L'atto del Kayan era stato così
fulmineo, che il dottore non aveva avuto il tempo d'intervenire. D'altronde
nulla avrebbe potuto fare contro tutti quei bricconi ben armati e certamente
decisi a non lasciarlo accorrere in aiuto dello Stiengo.
Il capo, dopo aver consegnato la
testa dello sventurato guerriero ad uno dei suoi uomini, si rivolse al dottore,
dicendogli in lingua siamese, che pareva conoscere perfettamente:
«Che cosa sei venuto a fare qui,
uomo bianco? Io ho saputo che quelli della tua razza abitano un paese assai
lontano.»
«Sono venuto qui a cacciare gli
elefanti per incarico del re del Siam,» rispose Roberto. «Questi territori gli
appartengono e tu sai che tutti quei grossi animali sono di proprietà reale. Ti
consiglio quindi di lasciarmi andare libero, senza farmi alcun male, se non
vuoi incorrere nella collera di quel potente monarca.»
Il Kayan non poté frenare uno
scoppio di risa.
«Io non sono suddito siamese, ma
un uomo libero che non è quindi schiavo di nessuno,» rispose con orgoglio. «Tu
sei mio prigioniero e non ti lascerò libero.»
«Farai dunque di me uno schiavo?»
«Non solo, ma ti venderò anche a
caro prezzo. Gli uomini bianchi sono rari come gli elefanti bianchi ed il
mandarino sarà ben lieto di averne uno.»
«Tu sei un miserabile!» gridò Roberto,
cercando di avventarsi sul selvaggio.
I Kayan, che lo sorvegliavano, ad
un cenno del loro capo si gettarono sul povero dottore, strappandogli la
sciabola e legandolo strettamente con due fasce di cotone, colle mani dietro al
dorso.
«Conducetelo nella caverna,»
disse il capo.
Quattro uomini lo afferrarono e
lo calarono giù per il canaletto, con molte precauzioni, per timore che
ruzzolasse fino in fondo e che si sfracellasse sulle rocce sottostanti, poi lo
spinsero dentro la prima caverna, dove era stato acceso un falò con sterpi
secchi strappati qua e là dai fianchi della rupe.
La prima cosa che colpì il
prigioniero fu la vista del serpente pitone, così enorme che mai ne aveva
veduto prima di eguali, e che giaceva in mezzo alla caverna, colla testa quasi
staccata ed il dorso coperto di ferite orribili, dalle quali usciva ancora in
gran copia il sangue. Quel mostro misurava non meno di dodici metri, aveva una
circonferenza di sessanta o settanta centimetri ed era ricoperto di fitte
scaglie brune con larghi punti gialli che luccicavano come se fossero d'oro.
Mentre il dottore lo guardava, i
Kayan entrarono tutti nella caverna, sedendosi intorno al falò.
Il capo infisse su un bastone la
testa dello Stiengo e la collocò sopra il fuoco, tenendola ad una certa
distanza e gettando sui tizzoni dei sarmenti verdi per produrre molto fumo. Si
preparava a conservarla per appenderla poi alla porta della sua capanna, come
usano quei feroci montanari Laotini.
Intanto alcuni uomini si erano
alzati ed a colpi di sciabola fecero a pezzi il pitone, spogliandolo della
pelle.
«Si preparano l'arrosto,» disse
il dottore. «Puah! Mangiare un serpente!»
I Kayan, che non dovevano essere
molto schizzinosi, misero quei pezzi di carne sulla brace, poi quando furono
arrostiti si misero a divorarli ingordamente, come se si trattasse d'un
delizioso manicaretto.
Quando furono gonfi al punto da
scoppiare, si coricarono intorno al fuoco per digerire quella troppo copiosa
cena, mentre due di loro vegliavano all'estremità del canaletto, presso cui si
trovava ancora il canotto dello sventurato Stiengo.
Passarono due o tre ore. Pareva
che tutti si fossero profondamente addormentati, quando improvvisamente si
udirono al di fuori risuonare le note stridenti del grosso tucano:
«Kra... Kra... Kra...»
