Dieci giorni dopo il dottore,
quasi perfettamente guarito da quella terribile malattia che fa annualmente
grandi stragi nella Birmania e nel Siam, lasciava la capanna del capo degli
Stienghi, dove era stato ricoverato.
Aveva ben sofferto il povero
italiano!... Era rimasto ventiquattro ore sepolto fra le foglie secche della
foresta, e quella cura strana lo aveva salvato da una morte più che certa.
Il caldo, sviluppato da quelle
foglie in fermentazione, aveva arrestato di colpo la paralisi che lo aveva
colpito alle gambe e che avrebbe dovuto salire fino al cuore.
Una cura strana questa se si
vuole, ma che aveva avuto pieno effetto. Infatti dopo due settimane il dottore,
ridotto nei primi giorni ad un'ombra di se stesso, poteva camminare senza
fatica e riprendere il viaggio verso la città misteriosa del Re lebbroso, alla
ricerca del famoso driving-hook.
Durante la malattia Len-Pra
non aveva quasi mai abbandonato il capezzale del dottore, e forse la sua
presenza aveva contribuito più che tutti i rimedi ad affrettare la guarigione.
«Dottore» disse un pomeriggio
Lakon-tay entrando nella stanza abitata dal giovane
italiano. «È giunta l'ora della partenza ed i cavalli sono pronti per fare una
lunga galoppata. Domani giungeremo alla città del Re lebbroso, che è più vicina
di quanto possiate immaginare. Credete di poter resistere?»
«Non mi sono mai sentito meglio
d'oggi,» rispose Roberto. «Le mie gambe hanno riacquistato la loro agilità con
quella cura indiavolata. Perbacco! Come cuocevo bene in quella buca! Non
credevo di dover imparare un po' di medicina da questi selvaggi.»
«Senza il capo degli Stienghi,
non so, mio caro dottore, se io sarei riuscito a salvarvi. Dobbiamo essergli
riconoscenti»
«Gli faremo un bel regalo.»
«Gli ho già dato un fucile e
centinaia di tical e credo che non vi sia al mondo uomo più contento di lui.
Possedere un'arma da fuoco era il sogno più ardente della sua vita.»
«Si accontenta facilmente quel
brav'uomo! E Len dov'è?»
«Vi aspetta nella barca.»
«Quando è giunto il pilota?»
«Ieri sera coi cavalli e con i
nostri bagagli.»
«Ecco un galantuomo come ve ne
sono pochi. Un altro al suo posto ne avrebbe approfittato per fuggire.»
«A suo tempo ricompenseremo anche
lui.»
«E dei miei rapitori, più nessuna
notizia?»
«Sono scomparsi senza lasciare
tracce visibili. Stamane sono tornati gli ultimi esploratori che il capo aveva
mandato verso Ong-cor per interrogare le tribù di quei
luoghi, ma nulla hanno potuto sapere sulla direzione presa dal puram.»
«Siete dunque profondamente
convinto che sia stato Mien-Ming a farmi rapire?»
«Non ho più alcun dubbio: siete
ormai un rivale troppo pericoloso, non è vero, dottore?» chiese il generale,
guardandolo e sorridendo.
Il giovane arrossì come una
fanciulla e rispose a mezza voce: «Grazie, generale: io l'amo.»
«E Len ricambia il vostro amore.
Avrò così due figli invece di una. Amatela, Roberto, essa vi farà felice.»
«Sì, immensamente felice,»
rispose il dottore.
«Orsù, partiamo:
Len-Pra ci aspetta.»
Il capo li attendeva fuori,
circondato dai più ragguardevoli personaggi della tribù, col fucile a
bandoliera ed il corno pieno di polvere appeso alla cintura.
Mosse incontro al generale,
dicendogli:
«Auguro a te e all'uomo bianco un
viaggio felice, e non dimenticare che se hai bisogno di gente valorosa, gli
Stienghi sono tuoi amici.
