Da alcuni cespugli, che
crescevano attorno ai tronchi degli alberi, avevano fatto capolino delle teste
per nulla piacevoli e delle braccia che impugnavano archi e sciabole. Sbucavano
da tutte le parti dei corpi nerastri e quasi nudi, avanzando lentamente
attraverso lo strato d'acqua, cercando però di tenersi riparati dietro gli
alberi ed i cespugli. Quanti erano? Molti senza dubbio perché ad ogni istante
altri ne comparivano, come se sorgessero di sottoterra; tutti erano armati.
«Gli Stienghi?» esclamò il
generale, staccando rapidamente la carabina che teneva appesa alla sella. «Non
fidiamoci di costoro, se non appartengono alla tribù di Feng. So per prova
quanto siano pericolosi e crudeli questi selvaggi.»
Vedendo i due cavalieri e la
giovane siamese fermarsi e levare i fucili, armi che certamente conoscevano,
gli Stienghi si erano prudentemente nascosti, senza rompere il cerchio.
Quei selvaggi abitanti delle
foreste dovevano aver scorto già da qualche tempo i cavalieri e, approfittando
della loro sosta, con una mossa abile li avevano circondati in modo da impedire
loro tanto di avanzare come di retrocedere.
«Li conosci, Feng?» chiese
Lakon-tay un po' inquieto.
«Sono Stienghi, padrone, ma io
non posso sapere, dopo tanto tempo, se appartengono alla mia tribù. Si
rassomigliano tutti e non hanno nulla che li distingua.»
«Prova a parlamentare e domanda
loro che cosa vogliono e perché ci chiudono il passo.»
«Volevo proportelo io.»
«Bada alle frecce!»
«Me ne guarderò. Rimani qui tu e
non fare un passo innanzi.»
Lo Stiengo armò la carabina,
snudò il coltellaccio e avanzò lentamente verso i cespugli che gli stavano di
fronte, dietro i quali si trovava nascosto un drappello piuttosto numeroso di
selvaggi.
Giunto a cinquanta passi, ossia
ancora fuori tiro da quei dardi pericolosi, fermò il cavallo, gridando nella
sua lingua:
«Dov'è il capo? Io vengo da amico
e non già da nemico.»
Udendo quelle parole, dieci o dodici
selvaggi, che erano rapidamente sbucati dai cespugli tenendo gli archi tesi,
abbassarono le frecce, poi, dopo una breve esitazione, le ricollocarono nelle
faretre.
Era un segno di pace e Feng, che
conosceva troppo bene gli usi di quelle tribù, si affrettò a sua volta ad
abbassare la carabina, dicendo: «Siamo amici: chiamatemi il capo.»
Un momento dopo un vecchio
selvaggio dai capelli lunghissimi, la barba che gli scendeva fino al petto, il
viso tutto grinzoso e che portava nella fascia due sciabole dall'impugnatura di
ottone e sul capo un diadema di penne d'uccello lira, uscì da un gruppo di
piante, avanzando verso Feng che rimaneva sempre immobile.
«Chi sei tu che parli la nostra
lingua?» gli chiese.
«Un uomo della vostra razza,»
rispose lo Stiengo.
«E gli altri?»
«Un generale del Siam e sua
figlia.»
«Se tu sei veramente uno Stiengo,
dimmi a quale tribù appartieni,» disse il capo.
«A quella dei Naconnyok.»
Il capo non poté reprimere un
gesto di stupore.
«Alla mia,» disse poi. «Chi sei
tu dunque?»
«Feng, figlio di Nayan, il
cacciatore di bufali.»
«Feng, hai detto?» gridò il capo,
gettando via l'arco che teneva in mano. «Il ragazzo raccolto da un siamese,
quando ferveva la guerra in queste foreste?»
«Chi sei tu dunque che sai tante
cose?» chiese il servo di Lakon-tay.
«Non mi conosci più dunque?»
chiese il capo, avanzando velocemente verso il cavallo. «Io sono il capo dei
Naconnyok, il fratello di tua madre.»