Anche questa volta mancava l'o.
Karruà, che forse dormiva con un
solo occhio, si rizzò subito brandendo la sua pesante sciabola e spingendosi
rapidamente verso l'uscita della caverna.
Poco dopo uno degli uomini che
vegliavano alla base della rupe entrò precipitosamente.
«Che vuoi, Kosy?» chiese il capo.
«Degli uomini avanzano sul
fiume.»
«Con delle scialuppe?»
«Sì, capo.»
«Sono molti?»
«Non ho potuto contarli.»
«Non sono dei Kayan?»
«Ho udito un segnale diverso dal
nostro.»
«Devono essere Stienghi, forse i
compagni di quello che abbiamo ucciso,» disse il capo. «Fuggiamo nella
foresta.»
Tutti si erano alzati e
aspettavano i suoi ordini. Roberto, che non dormiva, aveva udito il colloquio
tenuto in lingua laotina, che conosceva abbastanza bene.
«Che stia arrivando
Lakon-tay?» si chiese. «No, sono pazzo a farmi simili
illusioni.»
«Prendete l'uomo bianco e
portatelo con noi,» gridò Karruà. «Se resiste o manda un grido uccidetelo con
un colpo di sciabola.»
«Non sarò così stupido,» mormorò
il dottore. «Se sono Stienghi quelli che stanno per giungere, mi libereranno.»
Quattro guerrieri, scelti fra i
più robusti, lo presero e lo portarono fuori, facendolo scivolare giù pel
canaletto, poi lo deposero nel canotto di Tatoo.
Mentre gli altri prendevano posto
nelle zattere, i quattro guerrieri afferrarono i remi ed attraversarono il
fiume, passando fra le due ultime rocce e sbarcando là dove ardevano ancora i
falò sorvegliati dai tre guerrieri rimasti sulla riva.
Karruà attese che tutti gli
uomini fossero riuniti, fece spegnere i fuochi, poi si cacciò nella tenebrosa
foresta.
Il dottore, sempre sorvegliato,
li seguiva, essendogli state levate le fasce che gli stringevano le gambe; si
teneva però in guardia, pronto ad approfittare della prima occasione per
fuggire.
Dopo una marcia di un'ora buona,
sempre in mezzo alla foresta, il capo diede il segnale della fermata in mezzo
ad una macchia immensa di piante gommifere.
Mentre alcuni dei suoi
ritornavano prontamente indietro per sorvegliare le mosse di quei misteriosi
nemici, egli s'avvicinò al dottore, e gli chiese:
«Tu devi sapere chi sono coloro
che c'inseguono.»
«Lo ignoro,» rispose Roberto.
«Tu fingi di non saperlo.»
«Ti ripeto che non so chi siano.»
«Perché eri con quello Stiengo?»
«L'avevo trovato per caso nella
foresta ed egli si era unito a me.»
«Devono essere i superstiti della
sua tribù quelli che ci dànno la caccia.»
«Può darsi.»
«Non importa: noi impediremo loro
di raggiungerci.»
«In quale modo? Possono essere in
buon numero e gli Stienghi non sono poi dei poltroni.»
«Il fuoco li arresterà,» disse il
capo, indicando le piante gommifere. «Questi alberi bruceranno come torce
resinose e tutta la foresta sarà in fiamme. Ti avverto di non cercare di fuggire.
Se lo tenti ti spiccherò la testa e la manderò a tener compagnia a quella dello
Stiengo.»
«Me ne starò tranquillo.»
Il capo dei Kayan stava per
allontanarsi, quando gli esploratori ritornarono tutti trafelati.
«Sono alle nostre calcagna,
capo,» dissero.
«Come hanno scoperto le nostre
tracce in quest'oscurità?» si chiese Karruà, mostrando i denti come una
pantera. «Sono molti?»
«Pare di sì,» rispose uno degli
esploratori.
