Lakon-tay, il
dottore e Len-Pra erano rimasti come fulminati udendo
ricadere la pesante pietra e udendo poi subito dopo le minacciose parole del
pilota e il rimbombo di quei colpi di fucile nella pagoda.
Per parecchi istanti erano
rimasti muti, col cuore sospeso, guardandosi l'un l'altro, cogli occhi dilatati
da un'angoscia inesprimibile.
Il tradimento del pilota, di
quell'uomo che fino a quel momento avevano creduto un brav'uomo e che si erano
perfino proposti di ricompensare largamente, li aveva completamente
scombussolati.
Ad un tratto un grido sfuggì
dalle loro labbra:
«E Feng?»
Tutti e tre avevano avuto il
medesimo pensiero. Che cosa poteva essere avvenuto di quel bravo giovane che
avevano lasciato dinanzi al palazzo reale in compagnia di quel traditore? Era
ancora vivo, o i banditi di Mien-Ming l'avevano ucciso? Il
generale era diventato pallidissimo.
«Che l'abbiano assassinato?»
gridò con voce terribile. «Guai a loro, guai a quei miserabili se hanno torto
un sol capello a quel bravo ragazzo, che io amo come se fosse mio figlio!»
«Ahimè, generale,» disse il
dottore, «io tremo più per lui che per noi. Quei colpi di fucile che noi
abbiamo udito devono aver ucciso qualcuno.»
«Che si sia lasciato
sorprendere?» chiese Lakon-tay, con accento di dolore
intenso.
«Padre,» disse
Len-Pra, «io dubito che Feng, uomo diffidente e astuto, si
sia lasciato uccidere a tradimento e senza opporre resistenza.
Tu sai bene che Feng un giorno,
dopo il rapimento del signor Roberto, ti aveva manifestato qualche sospetto
circa la fedeltà del pilota. Doveva quindi tenersi in guardia.»
«Tu speri dunque che egli possa
essersi salvato?»
«Ne ho la convinzione,» rispose
Len-Pra. «Che ne dite, signor Roberto?»
Il dottore fece col capo un cenno
affermativo, quantunque non condividesse la speranza della fanciulla, poi
disse:
«Generale, occupiamoci di noi per
ora. La nostra situazione è peggiore di quel che voi crediate, e non so come
potremo cavarcela.
Siamo nelle mani di
Mien-Ming e quel miserabile non ci lascerà uscire senza
imporci delle condizioni terribili che strazieranno due cuori che si amano.»
«Che cosa volete dire, dottore?»
chiese Len-Pra, guardandolo con angoscia.
«Lo saprete fra poco, povera
fanciulla.»
«Giammai acconsentirò, dottore,»
disse Lakon-tay, con suprema energia. «Len diventare
sua...»
«Silenzio, generale, per ora.
Cerchiamo invece di tentare qualche cosa, prima che quella canaglia si mostri.
Se potessimo uscire, da parte mia
non esiterei a impegnare la lotta contro quei banditi a colpi di fucile.»
«Ed io non meno di voi, Roberto,»
rispose il generale. «Ma come uscire, ora che il pilota ha ricollocato a posto
la pietra che è così pesante?»
«Non è da quella parte che
dobbiamo tentare di evadere. Un uomo solo basterebbe per fucilarci a
bruciapelo, e certo il pilota o qualche altro sta di guardia dinanzi alla
statua del Re lebbroso.»
«Ma queste feritoie sono difese da
sbarre di ferro così grosse, che nemmeno un gigante riuscirebbe a svellerle.»
«Forse non presentano quella
resistenza che voi credete. Il tempo deve averle più o meno corrose.»
«Quei banditi forse ignorano
ancora che questo sotterraneo ha delle finestre?» chiese
Len-Pra.
«Lo suppongo,» rispose il
dottore, «ma non tarderanno a scoprirle. Venite, generale: vediamo dove
guardano queste finestre.»
S'accostò a una feritoia, che
s'apriva ad un metro e mezzo dal suolo ed era sufficientemente larga per
lasciar passare un uomo di media grossezza e difesa da quattro solide sbarre
coperte da un fitto strato di ruggine. Essa guardava su un cortiletto ingombro
di macerie, chiuso da un'alta muraglia in gran parte diroccata e che non aveva
alcuna apertura.
