Si alzò, guardandosi intorno.
Aveva udito poco prima un leggero mormorio, che indicava la vicinanza di un
torrentello.
Prese la faretra, la vuotò delle
frecce che conteneva e si diresse verso un gruppo di banani.
Non si era ingannato. Sotto le
gigantesche foglie scorreva un filo d'acqua abbastanza limpida, che si
raccoglieva in un piccolo bacino.
Il dottore riempì la faretra, si
strappò una manica della camicia e ritornò verso il ferito, il quale,
nonostante i dolori intensi che doveva provare, si manteneva impassibile.
Gli lavò la ferita
abbondantemente, riunì come meglio poté le carni lacere e le fasciò
strettamente, servendosi della larga striscia di cotone filato grossolanamente
che lo Stiengo portava sopra il gonnellino.
«È fatto,» disse. «Per ora non hai
bisogno che di riposo.»
«Tu sei un bravo uomo bianco,»
disse il ferito. «Puoi considerarmi, d'ora innanzi, come un tuo schiavo.»
«Non affaticarti e coricati.»
«Non ne sento la necessità, uomo
bianco. Non provo quasi più dolore.»
«Siete meno sensibili degli
abissini e dei pellirosse, voi,» disse il dottore. «Giacché lo vuoi, parliamo
pure. Mi preme sapere da te molte cose che m'interessano. Sai dirmi anzitutto
dove ci troviamo?»
«Presso le paludi del
Tuli-Sap.»
«Molto lontano dalla foce del
Kun-Boreye?»
«Mezza giornata di marcia.»
«Hai mai veduto su queste rive
una vecchia pagoda diroccata?»
«Mi pare d'averla visitata una
volta.»
«Sapresti condurmi colà?»
«Lo spero, ma è lontana almeno
due giorni di marcia, perché bisogna girare intorno a tutte le paludi, che
s'addentrano assai nei boschi; e poi in quella direzione si devono trovare i
Kayan.»
«Chi sono questi Kayan?» chiese
Roberto, un po' sorpreso.
«Dei selvaggi laotini, che di
quando in quando piombano su queste foreste, distruggendo i nostri villaggi e
saccheggiando i nostri raccolti.»
«Quando sono giunti?»
«Ieri sera hanno incendiato il
mio villaggio, massacrando gran parte dei guerrieri e facendo prigioniere le
donne, che poi venderanno come schiave ai Cinesi.»
Il dottore impallidì e il suo
pensiero corse subito a Lakon-tay e alla dolce
Len-Pra.
«Se incontrano i miei amici, sono
perduti,» disse. «Come avvertirli di questo pericolo?»
«Che cosa mormori, uomo bianco?» chiese
lo Stiengo, che lo guardava attentamente.
«Ho lasciato degli amici nella
vecchia pagoda e tremo per loro.»
«Hanno delle armi da fuoco?»
«Sì, e parecchie.
«Allora i Kayan non oseranno
assalirli, avendo una paura invincibile per la polvere che tuona. Puoi essere
tranquillo, uomo bianco.»
«Quando ti ho incontrato, dove
andavi?»
«Cercavo di raggiungere un grosso
villaggio il cui capo è mio amico,» rispose il selvaggio. «Avevo appena
lasciato il mio canotto sulla riva della palude per provvedermi di banane.»
«È lontano?»
«Un mezzo miglio.»
«Appena potrai mi ci condurrai e
tenterò di raggiungere il villaggio, purché il capo mi accordi protezione.»
«A te e anche ai tuoi amici,»
rispose lo Stiengo. «Tu hai salvato la mia vita ed io salverò la tua. Vuoi che
partiamo, uomo bianco?»
«Ferito come sei?» chiese Roberto
con stupore.
«La spalla guarirà egualmente,
non darti pensiero. Cerchiamoci la colazione, poi raggiungiamo la palude. Qui
non siamo troppo sicuri e se Dorey mi trova, non mi risparmierà.»
«Chi è costui?»
«Il capo dei Kayan e mi odia
terribilmente, perché l'anno scorso gli ho ucciso suo fratello.»
«Giacché affermi di non provare
dolore alcuno, cerchiamo la colazione, poi partiamo,» rispose il dottore.