«Prepariamo il falò. Date fuoco a
tutte le giunta wan e la foresta arderà così splendidamente.»
I selvaggi, soffregando
rapidamente alcuni pezzi di legno che portavano nei loro sacchi, diedero fuoco
a dei pezzi di muschio ben secco, e li gettarono qua e là in mezzo ai cespugli
ed alle piante parassite che s'avviticchiavano intorno ai tronchi degli alberi
gommiferi.
Ben presto delle lingue di fuoco
guizzarono attraverso il sottobosco, propagandosi rapidamente alle palme sature
di caucciù.
La foresta, pochi istanti prima
tenebrosa, s'illuminò come se il sole fosse allora sorto, ed un odore nauseante
si sparse dovunque. Le piante, tronchi e rami, si contorcevano sibilando e
scoppiettando, e torrenti di caucciù liquido si spandevano per il suolo
provocando nuovi incendi.
«Ed ora,» disse Karruà, «in
ritirata, miei prodi. Il fuoco ci protegge le spalle e costringerà i nostri
nemici a fuggire, se non vorranno arrostirsi.»
Sicuri di essere validamente
coperti da quella barriera di fuoco che divampava furiosamente trovando negli
alberi gommiferi un ottimo elemento, i Kayan fuggivano a tutte gambe, aizzati
dalla pioggia di scintille che cadeva sulle loro teste perché il vento soffiava
nella loro direzione.
Il dottore, tenuto stretto per le
braccia da due uomini vigorosi, era costretto a seguirli in quella corsa
disordinata. Se cercava di arrestarsi, i suoi guardiani alzavano le sciabole,
facendogli comprendere che erano decisi a ucciderlo se non accelerava il passo.
Quella fuga durava ormai da un
paio d'ore, quando gli uomini che erano davanti ripiegarono bruscamente sugli
altri compagni, urlando.
«Che cosa c'è?» chiese il capo,
balzando innanzi colla sciabola in pugno.
Vi fu fra i suoi guerrieri e lui
un vivo scambio di parole, poi tutti si appiattarono fra i cespugli.
«Dei nemici?» chiese il dottore
al capo, che gli si era accovacciato vicino.
«I nemici che c'inseguivano sono
sfuggiti al fuoco e ci sbarrano il passo,» rispose Karruà. «Sono stati più
furbi e più lesti di noi.»
«Chi sono?»
«Suppongo che siano Stienghi.»
«Sono molti?»
«Non lo sappiamo. Bada di non
mandare alcun grido se ti preme salvare la testa.»
Trascorsero alcuni minuti senza
che i nemici si mostrassero.
Ad un tratto alcune frecce
sibilarono sopra i cespugli, poi comparvero delle ombre umane. Un clamore
immenso selvaggio risuonò nella foresta, poi un torrente d'uomini si scagliò attraverso
le piante, caricando a fondo i Kayan.
Il capo dei montanari radunò
prontamente i suoi guerrieri e, quantunque fossero assai inferiori di forze,
contrattaccarono risolutamente, impegnando una mischia ferocissima.
Tutti avevano gettato gli archi,
armi inutili in una lotta a corpo a corpo, e combattevano colle sciabole,
producendosi reciprocamente delle ferite orribili.
Il dottore, approfittando della
confusione, si era gettato in mezzo ad un cespuglio. Nessuno d'altronde poteva
occuparsi di lui in quel momento, essendo tutti impegnati.
«Andiamocene e lasciamo che si
scannino a loro piacere,» mormorò.
Vedendosi cadere vicino un Kayan
trafitto da due frecce, gli balzò addosso, gli strappò la sciabola e poi fuggì
a tutte gambe, scomparendo in mezzo agli alberi.
La lotta non era cessata,
tutt'altro! Udiva le urla di guerra dei Kayan e quelle dei loro avversari
risuonare sempre più furiose: poteva quindi allontanarsi senza timore di essere
inseguito.
Vedendo l'incendio avanzare minaccioso,
raddoppiò la corsa per cercare un rifugio in qualche altro luogo, in qualche
macchia umida.
