Lo Stiengo aveva pure udito quel
sibilo acutissimo, che pareva uscisse dalla gola di qualche belva o meglio di
qualche mostruoso serpente, e si era gettato a precipizio giù per il canaletto,
raggiungendo il canotto.
«Lo avrà creduto lo spirito del
fiume,» disse Roberto, impugnando saldamente la sciabola. «Io invece sono certo
che si tratti di qualche rettile. Non ci mancava che questo per impedirci di
sfuggire alle frecce dei Kayan!»
Fece qualche passo innanzi. Sotto
la volta della caverna, che sembrava piuttosto bassa, l'oscurità era così fitta
da non permettere di scorgere cosa alcuna.
Si chinò verso il canaletto
esteriore e fece segno allo Stiengo di raggiungerlo.
Il selvaggio, che pareva in preda
ad un profondo terrore, dapprima esitò, poi si fece animo e risalì fino alla
spaccatura, chiedendo:
«L'hai veduto, uomo bianco, il
cattivo spirito del fiume?»,
«Non si tratta d'un genio
malvagio, rassicurati,» gli rispose Roberto. «Quello che ci ha spaventati è un
pitone.»
«Allora la cosa è ben diversa,»
rispose il selvaggio. «Io non ho paura dei serpenti quando posseggo una
sciabola.»
«Deve essere grosso, a giudicare
dalla potenza del suo fischio.»
«Gli taglierò egualmente la
testa.»
«Non abbiamo alcun ramo resinoso
per illuminare l'antro.»
«Gli Stienghi ci vedono anche di
notte, come le tigri e le pantere. Resta qui, uomo bianco, giacché non si
tratta di misurarci con uno spirito malvagio; lascia che vada a vedere io con
quale rettile abbiamo a che fare.»
«Sta in guardia.»
«Ho la sciabola, e non vi è arma
migliore per affrontare i serpenti.»
Il selvaggio, che doveva
possedere un coraggio poco comune, getto l'arco e la faretra che non gli erano
di nessuna utilità, impugnò solidamente la pesante sciabola e s'avanzò
cautamente fra le tenebre.
Roberto era rimasto fuori per
sorvegliare le mosse dei Kayan, e si teneva anche pronto ad accorrere in aiuto
del bravo Stiengo.
Erano trascorsi due o tre minuti,
quando lo vide ritornare precipitosamente, cogli occhi dilatati dal terrore e
il viso sconvolto.
«L'hai ucciso?» gli chiese.
«No, uomo bianco, non ho avuto il
coraggio di affrontarlo,» rispose lo Stiengo. «Io non ho mai veduto un pitone così
enorme.»
«Era molto grosso?»
«Quanto il tuo corpo, e
lunghissimo.»
«È impossibile!...»
«L'ho veduto benissimo, essendo
l'ultima caverna rischiarata da un pertugio aperto nella parete. Se ne stava
raggomitolato là dentro, pronto a scagliarsi.»
«Io non ho mai udito raccontare
che esistano dei serpenti così colossali,» disse Roberto.
«Tu no, ma io sì,» rispose lo
Stiengo. «I vecchi della mia tribù mi hanno più volte narrato d'aver incontrato
dei rettili lunghi perfino trenta piedi e così grossi da poter digerire un uomo
intero; anzi una volta ho veduto anch'io, in mezzo ad una foresta umida, uno
dei loro letti.»
«Un letto!» esclamò Roberto.
«Sì e vi giaceva ancora la pelle
del mostro, una pelle gigantesca e così rotonda, che io avrei potuto cacciarmi
dentro senza alcuna difficoltà.
Si dice che, all'avvicinarsi
della stagione delle piogge, quei pitoni si scavino una fossa e che si lascino
poi coprire dalla terra e dalle erbe, rimanendo là sotto, in un letargo
profondo, alcuni mesi: e non ne escano che al principio della stagione secca,
dopo aver cambiato la pelle.
Allora vanno a rintanarsi in
qualche antro fra le rocce e perciò vengono chiamati pitoni delle caverne.»
«Se è così, lasciamolo in pace e
occupiamoci invece dei Kayan,» disse Roberto. «Rimani tu qui ora, mentre io mi
spingerò fino sulla cima di questa rupe.»
