stavano
zitti, allineati sotto le immense foglie delle palme jupati
che li coprivano interamente.
Don Manuel ed il capataz attraversarono frettolosamente i terreni
scoperti, dove potevano buscarsi un buon colpo di sole, essendo sommamente
pericoloso, nelle vallate delle Amazzoni, esporsi a quei calori dalle undici
del mattino fino alle quattro del pomeriggio. Solo i negri e gli Indiani
possono sfidarli impunemente, quantunque lavorino senza avere in testa nemmeno
un semplice cappello di foglie intrecciate.
Il bosco fortunatamente non era
lontano e là sotto potevano difendersi dal sole.
Era più che un bosco, una
foresta quasi vergine che occupava un'estensione infinita e che seguiva per
leghe e leghe la riva deserta delle Amazzoni.
Vi erano piante di tutte le
specie e di tutte le dimensioni, che crescevano le une accanto alle altre,
collegate da liane, e moltissime veramente preziose.
In quelle regioni fortunate, un
uomo può trovare, senza bisogno di coltivare il suolo e di lavorare, tutto ciò
che è necessario alla sua esistenza.
In esse sono alberi che vi danno
del latte buonissimo, che non è per nulla differente da quello che danno le
nostre mucche. Basta fare un'incisione nel tronco, ed il liquido saporito
sgorga in abbondanza.
Ve ne sono altri che danno una
specie di pane, o meglio certi frutti grossi come la testa d'un fanciullo,
pieni d'una certa polpa che si taglia a fette e che si abbrustolisce su carboni
ed ha un gusto che rammenta il carciofo.
Altri ancora, poi, che producono
la cera per fare delle buone candele, o dei filamenti per tessere vestiti resistentissimi,
e poi frutti squisiti come i banani, gli ananassi, le pine, ecc.
Quando il piantatore ed il capataz giunsero presso i primi alberi, trovarono i
quattro negri rannicchiati dietro il tronco d'un cocco, coi visi smorti.
– Padrone – disse Como, – non
costringeteci ad andare più innanzi. Noi abbiamo troppa paura del giloia.
– Non saprei che cosa farne del
vostro aiuto – rispose il piantatore.
– L'avete più riveduto il
serpente?
– No, signore.
– Da dov'è sorto?
– Troverete la spaccatura a
cinquecento passi da qui.
– Andiamo, capataz
– disse Herrera. – E voi, poltroni, tornate alla
piantagione.
Fece sguinzagliare i quattro
mastini, armò il fucile e s'avanzò sotto la foresta.
– Guardate sempre in alto,
padrone – disse il capataz. – I boa si
nascondono sovente fra le foglie e si gettano penzoloni non appena scorgono la
preda.
– Me ne guarderò – rispose il
piantatore.
I mastini cominciavano a dar
segni di inquietudine.
Si fermavano sovente, fiutando
ora l'aria ed ora la terra e mugolavano, guardando il padrone.
Parevano spaventati, eppure
erano animali da non temere nemmeno i ferocissimi giaguari che sono le tigri
dell'America.
Percorsi i cinquecento passi, si
trovarono dinanzi ad una spaccatura grandissima. Il suolo, che pareva formato
da fango secco, era stato sollevato per un tratto lunghissimo e la spinta del
mostro era stata tale da rovesciare parecchie piante.
– Era qui sotto che si
nascondeva il rettile – disse il piantatore, stupito che un serpente avesse
potuto sviluppare una simile forza.
– Si vedono ancora delle scaglie
e dei lembi di pelle dispersi fra i rottami – rispose il capataz,
che girava intorno sguardi smarriti.
– Credi tu che si tratti
veramente di uno di quei famosi giloia?
– Io ho udito raccontare che
quei mostruosi rettili, durante la stagione secca, s'immergono nei pantani dove
cadono in un profondo letargo o che si nascondono nelle caverne, dalle quali
non escono che dopo due o tre mesi.
– Dove sarà fuggito quel mostro?
– Si sarà diretto verso il fiume
per cercare un asilo in quelle caverne. Voi sapete, signore, che se ne trovano
molte in questi luoghi.
– Affidiamoci ai cani – disse il
piantatore. – Mi pare che siano già sulla buona pista.
I quattro mastini, dopo aver
percorso tutta la fenditura, annusando, erano risaliti dalla parte opposta,
mettendosi a sgambettare tra le foglie secche che ricoprivano il suolo della
foresta.
Dovevano avere scoperto la
traccia dell'enorme rettile e si preparavano a seguirla.
Don Herrera
ed il capataz armarono i fucili e si misero in
cammino dietro ai cani, guardando ora sotto i folti cespugli o fra i rami,
quantunque fossero convinti che un mostro di quella mole non potesse salire su
quelle piante senza spezzarle.
Avevano scoperto un passaggio
fra le piante, come un solco immenso, che doveva essere stato tracciato dal
mostruoso rettile.
Molte giovani piante erano state
atterrate e numerosi cespugli interamente fracassati.
Il piantatore cominciava a
credere alla esistenza del favoloso giloia,
confermata dagli Indiani a più riprese. Le prove ormai erano troppo evidenti.
Camminavano da mezz'ora,
seguendo sempre i cani, quando questi si misero a latrare in modo speciale ed a
ringhiare.
Si trovavano allora nei pressi
del fiume. Si udivano già i muggiti dell'immenso Amazzoni, le cui acque urtavano
poderosamente le rive rocciose che si opponevano al suo corso.
– Padrone – disse il capataz, che era diventato livido, – dobbiamo
trovarci presso il rifugio del serpente.
– Ci sono delle caverne qui? –
chiese il piantatore.
– Sì, ve n'è una immensa, che
nessuno ha mai osato esplorare e che si crede metta nel cuore d'una montagna.
– Taglieremo dei rami resinosi e
andremo a visitarla.
Stavano per rimettersi in
cammino, quando udirono verso il fiume delle urla orribili che pareva uscissero
dalla gola di una donna.
– Jaco!
Jaco! – gridava quella voce, con accento di terrore
impossibile a descriversi.
Il piantatore ed il capataz si slanciarono verso il fiume, preceduti dai
cani che urlavano ferocemente.
L'Amazzoni scorreva fra due alte
ripe rocciose traforate da buchi profondi, che dovevano forse mettere nelle
caverne accennate dal capataz.
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