Dinanzi a sé vedeva fuggire con
velocità fulminea sciacalli, cervi, antilopi e anche scimmie. Il fuoco
scacciava tutti dalle loro tane e dai loro rifugi.
Corse per una mezz'ora,
inoltrandosi sempre più nella foresta, poi, esausto, cadde in un piccolo corso
d'acqua che non aveva potuto scorgere in tempo.
«Basta,» mormorò. «Non posso più
continuare.»
Si mise in ascolto. Gli parve di
udire delle grida che si allontanavano nella direzione opposta alla sua. Forse
i Kayan erano riusciti a rompere le linee dei loro avversari e fuggivano chissà
dove.
Non erano quei montanari, né gli
Stienghi che in quel momento lo preoccupavano, bensì l'incendio che avanzava
sempre con rapidità prodigiosa e che lo avvolgeva da tutte le parti,
impedendogli ogni via di scampo.
Le scintille portate dal vento
dovevano aver prodotto altri incendi più innanzi, e così il disgraziato dottore
si trovava in mezzo ad un mare di fuoco.
«Che sia proprio finita?» si
chiese. «Povera Len, non mi vedrai più!»
Ricacciò in fondo al cuore il
ricordo della fanciulla amata e rivolse tutta la sua attenzione agli alberi che
lo circondavano.
La fortuna lo aveva guidato in
mezzo ad un enorme gruppo di piante umide, i cui rami gocciolavano come i tamai
caspi delle foreste americane. Tutto il terreno era inzuppato d'acqua.
«Questi alberi resisteranno al
torrente di fuoco,» disse con gioia. «Il destino non ha ancora segnato la mia
morte. Cerchiamo di costruire un riparo contro la cenere ardente che cadrà
anche qui e contro la pioggia di scintille.»
Prese la sciabola, tagliò una
ventina di foglie di banano lunghe parecchi metri e le trascinò fin sulla riva
del ruscello.
«Prepariamoci un letto ora,»
mormorò.
Si scavò nella sabbia un buco
abbastanza profondo per potervisi sdraiare, vi si introdusse e si ricoperse
interamente colle foglie che aveva abbondantemente bagnato.
«Ancora pochi minuti di ritardo
ed io arrostivo come un piede d'elefante al forno,» disse.
L'uragano di fuoco giungeva in
quel momento addosso alla macchia, preceduto da una nuvolaglia di fumo e di
scintille. Gli alberi parvero curvarsi tutti sotto la violenza del fuoco. Per
parecchi minuti un fumo densissimo avvolse ogni cosa, poi una cupola di fuoco
si abbassò sulla macchia, facendo stridere le foglie e contorcersi i rami. Un
nembo di scintille e di cenere ardente cadde sul terreno, facendo evaporare
rapidamente l'acqua.
Roberto credette per un momento
di morire asfissiato. Le larghe foglie che lo coprivano si accartocciavano su
di lui scrosciando, però, bagnate come erano, non avevano fortunatamente preso
fuoco.
Quel supplizio durò un mezzo
minuto, poi la cupola fiammeggiante si squarciò, il fumo s'innalzò e l'onda di
fuoco seguitò il suo cammino attraverso la foresta, continuando la
devastazione.
La macchia umida aveva resistito.
Le piante sarebbero senz'altro morte, ma che importava ciò al dottore? Quando
l'aria divenne più respirabile, Roberto uscì dalla fossa e s'immerse nelle
acque del torrente, provando un grande sollievo in quel bagno.
L'incendio si allontanava verso
est; verso ovest tutta la foresta era stata divorata e non rimanevano in piedi
che pochi tronchi d'albero semicarbonizzati, che di quando in quando cadevano
con immenso fragore, sollevando nuvole di scintille e di cenere.
«Che rovina,» mormorò il dottore.
«E chissà quando l'incendio si spegnerà. Se potessi trovare qualche cosa per
rifocillarmi, sarebbe una vera fortuna. Non mangio da ventiquattro ore e mi
sento completamente sfinito.»