Avendo scorto a breve distanza un
altro gruppo di banani, che portavano degli enormi grappoli di frutta ben
mature, vi si diresse, dopo essersi però armato della sciabola, per timore
d'incontrare la pantera, che forse non si era molto allontanata.
Si spinse sotto le immense foglie
d'una pianta e recise un grappolo che doveva pesare almeno una ventina di
chilogrammi.
Stava per raccoglierlo, quando
udì a breve distanza un sordo mugolio.
«La pantera ci spia,» mormorò.
«Lo sospettavo.»
Si guardò intorno coprendosi
colla sciabola, poi, non udendo più nulla, raccolse il grappolo e fuggì a tutte
gambe, raggiungendo lo Stiengo.
«Sei minacciato, uomo bianco?»
chiese il selvaggio, afferrando il suo arco.
«No, ma la pantera non si è
allontanata.»
«Non oserà assalirci ora che
siamo in due. Facciamo colazione, poi partiremo.»
Mangiarono alcune banane, si
dissetarono al rivoletto, poi si misero in cammino, avviandosi verso la palude,
che, come si disse, non distava molto.
Mezz'ora dopo lo Stiengo si
arrestava presso la foce d'un fiume piuttosto largo e rapidissimo e mostrava al
dottore un canotto scavato col ferro e col fuoco nel tronco d'un albero, di
forme snelle e anche eleganti, fornito di due lunghi remi.
«Sai guidarlo, uomo bianco?»
«Sì,» rispose Roberto.
«Imbarchiamoci.»
«E la tua spalla?»
«Remerò egualmente, ti ho detto.
Fuggiamo e presto. Temo i Kayan.»
«Io credo che vedendoti assieme
ad un uomo bianco non oseranno assalirti.»
«Rispetteranno forse te, ma non
me. Dorey ha giurato di vendicare suo fratello e manterrà la parola, quantunque
io sia uomo da saper difendere la pelle a lungo, non avendo rivali nel maneggio
della sciabola.»
Tagliarono la fune, presero i
remi e spinsero il canotto al largo, risalendo la corrente con sufficiente
rapidità.
Il selvaggio figlio delle foreste
umide dava una prova straordinaria di resistenza e pareva che veramente non
sentisse dolore alcuno. Era d'altronde un uomo vigoroso, che doveva possedere
una forza poco comune e che, remando, sviluppava dei muscoli enormi.
Avevano percorso qualche miglio,
tenendosi lontani dalle due rive, coperte da alberi immensi che intrecciavano i
loro rami al di sopra del fiume, quando Roberto vide lo Stiengo abbandonare il
remo e mettersi in ascolto.
«Che cos'hai?» gli chiese.
Lo Stiengo, invece di rispondere,
con un colpo di remo arenò il canotto su un banco di sabbia che sorgeva in
mezzo al fiume.
«Kra... kra...» si
udì gridare in quel momento verso la riva destra.
«Kra... kra...»
mormorò lo Stiengo. «Questo non è un grande tucano dal becco doppio, che grida kra...
non odo l'o. Che cosa ne dici, uomo bianco?»
Il dottore ascoltava, tentennando
la testa. Aveva udito parecchie volte le grida stridenti dei grossi tucani
delle foreste Siamesi, ma non erano uguali a queste.
«Neppure io ho mai udito uno di
quegli uccelli lasciare nel becco l'o,» disse finalmente il dottore, che
appariva inquieto. «Che qualcuno cerchi d'imitarlo?»
«Così la penso anch'io,» rispose
lo Stiengo. «Ecco che ricomincia: kra... kra... kra...»
«Èun segnale,» disse Roberto.
«E fatto da chi?»
«Che sia uno dei tuoi compagni?
Qualcuno può essere sfuggito alla strage.»
Lo Stiengo crollò il capo.
«Gli Stienghi,» disse, «quando
vogliono segnalare la presenza d'un nemico, imitano il grido stridente del
tucano piccolo e non di quello grosso.»
«Allora è qualche Kayan.»
«Ne ho il sospetto.»
«Retrocediamo o andiamo innanzi?»
«Finché nessun pericolo ci
minaccia, continuiamo a risalire il fiume,» rispose il selvaggio. «Intanto
preparo le mie frecce, e teniamoci pronti a tutto.»