Ricordati della grande pagoda
centrale, dalla cupola dorata e dalla statua gigantesca: solamente là, sotto la
prima pietra potrai trovare l'uncino d'oro e in nessun altro luogo. Se non è
stato già preso da altri, cosa che non credo, sono certo che tu lo troverai.
Addio.»
I guerrieri scortarono il
generale e l'uomo bianco fino al fiume, dove una barca li aspettava per
condurli sulla riva opposta, e dove già si vedevano i cavalli tenuti per la
cavezza da Feng e dal pilota.
Len-Pra era
già nella piroga.
«Andiamo, dottore,» disse la
fanciulla. «L'aria dei grandi boschi vi gioverà più di quella della vostra
capanna.
«Lo credo anch'io, Len,» rispose
Roberto, sedendole accanto.
La piroga si staccò dalla riva,
accompagnata dalle grida festose dei guerrieri, attraversò rapidamente il fiume
sotto la poderosa spinta di quattro vigorosi battellieri e s'arrestò sulla riva
opposta, dove erano i cavalli.
Il pilota, nel vedere il dottore,
strinse i denti e una fiamma cupa balenò nei suoi occhi.
«È uno stregone che possiede
qualche amuleto,» mormorò con ira. «Quest'uomo rovinerà il mio mandarinato, ma
io ora non esiterò come il puram a farlo fuori.»
Salirono a cavallo e si misero in
marcia, dopo aver salutato un'ultima volta il capo degli Stienghi, che stava
ritto sulla riva opposta, tenendo ben alto il fucile.
La foresta umida si prolungava
anche al di là del fiume, ma era meno folta e l'aria vi poteva circolare
meglio.
Era cosa prudente attraversarla
al più presto. Dopo il tet, il dottore poteva essere colto dalla febbre
dei boschi, non meno pericolosa e forse più difficile da guarire.
Perciò affrettarono il passo,
desiderosi di raggiungere le belle pianure di Theuc-Thio al
di là delle quali, in un'altra e foltissima boscaglia, s'innalzavano le
imponenti rovine della vecchia Angkor e della città del Re lebbroso.
Stavano anche in guardia, temendo
qualche nuovo tiro da parte dell'astioso e vendicativo puram.
Quantunque gli esploratori del
capo Stiengo avessero percorso parecchi giorni di seguito quelle foreste,
spingendosi molto lontano, e non avessero più trovato alcuna traccia dei
rapitori, pure nessuno era tranquillo, e temevano qualche nuova imboscata.
I loro timori, almeno per quel
giorno, non ebbero alcuna conferma. Quando alla sera, dopo aver percorso una
quindicina di miglia, si arrestarono ai confini della foresta umida, nessun
fatto era avvenuto che potesse aumentare le loro inquietudini.
«Che quella canaglia abbia rinunciato
ai suoi progetti?» chiese il dottore a Lakon-tay, mentre
Feng ed il pilota preparavano l'accampamento e Len-Pra
s'occupava della cena.
«Può darsi,» rispose il
guerriero, «tuttavia stento un po' a crederlo.»
«Conosco troppo bene
quell'avventuriero, come conosco la sua tenacia.»
«Che ci aspetti in qualche altro
luogo?»
«E dove? Domani mattina noi
giungeremo alla città del Re lebbroso, da cui non distiamo che una diecina di
miglia.»
«È già così vicina?»
«Guardate laggiù, oltre quel
corso d'acqua che taglia la pianura; non vedete delle case?»
«Sì.»
«Là si trova
Theuc-Thio, una delle ultime borgate del Siam. E presso
quella, un po' a nord, si trovano le rovine della capitale del regno
scomparso.»
«Che
Mien-Ming ci aspetti là?»
«Se lo troviamo, gliela faremo
pagare, dottore, a buoni colpi di carabina. Non ha con sé che sette od otto
bricconi, che non resisteranno a lungo ai nostri tiri. Ai primi colpi
scapperanno come lepri, ed è per questo che ho rifiutato una scorta che il capo
Stiengo mi voleva offrire.»