Feng mandò un grido e si slanciò
giù dal cavallo, precipitandosi verso il capo che lo aspettava a braccia
aperte.
«Tu sei il fratello di mia
madre!» esclamò, abbracciandolo. «Padrone, padrone, noi siamo salvi!»
Lakon-tay e
Len-Pra, vedendolo fra le braccia del capo, si fecero
avanti, riappendendo le carabine all'arcione, mentre gli Stienghi uscivano dai
cespugli in gran numero, senza mostrare intenzioni bellicose.
«Il mio padrone, che mi ha
adottato e che mi ama come un figlio,» disse Feng al capo, presentandogli il
generale.
«Essi sono miei ospiti,» rispose
il selvaggio. «Che mi seguano al villaggio, prima che scoppi l'uragano; la
riconoscenza è una virtù degli Stienghi.»
Due minuti dopo la comitiva era
in marcia. Duecento guerrieri scortavano i cavalieri, aprendo a gran colpi di
sciabola un largo sentiero nella fitta foresta umida, mentre in cielo
cominciava già a tuonare e a lampeggiare.
Il capo, che discorreva
animatamente con Feng, indicava la via e pareva soddisfatto d'aver ritrovato
dopo tanti anni il nipote, che aveva temuto di non rivedere mai più.
Cominciavano a cadere le prime
gocce, quando la truppa giunse al villaggio del capo, che sorgeva sulla riva
del Kun-Boreye.
Esso era composto da un centinaio
di capanne, abbastanza ampie e formate da bambù intrecciati, aperte ai lati e
collocate su pali alti una decina di metri, per mettere gli abitanti al sicuro
dagli assalti delle tigri, se non dalle pantere che sono abili arrampicatrici.
Era un lusso veramente
eccezionale, accontentandosi per lo più gli Stienghi d'una semplice tettoia
costruita al momento, con pochi bastoni e poche foglie di banano.
Il capo fece sgombrare da coloro
che la abitavano una delle capanne più vaste ed invitò Feng, il generale e
Len-Pra a prenderne possesso, cosa che i tre fecero subito,
poiché l'uragano cominciava già ad imperversare con estrema violenza. Fece
portare poi agli ospiti del pesce secco, un quarto di cervo, alcuni vasi di toddy,
della frutta, dei rami resinosi e delle coperte filate grossolanamente.
Quando furono soli,
Lakon-tay e Len interrogarono ansiosamente Feng, per sapere
se i rapitori erano giunti al villaggio o se erano stati visti passare.
«Sì,» rispose lo Stiengo, «sono
stati scorti stamane da due cacciatori, ma non vi era con loro nessun uomo
bianco. Il capo me lo ha giurato su Brâ.»
«Quanti erano?
«Dieci, tutti a cavallo.»
«E il loro capo?»
«Ho la certezza che fosse
Mien-Ming, dalla descrizione che mi ha fatto di lui il
capo.»
«Il miserabile!» esclamò Lakon-tay.
«E dove si dirigevano?»
«Sono stati visti attraversare il
fiume, poi scomparire nella foresta della riva opposta.»
«Ma e il dottore, allora?» chiese
Len con angoscia. «Che l'abbiano ucciso?»
«Non credo che
Mien-Ming abbia osato tanto,» disse
Lakon-tay. «Gli uomini bianchi sono troppo temuti e lo
stesso re si guarderebbe dal farne uccidere uno.»
«Padrone,» disse in quel momento
Feng. «Vi ricordate dell'impronta di quel remo che abbiamo scoperto sulla riva
del lago?»
«Sì, e con ciò?»
«Che l'abbiano imbarcato, il
dottore?»
«Per condurlo dove?»
«Io non lo so, tuttavia presto o
tardi riusciremo a saperlo. Un uomo bianco non può sfuggire inosservato.»
«Domani chiederai al capo di fare
delle ricerche, promettendogli dei regali se riesce a trovare il nostro
disgraziato compagno. E tu, Len, va a riposarti; questa notte nulla possiamo
fare, specialmente con questo uragano.»
