Mentre
Lakon-tay, il dottore e la giovane andavano in cerca del driving-hook,
Kopom, che era stato lasciato dinanzi al palazzo reale assieme allo Stiengo per
sorvegliare i cavalli, studiava il modo di tentare un colpo disperato, per
salvare il suo futuro mandarinato, che ormai correva troppi pericoli.
Più risoluto di
Mien-Ming, perché, anche se scoperto, ben poco aveva da
perdere, aveva avuto dapprima l'idea di disfarsi dello Stiengo e poi di
chiamare i banditi che non dovevano essere lontani, per piombare addosso al
generale e al dottore, ma aveva subito rinunciato a quel piano che presentava
troppi pericoli.
E se
Mien-Ming non fosse ancora giunto? Questo timore lo aveva
trattenuto poiché, almeno sino a quel momento, non aveva udito nessun segnale
che gli confermasse l'arrivo della banda.
Il puram, quantunque
partito prima del generale, poteva essersi smarrito nei grandi boschi umidi o
essere stato costretto a deviare e ad allungare la via per far smarrire le proprie
tracce e per evitare un inseguimento.
E poi Kopom aveva anche notato
che lo Stiengo, sempre diffidente come un vero selvaggio, non aveva abbandonato
la carabina, anzi se l'era messa fra le ginocchia, col cane alzato, pronto a
far fuoco sul primo che apparisse. Una mossa imprudente od un semplice
sospetto, e quel figlio dei boschi non avrebbe certo esitato a sparargli
addosso senza misericordia.
Era a questo punto delle sue
riflessioni e stava per architettare un nuovo piano, che potesse aver maggiori
probabilità di riuscita, quando al di là delle mura udì un grido stridente che
si poteva scambiare pel grido sgradevole d'uno di quei grossi calaos dal becco
enorme, che sono così numerosi nelle foreste del Siam settentrionale.
Udendolo, Kopom volse istintivamente
il capo verso le mura di cinta.
«Il puram,» mormorò fra
sé. «Allora tutto posso osare.»
Feng, il quale si era seduto sul
primo gradino dello splendido scalone di marmo che conduceva nel porticato, si
era bruscamente alzato, dicendo:
«Ehi, pilota, non ti sembra che
questo sia un segnale?»
«È il grido d'un calaos,» rispose
Kopom. «Ve ne sono molti in questo paese, anzi ne ho veduto poco fa uno
svolazzare sulla cima delle mura.»
«Io ti dico che qualcuno ha
voluto imitare il grido di quei volatili, e chissà che non sia uno degli uomini
del puram.»
«Di quale puram intendi
parlare?» balbettò Kopom, diventando smorto e guardando con terrore lo Stiengo.
«Ah! Già, non ti abbiamo ancora
messo al corrente dei nostri sospetti, ed ignori che abbiamo ormai scoperto chi
sono gli uomini che ci hanno teso tanti agguati e che hanno rapito l'uomo
bianco.»
Kopom lo guardava come
trasognato, cogli occhi dilatati, non avendo mai udito fino allora parlare del puram,
da parte di coloro che cercava di tradire in tutti i modi.
Come avevano saputo ciò? Il
dubbio che potessero sospettare anche di lui lo assalì e gli fece gelare, per
un momento, il sangue nelle vene. Quel briccone nondimeno possedeva una buona
dose di coraggio. Capì che, se non giocava d'audacia, era perduto e che era
troppo pericoloso per lui starsene zitto.
«Non so di quale puram tu
voglia parlare,» rispose. «Dico solo che tu ti sei ingannato e che quel grido
lo ha mandato un calaos. Chi vuoi che ci minacci?»
Feng non faceva più attenzione a
lui: curvo innanzi, ascoltava attentamente.
«Non mi sono ingannato,» disse ad
un tratto, rialzandosi vivamente. «Degli uomini marciano al di là delle mura.
Rimani qui mentre io vado ad avvertire il padrone.»
«E vorresti lasciarmi solo!»
gridò il Cambogiano, fingendosi atterrito. «Che cosa vuoi che faccia se vengo
assalito da parecchi uomini, io che so appena sparare col fucile?»
«Allora va' tu, giacché hai
paura. Spicciati però: quei banditi devono essere in molti e forse anche decisi
a farci la pelle.»
Kopom, che aveva già preparato il
suo piano, se ne andò frettolosamente, scomparendo entro il palazzo reale.
Lo Stiengo, rimasto solo,
condusse i quattro migliori cavalli dietro un ammasso di rottami per metterli
al coperto da eventuali colpi di fucile, poi si ritrasse sotto il porticato,
nascondendosi dietro una colonna.
Si trovava là solo da pochi
secondi, quando vide sbucare da una delle porte delle mura otto uomini, i quali
avanzavano carponi, coi fucili in mano, seguiti a breve distanza da un altro
che subito riconobbe.
«Il puram!» esclamò. «Il
padrone non si era ingannato.»
Alzò la carabina, poi la
riabbassò.