«Che quella muraglia abbia
servito un giorno come base a qualche torre?» si chiese il dottore, osservando
l'enorme ammasso di rottami.
«Signor Roberto,» disse
Len-Pra, «vi è qualche probabilità di fuggire?»
«Sì, e anche di sorprendere quei
banditi alle spalle, se si potessero levare queste maledette sbarre; impresa
difficile, non ve lo nascondo, fanciulla mia. La parete è formata da blocchi di
pietra che resisteranno a tutti i nostri sforzi.»
«Tentiamo di svellere qualche
sbarra,» disse il generale.
«Ci vorrebbe una lima per
segarle,» rispose il dottore, facendo un gesto di scoraggiamento, «e noi non ne
abbiamo alcuna.»
«Saremo costretti ad arrenderci
oppure a morire qui dentro di fame e di sete?»
Roberto non rispose, ma si
asciugò la fronte che era madida di sudore. Tuttavia si provò a scuotere una di
quelle sbarre, impiegando tutta la sua forza, ma dovette purtroppo convincersi
che ogni tentativo era vano. Senza una lima o almeno una trave, mai sarebbero
riusciti a fuggire da quel sotterraneo, che minacciava di diventare la loro
tomba.
Il dottore e
Lakon-tay si guardarono tristemente.
«Nessuna speranza?» chiese questi
a mezza voce.
«Nessuna,» rispose Roberto.
«Che cosa accadrà di noi?»
«Se provassimo ad alzare la
pietra?»
«Non pensateci, Roberto. Vi
esporreste, specialmente voi, ad una morte sicura. «Non dimenticate che il puram
odia soprattutto voi e che sarebbe ben lieto di sopprimervi. Non udite nessun
rumore, voi?»
«No, generale.»
«Che i banditi si siano allontanati
dopo averci rinchiusi qui dentro e dopo aver forse piombato la pietra per
impedirci la fuga?»
«Se non ci fosse con noi
Len-Pra, forse si potrebbe crederlo,» rispose Roberto
sottovoce, affinché la fanciulla, che guardava attraverso la feritoia, non lo
udisse. «È vostra figlia che Mien-Ming vuole.»
«Non l'avrà mai: o vostra o della
morte.»
Roberto provò un brivido.
«Ucciderla! No, no, generale!»
esclamò. «Piuttosto tenteremo di forzare la pietra.»
«Rimanete qui, dottore. Voglio
accertarmi se vi è qualcuno che vigila dinanzi alla statua del Re lebbroso.»
Il generale prese la carabina e
salì su per la stretta scala.
Roberto si avvicinò allora alla
fanciulla che, anche in quei momenti terribili, non aveva perduto nulla della
sua calma abituale.
«Len-Pra, mia
cara,» le disse con voce profondamente commossa, «la vita di vostro padre sta
nelle vostre mani. Volete salvarlo?»
La fanciulla alzò su di lui i suoi
dolci occhi, guardandolo con profondo stupore.
«Che cosa dite, Roberto?» chiese.
«Vi ripeto che voi sola potreste
salvare vostro padre.»
«In qual modo? Spiegatevi,
dottore.»
«Rinunciando a me per diventare
sposa d'un altro, del puram del re.»
Una dolorosa contrazione alterò
il viso della fanciulla, mentre i suoi occhi s'inumidivano.
«Non mi amate più?» mormorò, con
voce singhiozzante.
«Più che mai, mia dolce
Len-Pra,» rispose il dottore. «Ma solo la distruzione del
nostro bel sogno può salvare vostro padre.»
«È per voi che
Mien-Ming ha rovinato il generale; è per aver voi che ci ha
perseguitati fin qui e che ha tentato per tre volte di sopprimermi, avendo
trovato in me un rivale. Rispondete, Len: siete disposta a compiere un simile
sacrificio?»
«Io... diventare la moglie di
quell'uomo... e rinunciare al vostro amore... mai, Roberto, mai! Preferisco la
morte al vostro fianco; e so che anche mio padre mi approverebbe...»
«Grazie... grazie, mia Len... se
noi siamo...»