Si avvolsero nelle coperte e
cercarono di addormentarsi. Però nessuno riuscì a chiudere gli occhi, tanto
erano rattristati. E poi l'uragano non permetteva di dormire, con tutti quei
tuoni assordanti, quelle raffiche impetuose che scuotevano furiosamente la
capanna minacciando di abbatterla, e quei rovesci d'acqua che penetravano perfino
dentro la stanza, filtrando fra le foglie del tetto. Solamente verso l'alba,
essendosi la bufera un po' calmata, poterono riposare qualche ora. Ai primi
raggi del sole erano già in piedi.
Stavano per lasciare la capanna,
quando videro il capo salire precipitosamente la scala di fibre di rotang, che
Feng non aveva ritirato.
«L'uomo bianco è stato visto!»
gridò, entrando come un fulmine.
«Dove?» chiesero ad una voce
Len-Pra, il generale e Feng.
«Sul lago, assieme ad alcuni
Stienghi che montavano una piroga e che pareva si dirigessero verso la foce di
questo fiume.»
«Tuoi sudditi?» chiese Feng.
«No, appartengono ad un'altra
tribù, che ha i suoi villaggi più a settentrione, verso
Theuc-Thio.»
«Era vivo?» chiese Len-Pra.
«Sì, vivo e anche libero.»
«Chi lo ha visto?» chiese
Lakon-tay.
«Uno dei miei uomini, che ieri,
verso il tramonto, stava pescando sulla riva del lago.»
«Ha veduto la piroga imboccare il
fiume?»
«Sì.»
«Allora è necessario rivolgere da
quella parte le nostre ricerche,» disse Len-Pra.
«Ho già inviato verso la foce tre
piroghe armate ed ho dato ordine agli equipaggi di arrestare quegli Stienghi e
di condurre qui l'uomo bianco. Ho mandato anche dei cacciatori sulle rive del
lago e nelle foreste.»
«Padre, partiamo anche noi,»
disse Len-Pra.
«È meglio attendere il ritorno
delle piroghe, padrona,» disse Feng. «Se non avranno raggiunto gli Stienghi, ci
metteremo allora anche noi in movimento.»
«Sarà lunga la loro assenza?»
«Il fiume è grosso assai e gli
equipaggi avranno molto da fare per rimontare la corrente,» rispose il capo.
«Mi si dice anzi che verso la foce il fiume sia straripato e abbia invaso le
foreste delle due rive. Venite a fare colazione a casa mia e aspettiamo. L'uomo
bianco, presto o tardi, lo si troverà, siatene certi.»
Len-Pra si
arrese, quantunque a malincuore, alle ragioni del capo e tutti si recarono
nella dimora dello Stiengo, che era più ampia, più comoda e anche meglio
riparata, colle pareti ed il pavimento coperti da belle stuoie variamente
dipinte con succhi vegetali.
La colazione fu triste,
quantunque il capo si sforzasse continuamente di rassicurarli sulla sorte del
dottore.
Dopo il mezzodì un uomo giunse al
villaggio. Non veniva dalla parte del fiume, bensì dalle rive del lago, e
recava una notizia preziosa che fece balzare dalla gioia il cuore della
fanciulla.
Da una donna che raccoglieva
frutta nella foresta prossima al lago, era stato visto un uomo dalla pelle
bianca, vestito pure tutto di bianco, il quale era approdato su una specie di
zattera, allontanandosi qualche ora dopo verso sud.
«Il dottore!» esclamarono
Len-Pra e Lakon-tay.
Non si chiesero nemmeno come mai
il loro compagno, che era stato visto il giorno innanzi su una piroga montata
dagli Stienghi di Theuc-Thio, poteva ora trovarsi solo,
così lontano dalla foce del Kun-Boreye.
«A cavallo! A cavallo!»
gridarono. «Partiamo!»