«Che cosa potrei fare contro nove
uomini?» mormorò. «È meglio raggiungere il padrone per organizzare una lunga
resistenza.»
Credendo di non essere stato
ancora scorto, scivolò dietro una seconda colonna, poi si slanciò nella sala.
Aveva notato la direzione presa
dai suoi padroni ed aveva anche osservato prima l'alta cima della pagoda.
«Devono trovarsi nel tempio,»
mormorò, correndo come un cervo. «Ci barricheremo là dentro.»
Attraversò la sala, poi il
cortile, quindi l'ala interna del grandioso palazzo e giunse infine dinanzi
alla pagoda.
Stava per precipitarvisi dentro,
avendo udito dietro di sé dei passi affrettati che annunciavano l'arrivo dei
banditi, i quali forse lo avevano visto fuggire, quando udì un colpo sordo, poi
la voce stridula del pilota che gridava:
«Ora farete i conti con
Mien-Ming se vorrete uscire! Ah! Come vi ho giocato!»
Lo Stiengo mandò un vero ruggito
da belva. Aveva finalmente capito, da quelle parole, che razza di furfante era
quel pilota.
Si slanciò nella pagoda come un
toro infuriato, colla carabina puntata, urlando:
«Miserabile!... Ti sei tradito!»
Il Cambogiano spiccò un salto, levandosi
dalla fascia il terribile coltellaccio birmano.
«Giacché mi sono tradito, ora ti
ucciderò!» rispose facendo atto di scagliarsi innanzi.
Si era però dimenticato che il
figlio dei boschi sparava con una precisione straordinaria.
Un colpo di carabina rimbombò ed
il miserabile cadde col cranio fracassato, senza nemmeno mandare un grido.
In quel momento alcuni uomini
fecero irruzione nella pagoda, sparando all'impazzata. Erano i banditi di
Mien-Ming, che avevano seguito lo Stiengo senza che egli se
ne fosse accorto.
Con un balzo prodigioso, Feng si
gettò dietro la statua del Re lebbroso, mettendosi al riparo dai colpi di
fucile; poi, vedendo dietro di sé un'altra porta, molto meno grande della prima
e che era pure aperta, approfittando del momento in cui i banditi ricaricavano
le armi, si slanciò fuori dalla pagoda.
In quattro salti attraversò il
cortile, rientrando nel palazzo reale. Fuggiva a rompicollo, udendo dietro le
spalle le urla furiose dei banditi e la voce del puram che gridava:
«Uccidetelo!... Uccidetelo!...»
Qualche colpo di fucile
rimbombava di tanto in tanto, ma le pallottole non colpivano nel segno e si
schiacciavano contro le colonne, dietro le quali il fuggiasco si riparava.
Giunse così sotto il porticato,
ancora incolume. Si precipitò giù dalle scale e si diresse verso i quattro
cavalli che aveva nascosto dietro l'ammasso di rovine.
Era già montato sul più robusto,
e stava per scioglierli, poiché erano tutti uniti dalle briglie legate insieme,
quando i banditi comparvero sulla gradinata, preceduti dal puram che
urlava sempre:
«Uccidetelo!... Mille tical
a chi lo colpisce!...»
Una scarica rimbombò.
Uno dei cavalli cadde e anche lo
Stiengo si abbandonò sul collo di quello che montava, mandando un urlo di
dolore e portandosi una mano al petto.
«È nostro!» gridarono i banditi.
Arrivarono fortunatamente troppo
tardi. I tre cavalli, spaventati da quelle detonazioni, spezzate le briglie che
li univano al cavallo morto, si erano slanciati avanti a corsa sfrenata.
Attraversarono come un uragano la
porta delle mura e si gettarono fra gli ammassi di rovine, dirigendosi verso la
foresta.
Feng, aggrappato al collo del
cavallo che montava e che era il più vigoroso, si lasciava trasportare in
quella corsa furibonda, senza tentare di frenarlo.
Era diventato pallido, o meglio
grigio, e un copioso sudore freddo gli bagnava la fronte.
La sua casacca bianca a poco a
poco si tingeva di rosso: il sangue trapelava attraverso il tessuto, quantunque
il poveretto si comprimesse sempre la ferita colla mano sinistra, per cercare
di arrestare l'emorragia.
Il dolore che provava al costato
destro era così intenso, da strappargli dei sordi gemiti.
La pallottola che aveva ricevuto
doveva essere penetrata ben dentro e doveva aver offeso forse qualche organo
vitale.
Tre volte fu lì lì per lasciarsi
cadere di sella, sentendosi venir meno le forze; tuttavia, con uno sforzo
supremo di energia selvaggia, riuscì a mantenersi ancora in groppa al
destriero.
«No, bisogna che resista o sono
perduti,» mormorava. «Non bisogna che io muoia senza aver prima veduto il capo,
altrimenti i miei padroni non usciranno più vivi da quel sotterraneo.»