«Fra poco giungeremo ad una
cascata, e, quando vi saremo, vedremo che cosa ci converrà fare.»
Attesero ancora qualche minuto,
poi, non udendo più ripetersi quel segnale e supponendo che non li riguardasse,
ripresero i remi e continuarono a rimontare il fiume.
Mentre però l'uno sorvegliava la
riva sinistra, l'altro non staccava gli sguardi da quella di destra, per non
cadere in qualche agguato o prendersi qualche freccia in mezzo al petto.
Avevano così percorso un altro
miglio e cominciavano a udire il rombo prodotto dal salto d'acqua annunciato
dallo Stiengo, che si propagava distintamente sotto la volta di verzura, quando
ai loro orecchi giunsero nuovamente le grida del grosso tucano dal becco
doppio, e anche questa volta sbagliate.
L'o mancava ancora.
«Colui che imita quell'uccello ci
ha seguiti,» disse Roberto, le cui inquietudini aumentavano.
«Non ne ho alcun dubbio,» rispose
lo Stiengo. «Il segnale è identico a quello di prima.»
«Allora è noi che sorveglia.»
«Se potessi vederlo un solo
istante!» disse lo Stiengo, gettando uno sguardo sulle sue armi. Stette un
momento pensieroso, poi rispose: «Tu, uomo bianco, hai mai salito questo
fiume?»
«No, mai,» rispose Roberto.
«Non importa. Tu sai remare; sali
il corso fino a che troverai una cascata e là mi aspetterai.»
«E tu?»
«Vado a uccidere quel maledetto
spione, prima che si unisca ad altri Kayan.»
«Ti esponi ad un grave pericolo.»
«Sono un uomo che non ha paura.»
«Ti credo.»
«Spingiamo il canotto verso la
riva, poi tu continua ad avanzare fino alla cascata. Ti raggiungerò là o meglio
mi troverai là, essendo io più veloce del canotto.»
«Tu sei un coraggioso,» disse
Roberto.
Spinsero l'imbarcazione verso la
riva, che era coperta da altissime canne; poi lo Stiengo, preso il suo arco e
la sciabola, balzò agilmente a terra, facendo all'uomo bianco un gesto d'addio.
Attraversò le canne, strisciando
come un serpente fra i cespugli, e s'arrestò dietro il tronco d'un enorme
albero, tendendo gli orecchi.
Non erano trascorsi venti secondi
che udì di nuovo in mezzo alla foresta le tre note:
«Kra... kra... kra...»
«Manca sempre l'o,»
mormorò il selvaggio. «Ti troverò, maldestro imitatore del grosso tucano, e ti
pianterò una freccia nel collo.»
Lo spione non doveva essere molto
lontano, a giudicare dall'intensità delle grida. Certo aveva seguito il canotto,
tenendosi lontano dalla riva onde non farsi scoprire.
Lo Stiengo levò una freccia
incoccandola sulla corda dell'arco, poi s'inoltrò cautamente sotto le piante,
badando bene a dove metteva i piedi per non far scrosciare le foglie secche o
per non farsi mordere da qualcuno di quei numerosi serpentelli, che pullulano
in quelle umide foreste e che, anche se piccoli, non sono meno velenosi dei
grossi cobra.
Colui che imitava il tucano aveva
ripreso la sua marcia attraverso la foresta, perché le note si udivano ora più
lontane.
Doveva aver scorto, attraverso il
fogliame, il canotto e lo seguiva ancora. Forse non aveva avuto il tempo o la
possibilità di vedere che sul galleggiante si trovava un solo uomo invece di
due.
«Lo coglierò fra le due spalle,»
mormorò lo Stiengo, strisciando sempre velocemente fra gli enormi vegetali che
ad ogni istante gli chiudevano il passo.
Avanzava da una decina di minuti,
studiandosi di guadagnare via sullo spione, quando gli parve di udire dietro di
sé scrosciare delle foglie.
«Che altri abbiano già udito il
suo richiamo e accorrano? Oppure che i Kayan abbiano seguito le mie tracce?»
mormorò. «Mi rincresce per l'uomo bianco a cui io devo la vita, e che forse ho
compromesso lasciandolo unirsi a me.»
Vedendo a pochi passi un folto
cespuglio, lo raggiunse e vi si nascose in mezzo, trattenendo il respiro.