«Guardati dalle loro frecce, uomo
bianco.»
Il dottore aveva già prima
osservato che il canaletto, o meglio la fenditura, si prolungava anche sopra la
caverna, e che la roccia là non era così scoscesa come gli era sembrato prima.
Si appese la sciabola al fianco, guardò attentamente se non vi fosse qualche
nuotatore nel fiume, poi, pienamente rassicurato, cominciò ad inerpicarsi,
aggrappandosi agli sterpi che crescevano in buon numero e puntando i piedi sui
margini del canaletto.
La cima non era che a duecento
metri, e pareva che vi fosse lassù uno spazio sufficiente per permettere ad
alcuni uomini di stabilirvisi.
Procedendo con precauzione onde
non capitombolare nel fiume che gli muggiva sotto i piedi, dopo un buon quarto
d'ora, l'italiano riuscì a porre i piedi sulla vetta. Vi era lassù un tratto
quasi piano, di tre o quattro metri quadrati, cosparso di massi dietro i quali
ci si poteva nascondere.
Roberto si gettò contro il più
vicino, poi alzò lentamente la testa, guardando verso la riva sinistra che era
alta quasi quanto la rupe.
I Kayan non avevano abbandonato
il posto. Andavano e ritornavano fra le piante, gesticolando rabbiosamente,
cercando di scoprire i fuggiaschi. Alcuni si erano collocati di fronte ai passi
delle tre rocce per impedire che i due fuggiaschi ritornassero verso la rapida.
«Non hanno alcuna intenzione di
andarsene,» mormorò il dottore. «Che vogliano proprio tenerci assediati?»
Rimase lassù parecchi minuti, poi
si lasciò scivolare lungo il canale, raggiungendo felicemente l'apertura della
caverna che era guardata dallo Stiengo.
«Non se ne sono andati?» chiese
il selvaggio.
«No,» rispose il dottore.
«Che cosa aspettano per
assalirci?»
«Non lo so.»
«Non costruiscono qualche
zattera?»
«Non mi pare.»
«Che attendano dei rinforzi o che
abbiano mandato qualcuno a cercare delle piroghe verso la palude?»
«Guardati!» disse invece il
dottore. «Là, nell'acqua, ci prendono di mira.»
Entrambi si lasciarono cadere a
terra nel medesimo tempo, mentre una freccia si spezzava contro la volta
dell'apertura con secco rumore.
Due Kayan, che dovevano essersi
gettati in acqua al di là della terza rupe, trascinati dalla corrente, erano
improvvisamente comparsi a una distanza di quaranta o cinquanta passi, colla
speranza di sorprendere i fuggiaschi e di colpirli colle loro frecce. Senza
l'avvertimento precipitoso del dottore, vi sarebbero certamente riusciti,
essendo quei selvaggi, generalmente, abilissimi nel maneggio delle loro armi.
Lo Stiengo, non udendo più alcun
sibilo, si rialzò prontamente, coll'arco in mano.
I due nuotatori, fallito il
colpo, si erano immersi, ma non dovevano tardare a ricomparire per prendere una
nuova boccata d'aria.
«Uno almeno lo manderò a
fracassarsi sulle rocce della rapida,» disse lo Stiengo. «Così diverranno più
prudenti.
Coll'arco ben teso, aspettava il
momento propizio per lanciare il suo dardo.
Una testa finalmente apparve alla
superficie. Lo Stiengo, pronto come un fulmine, lasciò andare la corda.
Si udì un leggero sibilo che si
allontanava veloce, poi un grido.
Il nuotatore balzò più che mezzo
fuori dalla corrente, portandosi una mano alla fronte e rompendo furiosamente
il sottile cannello che lo aveva colpito, poi fece un capitombolo, battendo le gambe
in aria.
«Va'! sei finito,» disse lo
Stiengo, con un crudele sorriso. «Nessuno è più abile di me nell'uso dell'arco
e nel maneggio della sciabola. La rapida ti aspetta.»
Il nuotatore continuava a girare
su se stesso, ora mostrando le gambe ed ora le braccia, poi ad un tratto
s'abbandonò alla corrente, che diventava sempre più furiosa, mentre il suo
compagno continuò i suoi tuffi, non mostrando alla superficie che la punta del
naso.