«Sì, noi bastiamo per tenere
testa a quei bricconi,» disse il dottore. «Anche se
Mien-Ming ne avesse il doppio, non mi inquieterei. Sono i
tradimenti che mi fanno paura.»
«Quando saremo dentro le mura
della città, non avremo più nulla da temere. Vi sono dei palazzi in ottimo
stato e noi sceglieremo il più solido. D'altronde la nostra permanenza sarà
breve e appena avremo trovato il driving-hook
torneremo a Bangkok a grandi marce. E se Mien-Ming oserà
seguirci, avrà a che fare col re.»
«Siete dunque proprio sicuro che
il driving-hook si trovi realmente nascosto in una
di quelle pagode?»
«Ho avuto dal capo degli Stienghi
una preziosa informazione.»
«Quale?» chiese vivamente il
dottore.
«Egli mi ha narrato che nella sua
gioventù, durante una visita fatta alla città del Re lebbroso per prendere il
rame dorato che copre le statue di Budda, vide dinanzi ad una statua
gigantesca, che sorge nel mezzo della pagoda centrale, una pietra, su cui era
inciso un po' rozzamente una specie d'uncino, simile a quello che usano i
nostri mahut.
Quella pietra, di forma
circolare, aveva un anello di rame nel mezzo, circondato da iscrizioni che non
riuscì a decifrare, ma che gli parvero scritte in caratteri bali,
l'antica scrittura usata dai Cambogiani. Io sono quindi convinto che il driving-hook
si trovi sotto quella pietra, ed anche lo Stiengo è della mia idea.»
«Purché qualcuno non l'abbia
preso prima di noi,» disse il dottore.
«Gli Stienghi, che qualche volta
si spingono fino in quella città, non si occupano che del rame, metallo
necessario alla fabbricazione delle loro armi bianche, e che è abbondantissimo
nell'interno delle pagode. Io sono convinto, dottore, che noi domani avremo
quel prezioso uncino.»
«E io sono pure convinto che fra
qualche settimana gli elefanti bianchi accorreranno in gran numero a Bangkok,
per farsi uncinare dal driving-hook del grande
Budda,» rispose il dottore, ridendo. «Non è vero, generale?»
«Voi scherzate; che si mostrino o
no, io tornerò egualmente trionfante e riacquisterò la popolarità, perduta per
colpa di quella canaglia di Cambogiano.»
«Spero che lo farete per lo meno
bastonare, se tornerà a Bangkok a rioccupare la sua carica.»
«Il re esigerà la sua testa, e
nemmeno la posizione di gran giudice salverà Mien-Ming.
Phra-Bard non scherza. Andiamo a cenare, dottore, poi
corichiamoci. Dovete essere molto stanco.»
Si voltarono entrambi e videro a
due passi il pilota, appoggiato ad una pianta, che ascoltava attentamente i
loro discorsi.
«Che cosa fai tu qui?» gli chiese
Lakon-tay.
«Signore,» rispose Kopom,
cercando di giustificarsi. «Temo che passeremo una brutta notte.»
«Chi ci minaccia?»
«Ho udito poco fa l'urlo d'una
tigre.»
«Forse che manchiamo di carabine
e di munizioni?» disse il dottore
«Tranquillizzati: sai che non
siamo tipi da preoccuparci per la vicinanza d'una belva.»
«È vero,» borbottò il Cambogiano,
facendo una smorfia. «Sono uno stupido ad impressionarmi.»
Non era la tigre che lo
impressionava: erano i discorsi uditi poco prima.
Infatti
Len-Pra e Feng, interrogati, affermarono di non aver udito
alcun urlo.
«Deve essersi ingannato,»
concluse il dottore. «D'altronde se quella tigre oserà mostrarsi, la saluteremo
con una scarica che le leverà per sempre la voglia d'importunare dei pacifici
viaggiatori.»
Cenarono alla lesta, poi si
coricarono, mentre Feng faceva la guardia. La notte non fu turbata da alcun
spiacevole avvenimento e la tigre, inventata dal pilota per stornare qualsiasi
sospetto negli animi del dottore e del generale, non si fece vedere e nemmeno
udire.