Guardò le piante; ma di frutta
non ne vide.
«Che sia destinato a morire di
fame?» si chiese. «È meglio che me ne vada al più presto di qui e cerchi di
raggiungere le rive del lago.
Seguendole potrei forse
raggiungere ancora la pagoda e ritrovare i miei compagni.»
Prese la sciabola, si dissetò
abbondantemente, si strinse i calzoni per calmare gli stiracchiamenti del
ventre e si mise coraggiosamente in cammino, risoluto ad arrestarsi soltanto
sulle sponde del lago.
Attraversato il piccolo corso
d'acqua, si diresse verso sud, sperando che l'incendio non si fosse propagato
in quella direzione.
Dovette camminare un'ora buona
fra la cenere, prima di raggiungere il margine d'una foresta umida che aveva
opposto una barriera resistente all'uragano di fuoco. I primi alberi avevano
molto sofferto e mostravano le foglie avvizzite, gli altri invece si
mantenevano ancora ritti e rigogliosi e gocciolavano abbondantemente.
Un gruppo di banani sfuggito
all'incendio gli procurò una colazione, se non molto nutriente, almeno abbondante,
essendo quelle piante cariche di enormi grappoli di frutta.
Non udendo alcun rumore ed
essendo ancora buio, si sdraiò sotto un cespuglio per riposarsi un paio d'ore.
Era così esausto di forze che non si sentiva più in grado di continuare quella
penosa marcia.
Quanto dormì? Parecchie ore di
certo, poiché quando riaperse gli occhi, il sole faceva capolino attraverso il
fogliame e le scimmie urlavano a piena gola sulle cime degli alberi,
inseguendosi e volteggiando fra i rami. Stava per alzarsi e rimettersi in
cammino, quando il suo sguardo incontrò quello d'un animale che stava sdraiato
a pochi passi da lui e che pareva lo spiasse.
Era una tigre enorme, una delle
più grosse che avesse mai scorto nelle foreste Siamesi, un animale che per
taglia poteva eguagliare quelle reali delle jungle indiane.
«Paese maledetto, dove non si può
riposare nemmeno un momento senza correre il pericolo di venire decapitati o
divorati,» mormorò il disgraziato dottore.
Allungò con precauzione una mano
ed impugnò la sciabola che si era messa al fianco, senza ardire però di
alzarsi.
D'altra parte la belva sembrava
non fare attenzione a lui, almeno pel momento. Si leccava il pelo come fanno i
gatti quando sono di buon umore o quando stanno facendo la loro toeletta
mattutina, mandando di quando in quando un rom-rom
che non indicava alcuna brutta intenzione.
Il dottore non osava muoversi,
per non provocare un attacco fulmineo. Aveva solo alzato la sciabola, pronto a difendersi
ed a colpire se si fosse presentata l'occasione.
Terminata la sua toeletta, senza
nemmeno degnarsi di guardarlo, la tigre si stiracchiò due o tre volte, poi si
alzò dolcemente, volse le spalle e s'internò nella macchia, sempre fingendo di
non essersi accorta della presenza del dottore.
Quando però fu ad una quarantina
di passi, si volse bruscamente mandando un aa-ugh
che pareva di sfida e di derisione, poi con un salto formidabile si cacciò in
mezzo ai cespugli e scomparve.
«La briccona!» mormorò Roberto.
«Se n'è andata dignitosamente; se non avesse scorto il luccichio della
sciabola, a quest'ora non so se sarei ancora vivo. Fortunatamente l'avventura è
finita comicamente invece che tragicamente.»
Stava per alzarsi, quando un pensiero
lo arrestò.
«Non mi aspetterà in qualche
luogo per piombarmi addosso a tradimento?» si chiese. «Non bisogna fidarsi di
queste bestie. Aspettiamo che si allontani.»
Attese un quarto d'ora, rimanendo
in ascolto, poi, non udendo più alcun rumore, s'alzò silenziosamente e si
allontanò adagio adagio, scrutando le macchie vicine.