Dapprima non udì nulla, poi
giunsero ai suoi orecchi dei leggeri crepitii, come se qualcuno camminasse su
uno strato di foglie secche, quindi vide sbucare da un macchione parecchi
uomini.
Erano dei brutti individui, dai
lineamenti duri e angolosi, cogli occhi obliqui come quelli dei mongoli, la
pelle quasi nera ed i capelli crespi al pari di quelli degli africani.
Pareva che quei selvaggi avessero
nelle loro vene il sangue di due razze diverse, al pari degli andamani e degli
ata delle isole Filippine e di Mindanao.
Erano tutti quasi nudi ed armati
di pesanti sciabole malamente lavorate e di lunghi archi.
Lo Stiengo soffocò un grido di
terrore: «I Kayan!»
Li contò ad uno ad uno. Erano quindici,
troppi contro due, essendo armati e forse muniti di frecce avvelenate.
«Hanno seguito le mie tracce,»
mormorò lo Stiengo. «Cerchiamo di raggiungere l'uomo bianco e di salvarlo.»
Attese che l'ultimo selvaggio
fosse passato, poi uscì dal suo nascondiglio e si mise a strisciare in
direzione del fiume, colla speranza di ritrovare l'uomo bianco che, ostacolato
dalla violenza della corrente, non doveva aver percorso molto cammino.
Quando giunse sulla riva lo vide
infatti rimontare faticosamente il corso d'acqua, arrancando con lena
disperata.
Mandò un debole fischio per
avvertirlo della sua presenza ed attese, nascosto fra le canne che ingombravano
la riva.
Roberto, udendo quel segnale,
spinse il canotto attraverso il fiume, poi, arenatolo, depose i remi,
impugnando la sciabola.
«Lascia in pace la tua arma,»
disse lo Stiengo, mostrandosi. «Sono io.»
«Hai già ucciso l'uomo che faceva
quei segnali?»
«No, anzi per poco non uccidevano
me.»
«Chi?»
«I Kayan.»
«Sono già qui?»
«Sì, devono aver seguito le mie
tracce.
«Sono in molti?»
«Una quindicina.»
«E dove andavano?» chiese il
dottore.
«Attraversano la foresta. Ti
dico, uomo bianco, che cercano me. Il loro capo vuole la mia testa.»
«Torniamo indietro?»
«Sarebbe egualmente pericoloso.
Quegli uomini vengono dalle paludi.»
«Sicché siamo perduti?»
«Non so che cosa dire,» rispose
lo Stiengo, che pareva avesse perduto tutta la sua audacia.
«Che cosa vuoi fare?»
«Spingerci sino al salto d'acqua.
Il villaggio che io volevo raggiungere per chiedere la protezione di quel capo
non è molto lontano da quel luogo.»
«Se non è stato distrutto dai
Kayan,» rispose Roberto.
«Ah! Questo non lo so.»
«Accostiamoci alla riva destra.»
«Volevo dirtelo, uomo bianco.»
«E apriamo gli occhi.»
«E anche gli orecchi,» aggiunse
lo Stiengo.
«Avanziamo dunque?»
«Sì, fino al salto d'acqua.»
«Riprendi i remi, e avanti.»
Il canotto, spinto da quelle
braccia vigorose, si mise di nuovo a rimontare la corrente, nonostante la
crescente furia delle acque.
La cascata era ormai vicina. Il
fiume si precipitava con impeto furioso fra le due rive, travolgendo e
strappando le erbe e le canne che la coprivano. Il rombo prodotto dalla cascata
diventava di momento in momento più assordante.
In alto, verso la volta
verdeggiante, si vedeva apparire e scomparire l'arcobaleno nel polverio
dell'acqua illuminata dall'ardente sole.
«Forza, uomo bianco, o la
corrente ci trascinerà,» disse lo Stiengo.
«Le braccia sono solide,» rispose
il dottore.
«Se riusciamo a sorpassare la
cascata, troveremo al di là della terza roccia un rifugio dove potremo
nasconderci.»
«Una caverna?»
«Una spaccatura profonda che si
dice sia abitata dallo spirito del male, che tu caccerai.»
«Non inquietarti per quello; tu
sai che gli uomini bianchi sono stregoni potenti.»