Un colpo di fucile che rimbombò
nel cortiletto gli interruppe la frase. Entrambi si precipitarono verso una
delle feritoie, colle carabine in pugno, pronti a respingere l'attacco.
Un uomo, certo uno dei banditi di
Mien-Ming, si teneva a cavalcioni della muraglia e
stringeva in mano il fucile, la cui canna fumava ancora. Doveva aver sparato in
aria e non già verso il sotterraneo, allo scopo di richiamare soltanto
l'attenzione dei prigionieri.
Len, che una collera improvvisa
rendeva pericolosa, puntò risolutamente la carabina verso il bandito. Il
dottore con un gesto rapido le abbassò la canna.
«No, Len,» disse. «Sentiamo prima
che cosa vuole quel briccone. Pel momento è un parlamentario che dobbiamo
rispettare.»
Il bandito, vedendo l'uomo
bianco, fece sventolare una pezzuola più o meno bianca, gridando:
«Non fate fuoco, se vi è cara la
vita.»
Lakon-tay in
quell'istante li raggiunse. Aveva udito lo sparo e, temendo un attacco, era
accorso per prendere parte alla difesa. «Che cosa vuole quella canaglia?»
chiese.
«Ora lo sapremo,» rispose il
dottore. «Vorrà dettarci delle condizioni di resa a nome del puram.»
«Parla, mascalzone,» gridò il
generale, «e spicciati, o ti uccido come un cane, in attesa di fare altrettanto
al tuo padrone.»
Il bandito, quantunque poco
incoraggiato da quella accoglienza, si fece portavoce colle mani e disse:
«È il puram del re che mi
manda.»
«Che cosa vuole?»
«Vi ordina di consegnargli
Len-Pra. Solo a questa condizione egli acconsentirà a
rendere la libertà a voi e all'uomo bianco.»
«E se rifiutassi?»
«In tal caso devo avvertirvi che
nessuno di voi uscirà vivo dal sotterraneo.»
«È tutto qui?»
«Non ho altro da dirvi.»
«Dirai al puram che ad un
simile mascalzone non acconsentirò mai a dare in isposa mia figlia, che è ormai
la fidanzata dell'uomo bianco, e gli dirai che tutti noi preferiamo la morte.
Ecco la risposta del generale Lakon-tay. Ed ora vattene o
ti sparo addosso.»
Vedendo che il generale puntava già
la carabina, pronto ad eseguire la minaccia, il bandito s'affrettò a lasciarsi
cadere dall'altra parte del muro.
Un momento dopo, una voce, che la
rabbia rendeva rauca, gridò al di là della muraglia:
«Aspetterò che la fame e la sete
vi costringa alla resa. Mien-Ming non ha fretta.»
«Mostrati, vile!» urlò
Lakon-tay, che aveva riconosciuto la voce dell'infame
Cambogiano.
«Sì, più tardi, quando la fame vi
avrà reso meno pericolosi,» rispose Mien-Ming, con tono
ironico. «Buona notte ed i miei omaggi alla graziosa
Len-Pra.»
Al di là della muraglia si udì un
sordo brusio, poi il silenzio tornò più profondo di prima.
Lakon-tay si
volse verso il dottore e Len.
I due giovani si tenevano per
mano, guardandosi tristemente, ma nei loro occhi si leggeva una implacabile
volontà.
«Meglio la morte non è vero,
Len?» disse il dottore.
«Sì, Roberto, accanto a te ed a
mio padre,» rispose la fanciulla con accento risoluto. «Qualcuno un giorno ci
vendicherà.»
«Sei degna di tuo padre,» disse
il generale, con voce spezzata. «Figli miei... abbracciatemi...»
Cominciavano a calar le tenebre.
Len-Pra e Roberto, seduti l'uno presso l'altro sul
basamento della statua, non avevano più aperto bocca. Il generale invece, in
preda ad una collera terribile, passeggiava pel sotterraneo come un leone in
gabbia, pronunciando parole tronche e facendo gesti furibondi. Di quando in
quanto s'arrestava dinanzi all'una o all'altra feritoia e si metteva in
ascolto, poi ricominciava a passeggiare.
Erano già trascorse parecchie ore
da che le tenebre avevano invaso il sotterraneo, quando una scarica improvvisa
rimbombò sopra le teste dei prigionieri, seguita subito da un clamore spaventoso.