Il capo, che era troppo vecchio
per seguirli, formò una scorta di otto giovani, valenti corridori e cacciatori,
che conoscevano alla perfezione le foreste circostanti il lago, e dieci minuti
dopo Len-Pra, Lakon-tay e Feng
lasciarono il villaggio, dirigendosi verso levante.
Erano ormai certi di raggiungere
il dottore, il quale non poteva percorrere certamente molto cammino.
Nei loro animi era già nato il
sospetto che egli si fosse diretto verso sud, nella speranza di raggiungere la
vecchia pagoda e, come sappiamo, non s'ingannavano.
Verso sera giunsero sulla riva
del lago, là dove la donna aveva detto d'aver visto sbarcare l'uomo bianco.
Trovarono il tetto d'una capanna
arenato sulla sabbia e semisfasciato, poi, allargando le ricerche, riuscirono a
scoprire le impronte lasciate da un uomo che calzava stivali con grossi chiodi.
Non rimaneva più alcun dubbio. Era la pista del dottore, giacché gli Stienghi
non conoscevano l'uso degli stivali.
Len-Pra era
raggiante e non lo erano meno Lakon-tay e Feng. Fu deciso
di continuare le ricerche e di seguire quella pista che si dirigeva verso sud,
seguendo le rive del lago.
Fecero un'ampia raccolta di rami
resinosi e ripartirono, conducendo i cavalli a mano, essendo il margine della
foresta così folto da non permettere il passaggio d'un cavaliere.
Così, verso le dieci della sera,
ossia due ore dopo il tramonto, giunsero sulla riva dell'ampia palude che aveva
arrestato il dottore.
Fecero una sosta di qualche ora
per mangiare un boccone, avendoli il capo provvisti di una scorta di viveri e
di noci di cocco piene di toddy, poi seguirono la riva della palude.
Le impronte lasciate dal dottore
su quel suolo umidissimo erano sempre visibili, specialmente alla luce delle
torce resinose. Si dirigevano ora verso ovest.
«Sì,» disse
Lakon-tay. «Il dottore cerca di raggiungere la vecchia
pagoda. Chissà che non lo troviamo all'accampamento.»
«Quale gioia proverò nel
rivederlo!» esclamò Len-Pra, che piangeva e rideva ad un
tempo. «Povero dottore! Chissà quante gliene avranno fatte provare i suoi
rapitori!»
«Vi è una cosa che non riesco a
capire.»
«Quale, padre?»
«Vorrei sapere perché
Mien-Ming, invece di tenerlo prigioniero, lo ha affidato a
quegli Stienghi.»
«Lo sapremo dal dottore stesso.»
«Alt!» disse in quel momento un
uomo della scorta, che precedeva i compagni.
«Vi sono delle macchie di sangue
qui!»
Len-Pra,
udendo quelle parole, si sentì mancare.
«Che abbiano ucciso il dottore?»
gridò.
«No,» disse Feng. «Ecco qui le
sue orme che si dirigono sempre verso ovest.»
«Temevo che fosse stato assalito e
sbranato da qualche belva,» disse la fanciulla, la cui voce ancora tremava.
«Avanti, avanti sempre!»
Il drappello riprese la marcia
sotto l'umida foresta, tenendo alte le fiaccole per evitare i rami e le radici
che s'intrecciavano in tutti i sensi, e i rotang e i calamus che pendevano a
festoni fittissimi.
Le orme del dottore non avevano
più una direzione fissa. Descrivevano delle curve e degli angoli, ora deviando
verso sud ed ora verso nord. Doveva essersi smarrito nella tenebrosa foresta.
Un altro giorno trascorse così in
inutili ricerche. Verso sera stavano attraversando un bosco di banani, quando
udirono dinanzi a sé uno scricchiolare di rami ed un rumore di foglie secche
calpestate.
«Che cosa c'è?» chiese Feng,
armando rapidamente la carabina, mentre gli Stienghi impugnavano le loro
sciabole.
Si erano appena fermati, quando
videro passare a una cinquantina di passi una forma biancastra che correva
all'impazzata.