«Ecco un bel colpo che
t'invidio,» disse il dottore. «Sei un terribile arciere.»
«Dove miro, tocco sempre,»
rispose lo Stiengo, sorridendo. «A cinquanta passi attraverso un ananas
piantato su un bastone.»
«Se ne va alla rapida!»
«E giungerà al fondo fracassato.»
«Purché gli altri non vengano a
vendicarlo!...
«È quello che temo.»
«Vuoi un consiglio?...»
«Un uomo bianco non può darne che
di buoni.»
«Giacché non siamo spiati,
lasciamo questo luogo e ripariamo sulla cima della rupe.»
«Potremo poi scendere dall'altra
parte?»
«Ho veduto immense piante
rampicanti che cadono sul fiume.»
«Saremo costretti a rinunciare al
canotto.»
«Sono un buon nuotatore,» rispose
Roberto.
«Anch'io.»
«Seguimi.»
Quell'ascensione, come quella
compiuta poco prima dal dottore, non fu disturbata da alcun incidente
sgradevole.
I Kayan non avevano più mandato
alcun nuotatore, temendo di sacrificare inutilmente altri uomini.
Giunti sulla vetta, i due si
coricarono fra i massi in modo da non poter essere scorti dai nemici, che
vigilavano sempre sulla riva sinistra, sfogando la loro rabbia impotente con
grida feroci e con un inutile spreco di frecce.
«Questa sera verranno qui,» disse
lo Stiengo. «Vedo là alcuni uomini che stanno abbattendo degli alberi per
costruire delle zattere.»
«Toccherà loro una brutta
sorpresa se entreranno nella caverna,» rispose il dottore. «Avranno a che fare
col pitone.»
«Lo uccideranno facilmente,»
rispose lo Stiengo, la cui faccia si era fatta scura. «Poi, non trovandoci là
dentro, saliranno quassù e ci prenderanno. Io so ormai che sono votato alla
morte e sono rassegnato a subirla; è per te che mi rincresce, uomo bianco, che
mi hai salvato la vita e che non potrò ricondurre presso gli amici che ti
aspettano.»
A quel ricordo il dottore mandò
un profondo sospiro.
«Potrò un giorno rivederli?» si
chiese con angoscia. «Povera Len, quanto mi piangerà! Tu credi che mi
risparmieranno?»
«Ne ho la convinzione,» rispose
lo Stiengo. «Non hanno alcun odio contro di te, e preferiranno venderti come
schiavo a qualche mandarino del Laos.»
«Miserabili!» esclamò il dottore,
con indignazione. «Io schiavo!...»
«Ne ricaveranno una buona somma.
Ah!... se potessi giungere al villaggio, ti salverei di certo, uomo bianco.»
«Come vuoi fare? Se ti imbarcassi
sul canotto, ti ucciderebbero facilmente a colpi di freccia, non essendovi più
rocce che possano proteggerti.»
«È vero,» mormorò lo Stiengo.
«Eppure ho un'idea.»
«Quale?»
«Non l'ho ancora ben maturata,
tuttavia... Hai guardato, uomo bianco, se vi sono delle piante sul versante
opposto della roccia?»
«Mi pare d'aver veduto dei calamus
penzolare lungo la parete, e tu sai che quelle piante sono resistentissime.
Vorresti tentare la fuga da quella parte, approfittando delle tenebre?»
«Sì, se ci sarà possibile,»
rispose lo Stiengo. «Ho però un'altra idea che mi frulla pel capo. È me che vogliono,
o meglio la mia testa, e forse il loro capo non si rifiuterà, se è un
coraggioso.
Armiamoci di pazienza, uomo
bianco, e aspettiamo che il sole tramonti.»
Si coricarono all'ombra d'un
macigno e attesero che il sole compisse il suo giro.
La giornata trascorse tranquilla.
I Kayan non si mossero, quantunque avessero costruito due zattere capaci di
trasportarli tutti dall'altra parte del fiume.
Quando le tenebre scesero, furono
veduti radunarsi sulla riva e accendere parecchi falò, i cui riflessi tinsero
le acque di vermiglio fino sul versante opposto della rupe.