All'indomani, dopo il tè,
ripartirono al trotto, ansiosi di arrivare dentro la famosa città del Re
lebbroso e di cominciare subito le ricerche.
Attraversarono le ultime pianure,
girando al largo di alcune borgatelle, poiché non avevano alcun interesse a
fermarsi in quei luoghi, e alle sette, dopo aver avvistato in lontananza
Angkor, l'attuale capitale della provincia omonima, che sorge su una landa
sabbiosa e si estende fino ai primi contrafforti della catena dei monti
Sowrais, si cacciarono nell'immensa foresta, che da secoli e secoli copre le
rovine dell'antico regno degli Khmer.
Cominciarono ad apparire i primi
ruderi delle immense città, che un tempo sorgevano in quella regione ed erano
state così floride e popolose. In mezzo alle macchie, fra alberi, rotang, bambù
ed erbe altissime, di tanto in tanto apparivano pagode e archi trionfali
diroccati, pezzi di bastioni ormai crollanti, torri tronche, acquedotti
sfasciati che attestavano la civiltà e la ricchezza di quel regno, scomparso
così misteriosamente nella notte dei tempi.
«Quante rovine!» esclamò il
dottore. «Si direbbe che un terremoto tremendo abbia d'un sol colpo distrutto
tutte le città del regno degli Khmer.»
«Può darsi che siano stati i
fuochi centrali della terra a far crollare ogni cosa,» rispose il generale.
«Voi sapete che il nostro suolo è sempre in convulsione, al pari di quello
birmano.»
«Qui vi sono rovine di città
immense.»
«E ben altre ve ne sono più a
sud, in prossimità del lago. A tre giornate da Angkor, l'attuale capitale di
questo distretto, io ho visitato gli avanzi di tre altre città che un tempo
devono essere state vastissime e ho anche visto un tempio grandioso, sostenuto
da un numero infinito di colonne e sormontato da cinque torri. Una vera
meraviglia.»9
«Allora anche nella città del Re
lebbroso troveremo dei monumenti imponenti?»
«Meravigliosi, ve lo assicuro,
dottore.»
«Siamo ancora lontani?»
«Tre o quattro miglia, così mi ha
detto Feng.»
«Lo Stiengo dunque l'ha già
visitata?»
«L'ha vista soltanto da lontano.
Al galoppo, dottore! Forse fra poche ore noi avremo in nostra mano il driving-hook.»
La foresta diventava sempre più
folta, ma le rovine aumentavano ad ogni passo.
Vi erano delle vere montagne di
rottami, ormai coperti dalle piante parassite e dai cespugli, e nascosti in
mezzo alle macchie più folte. La vegetazione ormai tutto aveva coperto da
secoli e secoli.
Man mano che il drappello
s'avvicinava alla città del Re lebbroso, raddoppiava le precauzioni, temendo
sempre una sorpresa da parte di Mien-Ming e della sua
banda. Avanzavano con estrema prudenza, scrutando attentamente le macchie e
tenendo le carabine già armate dinanzi alla sella.
Len-Pra era
stata messa nel mezzo del drappello per tenerla al riparo da una scarica
improvvisa, ed il pilota era stato incaricato di aprire la marcia, avendo egli
detto di conoscere la via. Feng, invece, si era messo alla retroguardia, coi
cavalli di ricambio che portavano i viveri, le munizioni e le tende.
Tuttavia pareva che l'immensa
foresta non fosse abitata da alcun essere umano. Non si vedeva che qualche
cervo fuggire precipitosamente attraverso i cespugli; e qualche cinghiale.
Verso mezzodì il drappello sbucò improvvisamente
su una vasta pianura, dove si alzavano delle mura altissime, difese da torri
imponenti, dietro le quali giganteggiavano pagode colossali e costruzioni
grandiose.
«La città del Re lebbroso!» gridò
Feng. «Padrone, il driving-hook è ormai nostro.»
«Mano alla carabina,» rispose il
generale, «e facciamo la nostra entrata nella capitale degli Khmer.»
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