«Se non avessi te come compagno,
non vi entrerei, te lo assicuro.»
«Lo farò fuggire,» rispose
Roberto, sorridendo.
«Ecco il salto: forza coi remi,
uomo bianco.»
Non si trattava veramente d'una
cascata, bensì di una rapida, come ce ne sono molte sui fiumi della penisola
indocinese.
Per un tratto di centocinquanta
metri le acque si precipitavano su un pendio roccioso, fiancheggiato da
altissime rupi, muggendo spaventosamente e rimbalzando in candidi fiotti di
spuma.
Verso la cima si ergevano tre
rocce colossali, alte come colline; là il fiume faceva una svolta brusca.
Il dottore e il selvaggio, dopo
aver dato uno sguardo alle due rive, si collocarono l'uno a prua e l'altro a
poppa, e puntati i remi sul petto, affrontarono risolutamente la rapida.
Gli indocinesi sono famosi nel
superarle. Là dove un uomo bianco, per quanto valente battelliere, non
riuscirebbe a vincere la corrente, essi vi riescono e senza troppe difficoltà.
Il canotto saliva, faticosamente
sì, ma senza arrestarsi, quantunque le acque scorressero talvolta sopra i suoi
bordi e vi entrassero, minacciando di calarlo a fondo. Lo Stiengo, più abile
del dottore, faceva sforzi sovrumani, e nelle spinte il remo, appoggiato contro
il suo largo petto, s'incurvava come se fosse lì lì per spezzarsi in due.
«Forza, uomo bianco,» non cessava
di ripetere. «Siamo già presso la prima roccia e alla terza ci riposeremo.»
L'italiano, quantunque si
sentisse spossato, non cedeva.
«Sì, forza,» ripeteva.
Già stavano per raggiungere la
cima della rapida, quando udirono per la terza volta risuonare le note del
grosso tucano, più acute e più precipitose di prima.
«Kra... kra... kra...»
«Giungono!» esclamò il selvaggio,
digrignando i denti. «Ci hanno scorti e non tarderanno a comparire. Dannato
spione!»
Un sibilo lamentevole si udì
nell'aria e poco dopo una freccia si piantò nel bordo del canotto, a soli venti
centimetri da Roberto.
«Ecco il primo avviso,» disse
l'italiano, curvandosi per evitare un secondo dardo che gli passava sopra la
testa.
«Non rispondiamo, uomo bianco,»
disse lo Stiengo, precipitosamente. «Se lasci il remo un solo istante siamo
perduti.»
«No, non lo lascerò, e poi non so
adoperare il tuo arco.»
Urla spaventevoli scoppiarono in
quel momento sulla riva sinistra ed una banda di quindici o venti selvaggi
Kayan comparve sulle rupi che cadevano a piombo sulla rapida.
Fortunatamente la prima roccia
era vicina ed il canotto aveva ormai raggiunto la cima della cascata. Lo
Stiengo con un vigoroso colpo di remo lo spinse dietro la rupe, mettendolo per
il momento al coperto dai proiettili.
«Afferra quella radice che sporge
e sostiamo un momento,» gli disse Roberto. «Non ne posso più.»
Il selvaggio, vedendo che il
compagno era completamente sfinito, fu pronto ad obbedire. Là d'altronde non
correvano ormai più alcun pericolo, essendo sufficientemente riparati.
«Pochi istanti,» disse lo
Stiengo. «Ho fretta di giungere alla terza rupe.»
«Nel passaggio dall'una all'altra
ci saetteranno,» rispose Roberto.
«La corrente è meno rapida, e
potremo per qualche momento gettarci in fondo al canotto.»
«Sono in buon numero.»
«Troppi per affrontarli.»
«Dove saranno i miei amici?» si
chiese con angoscia il dottore. «Che Len-Pra e
Lakon-tay siano stati sorpresi e fatti prigionieri nei
pressi della pagoda? E non poter saper nulla! Non bastava il tradimento; anche
i Kayan dovevano mettersi della partita! E noi, come ce la caveremo?» chiese,
rivolgendosi allo Stiengo.
«Finché ho delle frecce, i Kayan
non ci prenderanno.»
«Non ne possiedi più d'una
ventina.»
«Potrebbero bastare, se colpissi
sempre.»