«Che facciano dei segnali?»
chiese Roberto allo Stiengo.
«Tentano d'ingannarci,» rispose
questi. «Fingono di prepararsi l'accampamento notturno.»
«E li vedo anche cacciarsi sotto
i boschi, come se cercassero delle frutta per la loro cena.»
«E rimorchiano le loro zattere
verso la rapida,» aggiunse lo Stiengo. «Ti dico che si preparano ad assalirci.»
«Quale resistenza potremo
opporre?»
«Finché avrò una freccia, non mi
arrenderò.»
«Ed io cercherò d'aiutarti.»
«Preferirei che tu non ti
compromettessi, onde evitare il pericolo di farti poi uccidere.»
«Non credevo che tu fossi tanto
magnanimo e tanto generoso, mio bravo amico,» disse il dottore, con voce
commossa. «Qualunque cosa possa succedere a me, non ti lascerò solo a difendere
la rupe.»
«Ah!...»
«Cos'hai?»
«Guarda, hanno lasciato tre
uomini soli a guardia del loro accampamento, per farci credere che non si
muoveranno. Non siamo così stupidi noi, è vero, uomo bianco?»
«Non mi sembra,» rispose Roberto.
«Approfittiamo dell'oscurità per
esplorare il lato opposto della rupe e provare la resistenza delle piante.»
Lo Stiengo ed il dottore, certi
di non essere veduti dai nemici che vegliavano presso i fuochi, s'avanzarono
attraverso le rocce e giunsero sul margine di quel minuscolo altipiano. Là
videro che la rupe non finiva. Un po' più sotto vi era una seconda spianata
assai più ampia, che scendeva dolcemente verso il fiume, tutta cosparsa di
arbusti e di ammassi di piante parassite e di pepe selvatico.
«Forse possiamo calarci in acqua
senza tentare un salto?» chiese Roberto.
«Mi pare che la china si arresti
bruscamente,» rispose lo Stiengo con voce sorda.
Si spinsero fino sull'orlo, e a tutti
e due sfuggì un'imprecazione. Come lo Stiengo aveva previsto, la roccia cadeva
a picco da un'altezza di quaranta o cinquanta metri, e non vi erano piante per
potersi calare.
«Siamo presi,» disse il
selvaggio, «a meno che non ci decidiamo a tentare il salto.
«Non vi saranno delle rocce
sotto?»
«Non è possibile saperlo con
questa oscurità,» rispose lo Stiengo. «E poi, anche saltando, gli uomini che
vegliano presso i fuochi udrebbero il tonfo ed accorrerebbero.»
«Allora non ci rimane che
arrenderci.»
«Ti ho detto, uomo bianco, che io
avevo un progetto.»
«Non me l'hai ancora spiegato.»
«Io conosco il valore dei Kayan e
vedrai che non respingeranno la mia sfida. Potrei morire nella lotta, e potrei
anche riuscire vincitore e salvare me e te.»
«Chi vorresti sfidare?» chiese il
dottore.
«Il loro capo.»
«Ad un combattimento corpo a
corpo?»
«Sì...»
«Accetterà?»
«Non ne dubito.»
«Tu ti dimentichi che hai la
spalla ferita.»
«Non mi darà alcun fastidio,»
rispose lo Stiengo.
«Metterai delle condizioni?»
«Certo: se lo ucciderò, dovranno
lasciarci liberi.»
«Uhm! Ti fidi tu?»
«Assolutamente, anzi... Eh?...
Taci, uomo bianco. Mi pare che vengano. Non odi questi colpi di remo?»
«Sì,» rispose Roberto.
«Seguimi, uomo bianco.»
Riattraversarono correndo la cima
della rupe e raggiunsero l'orlo opposto, sdraiandosi dietro un masso. I Kayan
avevano già cominciato l'ascensione, illuminando la via con due rami resinosi.
Erano in diciassette e tutti armati di pesanti sciabole e di archi. Giunti
dinanzi all'apertura della caverna, sostarono alcuni minuti, temendo
probabilmente qualche sorpresa da parte dei loro nemici, poi, rassicurati dal
silenzio che regnava, vi penetrarono, mandando selvaggi clamori.