Percorse così una cinquantina di
passi, poi tornò a fermarsi.
Gli pareva di aver udito un
rumore di foglie secche calpestate sulla sua sinistra.
«Che la tigre mi segua?» si chiese
con ansietà.
La paura cominciava ad invaderlo.
Il timore di venire improvvisamente assalito e di essere sbranato di sorpresa,
lo riempiva d'angoscia.
Si arrestò dinanzi ad un piccolo tek,
che cresceva in una minuscola radura.
«Le tigri non sono capaci come,
le pantere di arrampicarsi sugli alberi,» pensò. «Se cercassi un rifugio fra i
rami di quest'albero ed aspettassi lassù che la tigre si allontani o perda la
pazienza?»
Gettò un lungo sguardo sulle
macchie vicine, poi, abbracciato il tronco, si arrampicò colla maggior celerità
possibile.
Già stava per toccare i primi
rami, quando vide l'animale balzare leggermente fuori da una macchia. Vedendo
che la preda stava per sfuggirgli, s'avventò rabbiosamente contro la pianta
sperando di fare un buon colpo, invece ricadde stringendo fra i poderosi
artigli un largo pezzo di corteccia.
Le tigri, dopo il primo assalto,
di rado ritentano la prova. Vedendo l'uomo in salvo fra i rami, troppo in alto
per poterlo ormai raggiungere, la belva abbandonò senz'altro l'impresa,
ritornando nella foresta.
Il dottore, che non si fidava
più, rimase lassù fin quasi al tramonto, poi, convinto che la tigre se ne era
definitivamente andata per procurarsi una cena più sicura, si decise finalmente
ad abbandonare il suo aereo rifugio ed a riprendere la sua marcia verso il
lago.
Era fermamente risoluto a cercare
la pagoda, quantunque non conoscesse la via per arrivarvi. Il lago non doveva
essere molto lontano, così supponeva, e seguendone le coste aveva la
convinzione di ritrovare presto o tardi i suoi amici.
Camminò per un paio d'ore ancora,
inoltrandosi sempre nella foresta che già diventava tenebrosa, poi si fermò
sotto un gruppo di manghi che mettevano in mostra dei piccoli frutti i quali
potevano, in mancanza d'altro, servire a calmare la fame.
Raccolse dei rami secchi e poiché
conservava ancora l'acciarino e l'esca, accese due fuochi per tenere lontane le
belve; poi, sfinito, si coricò su uno strato di foglie secche, tenendosi vicino
la sciabola e l'arco.
Dormì due o tre ore e quando si
svegliò provò uno strano malessere. Aveva freddo, provava dei brividi
fortissimi e nello stesso tempo gli pareva di avere le gambe paralizzate.
«Che sia stato colpito dalla
febbre dei boschi o da quell'altra malattia che i Siamesi chiamano il tet,
e di cui mi ha parlato Lakon-tay?»
Provò ad alzarsi, ma ricadde
subito come se avesse le gambe spezzate. Si sentì bagnare la fronte d'un freddo
sudore.
«Sono perduto ormai,» mormorò. «Chi
potrebbe salvarmi? Addio, mia amata Len-Pra... addio,
generale... Ah! Come è stato breve il mio sogno... Ma no... non voglio morire
solo e abbandonato in mezzo a questa foresta e servire di pasto alle fiere.»
Con uno sforzo disperato si alzò,
tenendo in pugno la sciabola.
«In cammino,» disse con voce
energica. «Se mi fermo sono perduto.»
Quantunque si sentisse le gambe
rotte e provasse ancora dei forti brividi, partì di corsa, brancolando nel
buio, urtando contro i tronchi degli alberi che si succedevano senza
interruzione. Era in preda al delirio.
Quanto corse? Due ore soltanto o
molto di più? Sfinito, febbricitante, cadde in mezzo ad un ammasso di foglie,
perdendo quasi subito i sensi.
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