Si passò la fascia sulla ferita
per impedire che la vita gli sfuggisse assieme al sangue, poi, invece di
rallentare la corsa dei cavalli, si mise a percuoterli col calcio della
carabina.
Non avendo egli avuto il tempo di
scioglierli, gli animali erano costretti a galoppare l'uno a fianco dell'altro,
ma a lui del resto premeva di conservarli per averne sempre sottomano uno, meno
stanco di quello che cavalcava.
Raggiunto il bosco e non udendo
dietro di sé più alcun rumore, il ferito arrestò un momento i cavalli presso un
fossato pieno d'acqua limpidissima. Li legò ad alcuni alberi affinché non
fuggissero, poi si levò la casacca e guardò la ferita.
Un buco era aperto fra la quarta
e la quinta costola, prodotto da un proiettile di grosso calibro, e da quella
ferita il sangue scorreva copiosamente.
«Resisterò o la morte mi colpirà
prima che riveda il capo?» si chiese.
Si lavò la ferita, provando un
vero sollievo, se la fasciò meglio che poté, bevve avidamente parecchi sorsi
d'acqua, poi si rimise in sella, mormorando:
«Forse arriverò ancora in tempo.»
Temendo di venire colto da uno
svenimento, si legò al pomo della sella, poi lanciò i cavalli al galoppo.
Si dirigeva verso il sud, in
direzione del Kun-Boreye. Aveva ormai fatto il suo piano:
non si trattava che di resistere. Ci sarebbe riuscito, o la morte lo avrebbe
colto prima che egli potesse vedere il capo degli Stienghi?
Abbracciato al collo del cavallo,
colla testa posata sulla criniera, quasi svenuto, si lasciava sempre
trasportare. Sentiva gli orecchi ronzare, le membra intorpidirsi e le forze
abbandonarlo a poco a poco.
Ad ogni soprassalto del cavallo
un gemito soffocato gli usciva dalle labbra, convulsamente strette e già
bagnate da una schiuma sanguigna.
Tuttavia l'eroico selvaggio
resisteva sempre con una tenacia incredibile, e quando i dolori diventavano
meno intensi, gettava uno sguardo alla regione che i cavalli percorrevano,
temendo che sbagliassero direzione.
Così passò un'ora, poi un'altra
ancora, senza che quei robusti corridori rallentassero la loro corsa
indiavolata.
Feng era quasi svenuto. Se
qualcuno l'avesse veduto, l'avrebbe certo scambiato per un morto legato alla
sella.
Quanto tempo passò ancora?
Un soprassalto violento, che
spezzò la fascia stretta attorno alla ferita, fece tornare Feng in sé. Con uno
sforzo disperato si risollevò, gettando all'intorno uno sguardo semispento. I cavalli
s'erano arrestati sulla riva d'un largo fiume, entro il quale per poco non
erano precipitati.
Un sorriso spuntò sulle labbra
del povero Stiengo.
«Il Borey!» mormorò, con voce
appena intelligibile.
Stette un momento indeciso,
ignorando se il villaggio dei suoi compatrioti si trovasse vicino o lontano,
poi vedendo che l'acqua non pareva molto profonda, spinse i cavalli nel fiume.
Quel bagno freddo lo rianimò
alquanto e lo fece tornare completamente in sé. Guardò il sole per orientarsi.
«Ad occidente,» mormorò. «Chissà!
Comincio a sperare!»
E lanciò i cavalli in quella
direzione, seguendo la riva del fiume che non era ingombra di piante troppo
compatte.
Quanto durò quella seconda corsa?
Feng non lo seppe mai, perché era tornato ad accasciarsi sul collo del cavallo,
vinto dallo svenimento.
Delle grida e un altro rumore di
cavalli gli fecero riaprire gli occhi, velati già dalla morte.
Vide confusamente intorno a sé
dei guerrieri, i quali avevano afferrato i tre destrieri per le briglie, poi si
sentì levare dalla sella e deporre a terra, e infine udì una voce, a lui ben
nota, esclamare:
«È Feng! È mio nipote!
Arrestategli il sangue o morrà.»
Il povero Stiengo fissò sull'uomo
che così parlava le sue pupille semispente.
«Il capo,» mormorò.
Poi, radunando le sue ultime
forze, si levò a sedere ed afferrando una mano del vecchio gli disse con voce
rantolante:
«Salvali... nella città del Re
lebbroso... i nemici... che hanno rapito l'uomo bianco... là... nella pagoda...
rinchiusi... raccogli i tuoi... guerrieri... là... corri... salvali...»
«Sì, andrò a salvarli, povero
ragazzo... dimmi, chi ti ha ferito? gridò il capo con voce singhiozzante.»
«I nemici... del mio...
padrone... addio, capo... muoio... salvali... sal...»
La voce gli si spense in un
fiotto di sangue che gli gorgogliò fra le labbra. Tentò di rizzarsi sulle
ginocchia, poi cadde pesantemente al suolo, mandando un rauco sospiro.
Il fedele servo del generale era
morto!
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