«Sveglieranno il grande
serpente,» disse lo Stiengo, ridendo.
Quelle urla durarono alcuni
istanti, diventando sempre più fioche, poi cessarono bruscamente.
«Che il serpente li abbia
divorati tutti?» si chiese Roberto.
«Sono in buon numero e lo
uccideranno,» rispose il selvaggio. «I Kayan sono valorosi e fors'anche più
degli Stienghi.»
«Taci!»
In lontananza si udirono delle
grida che parevano di terrore, poi dei colpi sordi che sembravano prodotti
dall'urto di sciabole. Certo i Kayan si erano trovati dinanzi al gigantesco
rettile e gli davano battaglia.
«Non si ode più nulla,» disse il
dottore, dopo qualche minuto.
«La lotta sarà finita,» rispose
lo Stiengo.
«Crederanno che il serpente ci
abbia divorati?»
«Sarebbe una gran fortuna per
noi. Vorranno però accertarsene squarciando il ventre al pitone, e, non
trovando gli avanzi, vorranno sapere che cosa sarà avvenuto di noi.
Li vedi, uomo bianco?...»
Dei bagliori si rifletterono
sulle rocce esterne, poi alcuni Kayan comparvero, guardando il canale che
saliva verso la cima della rupe.
«Ero certo che non se ne sarebbero
andati senza venire quassù,» disse lo Stiengo. «Sta bene: la vedremo.»
«Ti prepari ad accoglierli a
colpi di frecce?»
«No; per ora lascia fare a me e
vedrai, uomo bianco, come io giocherò quegli ostinati che si sono ficcati in
testa di uccidermi.»
Si alzò, si curvò sul canale e
gridò con voce acuta, in modo da dominare i fragori che venivano dalla rapida:
«Che il capo dei Kayan mi
ascolti. Chi parla è Tatoo, il più valoroso guerriero degli Stienghi.»
Gli assalitori udendo quelle
parole si arrestarono, alzando le torce resinose e preparando gli archi. Per
alcuni momenti rimasero silenziosi, cercando di discernere lo Stiengo che si
teneva sull'orlo della rupe, appoggiato ad un masso enorme; poi mandarono un
urlo feroce, che durò un buon minuto. Quando il silenzio tornò, si udì una voce
gridare:
«Io sono Karruà, uno dei più
famosi guerrieri della tribù dei Kayan, e comando questo gruppo, che per valore
non ha l'uguale. Che cosa vuole ora Tatoo?... Arrendersi o combattere?»
«Misurarsi con te per evitare un
inutile spargimento di sangue,» rispose lo Stiengo.
«Noi occupiamo la cima della rupe
e abbiamo smosso una pietra che lasceremo cadere sulle vostre teste se non
accetti quanto ti ho proposto.
Se Karruà, che si vanta famoso,
mi vincerà, noi ci arrenderemo e taglierai la mia testa; se sarò io il più
valoroso, ci lascerete andare e ritornare tranquilli alla nostra tribù.»
«Un Kayan non rifiuta mai un
combattimento,» rispose Karruà. «Io ti spaccherò la testa, la sospenderò alla
mia capanna e venderò come schiavo l'uomo bianco che hai con te.»
«Mi hanno veduto,» mormorò
Roberto.
«Vieni a misurarti con me
dunque!» gridò lo Stiengo. «Noi lotteremo colla sciabola, purché tu me ne dia
una di peso eguale alla tua, essendo la mia troppo leggera.»
«Sceglierai quella che ti
converrà meglio,» rispose il Kayan.
«Salite: il passo è libero.»
«Non si getteranno addosso a noi
a tradimento, quando saranno qui?» chiese Roberto, che non era molto
tranquillo.
«Non avere questo timore,»
rispose lo Stiengo. «Nelle sfide qui tutti sono leali.»
I Kayan salivano, preceduti da
coloro che portavano i rami resinosi. Per mostrare che gli assediati nulla
avevano da temere da loro, avevano gettato gli archi a bandoliera e si erano
appese le sciabole alla cintura. Quando giunsero sul piccolo altipiano, solo il
loro capo si fece innanzi, tenendo in mano due sciabole, che parevano eguali
sia per peso che per lunghezza.