«Ripartiamo?»
«Sì, uomo bianco, se ti sei
riposato sufficientemente.»
«Ho preso un po' di respiro.»
«Bada che non ti colgano. Devono
aspettarci in qualche buon punto.»
«Li terrò d'occhio.»
Ripresero i remi e si misero a
seguire la base della rupe cercando di non allontanarsene, poiché i Kayan,
occupando le rocce della riva che erano altissime in quel luogo, potevano
salutarli con una nuvola di dardi.
Giunti al passo, raddoppiarono la
velocità per raggiungere la seconda rupe.
Come avevano previsto, i selvaggi
li aspettavano radunati sulla riva. Vedendoli comparire mandarono il loro urlo
di guerra, poi fecero scattare gli archi precipitosamente.
Sette od otto dardi giunsero fino
al canotto, però Roberto e lo Stiengo avevano avuto il tempo di ritirare i remi
e di lasciarsi cadere dietro il bordo, sicché non furono colpiti.
Vedendoli scomparire ancora
incolumi dietro la seconda roccia, i Kayan mandarono urla feroci, percuotendo
contemporaneamente le loro sciabole l'una contro l'altra in segno di sfida.
«Sono furibondi,» disse il
dottore.
«Che crepino,» rispose lo
Stiengo, «e che il genio malvagio li polverizzi.»
«Passeremo felicemente anche il
secondo passaggio?
«Speriamolo.»
«Dov'è la spaccatura?»
«A metà della terza roccia.»
«È profonda?»
«Io non l'ho mai esplorata,
tuttavia credo che lo sia. Mi hanno narrato che si odono in fondo dei rumori
strani, che devono essere prodotti dal cattivo genio del fiume.»
«O dall'acqua che si frange
intorno al masso?»
«Non so nulla, uomo bianco. Ci
sei tu e basta.»
Avanzarono rapidamente anche
sotto la seconda rupe, poi si slanciarono risolutamente attraverso l'ultimo
passaggio.
La loro comparsa fu così fulminea
che i Kayan, i quali non se l'aspettavano forse così presto, non ebbero il
tempo di afferrare gli archi. Quando i dardi volarono, era ormai troppo tardi.
«Ce l'abbiamo fatta,» disse il
dottore, lieto di quell'insperato successo.
«Non è ancora finita,» rispose lo
Stiengo, il quale sembrava invece assai preoccupato.
«Non è vicino il rifugio?»
«È vero, ma dopo che cosa accadrà
di noi? Ci assedieranno.»
«Non hanno canotti per giungere
fin qui.»
«Sono tutti abili nuotatori quei
selvaggi, ed una rapida non fa loro paura,» rispose lo Stiengo. «Ci siamo: la
vedi la spaccatura, uomo bianco?»
Il dottore alzò gli occhi e vide
a circa cinque metri sopra la sua testa una fenditura semicircolare che
somigliava alla bocca d'un forno, ma immensamente più larga e tenebrosa.
Una specie di canaletto, scavato
nella roccia dalle acque, conduceva lassù.
«Approdiamo,» disse il dottore,
accostando il canotto alla rupe.
«Non entrerò se prima non
manderai uno scongiuro al genio del fiume,» rispose lo Stiengo.
«Lascia fare a me.»
Ormeggiarono il canotto,
legandolo solidamente ad una grossa radice che spuntava da una fessura, presero
le loro armi e si cacciarono nel canaletto, arrampicandosi coi piedi e colle
mani.
In meno di mezzo minuto si
trovarono dinanzi all'apertura. Roberto, che precedeva, udì subito dei cupi
fragori uscire da quella galleria o caverna che fosse, fragori che gli
Stienghi, assai superstiziosi, attribuivano al genio del fiume, che aveva
scelto quel luogo per sua dimora.
«Ci sarà qualche cascata
nell'interno,» pensò.
«Odi?» chiese il selvaggio.
«Sì,» rispose Roberto.
«Si dice che sia la respirazione
del mostro che abita la spelonca.»
«Gli manderò un potente
malefizio, che lo renderà incapace di farci alcun male.»
Entrò nella spaccatura, ma aveva
appena mosso qualche passo, quando un sibilo spaventevole rintronò in fondo
alla caverna, facendolo retrocedere vivamente.
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