«Un uomo!» esclamò lo Stiengo,
che si trovava in testa al drappello.
«No, una scimmia,» rispose un
altro.
«Era bianca! Nel nostro paese non
ve ne sono di quel colore,» disse un terzo.
«Inseguiamola!» gridò Feng.
Tutti si slanciarono
all'inseguimento, anche Len-Pra ed il generale. Il sospetto
che potesse invece trattarsi del dottore metteva loro le ali ai piedi.
Giunti su uno spiazzo, rividero
la forma bianca. Correva sempre colle mani in aria, traballando, cadendo e
risollevandosi.
Feng, che era ora dinanzi a
tutti, mandò un grido:
«L'uomo bianco! L'uomo bianco!
Non fate fuoco! Non scagliate frecce!»
La forma bianca, estenuata forse
da quella lunga corsa, cadde su un ammasso di foglie secche, mandando un grido
rauco, poi rimase immobile.
Feng si slanciò innanzi, seguito
dalla giovane siamese e da Lakon-tay.
Il dottore giaceva in mezzo alla
radura, col viso contro terra, e pareva non desse più segno di vita.
Len-Pra, che
lo aveva riconosciuto dalle vesti di lana bianca che indossava, si precipitò
subito su di lui, gridando con voce rotta:
«Sta morendo! Una barella!
Presto, amici, una barella! Non voglio che muoia!»
Lakon-tay,
più calmo della fanciulla, si curvò sul disgraziato amico, e gli sentì il
polso.»
«Il tet!» esclamò,
impallidendo. «Conosco troppo bene quella malattia per ingannarmi; forse noi lo
salveremo, ma bisogna far presto.»
Len-Pra,
inginocchiata presso il dottore, piangeva, cercando di soffocare i singhiozzi e
accarezzando colle sue piccole mani il volto già quasi freddo dell'uomo, che ormai
intensamente amava.
«Sta per morire, padre,» diceva.
«Lo salveremo, Len; non
piangere.»
Una lettiga, formata con rami
frettolosamente tagliati dagli Stienghi della scorta e con foglie di banano, fu
tosto pronta. Il dottore vi fu adagiato sopra, quattro uomini la sollevarono ed
il drappello si mise in marcia senza indugio, dirigendosi non già verso la
vecchia pagoda, bensì al villaggio del capo degli Stienghi, dove poteva trovare
maggiori soccorsi.
Tre ore dopo giunsero sulle rive
del Kun-Boreye, là dove sorgevano le abitazioni degli
Stienghi.
Il disgraziato italiano, durante
quella lunga marcia, non era ancora tornato in sé. Pareva che l'anima lo avesse
abbandonato, quantunque un rauco e assai lieve respiro si facesse ancora udire.
Il capo degli Stienghi,
prontamente avvertito, sebbene stesse dormendo, accorse subito.
Lakon-tay lo
condusse un po' lontano dalla capanna che gli era stata assegnata, dicendogli:
«Io ti prometto venti fucili se
salvi l'uomo bianco, ed avrai inoltre la mia eterna riconoscenza.»
«È ferito?» chiese il capo.
«No, è stato assalito dal tet,
da quella malattia che è più tremenda della febbre dei boschi.»
Il capo degli Stienghi fece un
gesto e disse: «Noi lo salveremo, perché possediamo un rimedio infallibile. Il tet
non sempre uccide. Affida a me l'uomo bianco ed io rispondo della sua vita.»
«Possiedi qualche liquore
misterioso?»
«Niente liquori.»
«Come farai dunque?»
Il capo, invece di rispondere, si
volse verso alcuni uomini che lo avevano seguito, dicendo:
«Scavate una buca nella foresta,
nello strato di foglie secche, e mettetevi dentro l'uomo bianco a cucinare. La
fermentazione delle foglie ci darà il calore necessario.»
Quindi, rivolgendosi verso il
generale, soggiunse:
«Non temere: l'uomo bianco domani
sarà salvo e non correrà più alcun pericolo.»
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