Era un uomo robusto, di
trentacinque o quarant'anni, alto quasi quanto lo Stiengo e dalle braccia assai
muscolose.
Infisse nei capelli, che erano
lunghi e nerissimi, portava due penne gialle di tucano ed il becco d'un
volatile.
«Sei tu Tatoo?» chiese, muovendo
verso lo Stiengo.
«Sì, io sono colui che ti
ucciderà,» rispose il selvaggio con voce minacciosa.
«Karruà ti mostrerà il contrario,
e avrà la tua testa e anche l'uomo bianco, che venderà al mandarino dei Foang.
Sei tu quello che l'anno scorso ha ucciso il fratello del nostro capo?»
«Non lo nego,» rispose
altezzosamente lo Stiengo.
«Siamo discesi nei boschi umidi
per vendicarlo.»
«Io l'ho ucciso perché devastava
le nostre terre: ero quindi nel mio diritto.»
«Il capo ha giurato di non
ritornare ai suoi monti senza la tua testa.»
«Vieni a prenderla dunque,»
rispose lo Stiengo. «Tu però mi prometterai di risparmiare l'uomo bianco.»
«Non sono così sciocco da
ucciderlo, mentre posso venderlo a prezzo altissimo al mandarino di Foang.
Scegli la sciabola, ed accompagnami là dove potrai mostrare il tuo valore.»
Lo Stiengo pesò le due armi, ne
prese una, poi fece cenno al Kayan di seguirlo.
S'avanzò fino sul declivio e
prese posizione, volgendo le spalle al fiume.
I Kayan, silenziosamente,
formarono circolo intorno ai due combattenti, mantenendosi ad una certa
distanza, onde non impedire le loro mosse.
Il dottore si accostò allo
Stiengo, chiedendogli:
«Sei sicuro di vincere il tuo
avversario?»
«Né io abbatterò lui, né lui
abbatterà me,» rispose il selvaggio sottovoce. «Qualunque cosa succeda, non
spaventarti. Ho un'idea che mi sembra buona.»
«Che io non conosco ancora?»
«Il villaggio dove volevo cercare
rifugio, ritengo che non sia molto lontano. Io indietreggerò verso l'orlo della
roccia e appena potrò spiccherò un salto nel vuoto. Se riesco a salvarmi mi
recherò al villaggio, pregherò il capo che mi dia dei guerrieri e verrò qui a
salvarti.
Venti uomini non sono già una
forza imponente, e posso ottenerne tre volte tanti.»
«E se ti sfracelli sulle rocce
sottostanti?»
«I Kayan non avranno la mia
testa,» rispose lo Stiengo, con voce pacata. «Addio, uomo bianco; se io muoio,
ricordati di me.»
Afferrò la sciabola e si avanzò
verso il capo del drappello, che lo aspettava colle braccia conserte ed il
petto sporgente, in atto di sfida, dicendogli con voce formidabile: «Io sono il
più famoso guerriero della mia tribù ed ho ucciso l'anno scorso ben quattordici
dei tuoi uomini. Nessuno mi ha mai vinto ed ora te ne darò la prova spaccandoti
la testa.»
Il capo dei Kayan a sua volta si
fece innanzi, facendo scintillare al fuoco delle torce la lama della sua
sciabola e gridando con voce stentorea: «Io sono Karruà, il più forte lottatore
della mia tribù, ed ho ucciso tanti Stienghi da non ricordarmene più il numero.
Tutte le fanciulle delle mie montagne cantano le mie lodi.»
«Io ti farò vedere come
combattono gli Stienghi,» rispose Tatoo.
«Ed io come sanno uccidere i
Kayan.»
Ognuno fece risuonare il suo urlo
di guerra, che somigliava all'ululato d'uno sciacallo inferocito, e
indietreggiò poi di qualche passo mettendosi in guardia.
Lo Stiengo, che pareva avesse
molta premura di condurre a termine il combattimento, fu il primo ad assalire,
vibrando all'avversario un tale colpo che qualora l'avesse preso gli avrebbe
spaccato la testa; ma il Kayan, che doveva essere molto esperto, fece un salto
di fianco e parò il colpo colla sciabola che risuonò rumorosamente, mandando
sprazzi di scintille.
«Gli Stienghi non sanno adoperare
le nostre armi,» disse con accento ironico. «Le nostre donne farebbero di
meglio.»
«La lotta è appena cominciata,»
rispose Tatoo, furiosamente. «Mi saprai dire che cosa ne penserai, se ne avrai
il tempo, quando la mia sciabola ti spaccherà il cranio come una scure di
guerra.»
«Resisti a questa dunque!...»
Il Kayan fece un salto innanzi,
poi si gettò a corpo perduto sullo Stiengo, vibrando con rapidità prodigiosa
quattro o cinque colpi, l'uno più formidabile dell'altro.
Tatoo, invece di pararli, si
gettò indietro come se temesse che la sciabola non potesse resistere a quei
colpi, sfuggendo così a quell'impetuoso attacco.
«Lo Stiengo fugge!» gridarono i Kayan,
che assistevano a quel terribile duello.
«Tacete, tucani!» urlò Tatoo.
«Non mi conoscete ancora e vedrete quanto resisterà il vostro capo.»
«Da' addosso, Tatoo!» gridò il
dottore.
Lo Stiengo sorrise furbescamente
ed invece di assalire fece un altro passo indietro, tenendo la sciabola alzata
in modo da coprirsi interamente.
Karruà, vedendo l'avversario
sfuggirgli, mandò un urlo selvaggio e si slanciò innanzi provocandolo
ferocemente.
«Tu non sei un guerriero, sei una
donna! Se tu fossi il gran lottatore che ti vanti di essere, non scapperesti
come una scimmia rossa.»
«Aspetta l'ultimo colpo,» rispose
lo Stiengo. «Poi mi dirai se la mia sciabola taglia.»
«Ti ritiri sempre!...»
«Per accopparti meglio e
scaraventarti nel fiume, brutto coccodrillo.»
«A me coccodrillo?!»
«Non vali più d'un vile
sciacallo.»
«Para questa!...»
Karruà, per la seconda volta, si
avventò contro lo Stiengo e questi, invece di parare, fece un altro passo
indietro, provocando un urlo di indignazione da parte dei Kayan.
«Che lo Stiengo abbia paura di
Karruà?» si chiese con apprensione il dottore. «Eppure mi ha dato già prova di
essere valoroso.»
Tatoo, per mostrare che non
temeva l'attacco del Kayan, gli vibrò due o tre colpi, incalzandolo
vigorosamente e toccandolo ad una spalla in modo però da non spaccargliela, poi
retrocesse vivamente fin sull'orlo dell'abisso, gridando:
«È qui che ti aspetto per darti
il colpo di grazia.»
«Se non ti getterò prima io
nell'abisso che sta aperto dietro di te,» rispose il Kayan. «Se fai un passo
indietro sei spacciato.»
«Fatti sotto dunque e provati, se
ne hai il coraggio.»
«Ti taglierò in due.»
«Femmina!» urlò lo Stiengo. «Io
ti disprezzo.»
«Muori, immondo sciacallo!...»
Il capo dei Kayan si avventò
furiosamente, tempestando l'avversario di colpi formidabili che grandinavano
fitti facendo scintillare l'acciaio.
Lo Stiengo, che doveva essere
realmente un famoso lottatore, li parò tutti con un'abilità che strappò grida
di meraviglia ai suoi stessi nemici, poi fece un ultimo salto indietro.
Stava per voltarsi e per gettarsi
nel fiume, quando incespicò in una radice che non aveva scorto in tempo,
cadendo così sul dorso.
Il dottore mandò un grido a cui
rispose un urlo di trionfo del Kayan. Il selvaggio si precipitò sul disgraziato
Stiengo, come una tigre assetata di sangue, e con un colpo rapido e terribile
gli tagliò netta la testa.
«Ecco vendicato il fratello del
nostro capo,» disse, mostrando ai suoi guerrieri il sanguinoso trofeo. «Noi lo
porteremo alla nostra tribù per far conoscere il valore dei suoi figli.»
Poi il capo dei Kayan, ripetendo
per tre volte il suo selvaggio urlo di guerra, fece ruzzolare con una spinta il
cadavere nell'abisso, nel cui fondo muggivano le acque del fiume.
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