Lakon-tay
fece un salto verso la feritoia più vicina, mentre Roberto e Len balzavano in
piedi.
Gli spari si succedevano agli
spari pressoché senza interruzione, mentre i clamori raddoppiavano.
«Assalgono i banditi!» gridò il
generale. «Queste sono le urla di guerra degli Stienghi. Dottore!
Len-Pra! Vengono in nostro aiuto!»
«Come è possibile?» chiese
Roberto. «Chi può averli avvertiti?»
«Chi? Chi? Feng, ne sono certo...
Facciamo fuoco attraverso le feritoie per indicare a quegli uomini valorosi che
siamo qui.»
La lotta stava per finire. Non si
udiva più ormai che qualche rado colpo di fucile, e anche le urla di guerra
degli Stienghi erano cessate. Il generale continuava a far fuoco, sparando in
aria, imitato da Len-Pra e dal dottore.
Ad un tratto si videro brillare
delle fiaccole sulla cima della muraglia, poi comparvero alcuni uomini armati
di sciabole e di archi.
«Gli Stienghi! Gli Stienghi!»
gridò Lakon-tay, che li aveva subito riconosciuti.
«Scendete, amici! È qui l'uomo bianco!»
Una quindicina di selvaggi
invasero tosto il cortiletto, agitando le fiaccole e gridando. Accortisi che le
feritoie erano difese dalle sbarre di ferro, raccolsero una trave che spuntava
fra le macerie e con due colpi ben assestati le sfondarono.
«E i banditi?» chiese
Lakon-tay, appena fu liberato.
«Tutti uccisi, meno uno,» rispose
colui che comandava il drappello.
«Chi è costui?»
«Il loro capo.»
«Mien-Ming!
Chi vi ha avvertito che noi
eravamo prigionieri?»
«Feng, il nipote del capo.»
«È vivo ancora Feng?» chiesero ad
una voce Roberto, il generale e Len-Pra.
«Non so... venite... il nostro
capo vi aspetta.»
Gli Stienghi li aiutarono a varcare
la muraglia, girarono intorno alla pagoda e li introdussero nel tempio, che era
illuminato da parecchi rami resinosi.
Un terribile combattimento era
avvenuto intorno alla statua del Re lebbroso. I banditi dovevano essersi difesi
disperatamente prima di cadere, a giudicare dal numero degli Stienghi caduti
sotto i colpi delle loro carabine; poi erano stati sconfitti e ora i loro
corpi, privati della testa, giacevano ammucchiati alla rinfusa, in un lago di
sangue.
Il capo degli Stienghi, che era
accompagnato da un centinaio di guerrieri, mosse verso il generale, dicendogli:
«Sono molto lieto di averti
salvato: che cosa farai ora di quell'uomo?»
Ad un suo cenno le file degli
Stienghi s'apersero e Lakon-tay vide, inginocchiato presso
la statua del Re lebbroso, e tenuto pei polsi da due guerrieri, il puram,
livido, coi baffi irti e gli occhi fuori dalle orbite.
Il generale gli si avvicinò,
seguito da Len e dal dottore, e dopo averlo guardato per alcuni istanti in
silenzio, gli disse:
«Ti dono la vita, io: ma ti
giudicherà il re.»
Mien-Ming
provò un brivido così forte, che tremò da capo a piedi, poi, alzando
bruscamente la testa, fissò su Len-Pra uno sguardo in cui
si leggeva un odio implacabile.
«Tu mi hai perduto, fanciulla, ma
mi seguirai nella tomba.»
Con una scossa irresistibile,
atterrò i due Stienghi che lo tenevano pei polsi, poi, estratto rapidamente il
coltellaccio, che teneva nascosto nella larga fascia, si scagliò contro
Len-Pra.
Il dottore ed il generale
mandarono un urlo, che fu subito seguito da un colpo sordo e da un rantolo.
Il capo degli Stienghi con una
mossa fulminea si era gettato addosso al puram e l'aveva atterrato.
Poi, prima che
Lakon-tay ed il dottore potessero impedirglielo, voltò il
fucile su Mien-Ming e appoggiatagli la canna sulla fronte,
lo freddò, bruciandogli le cervella.
«Feng è morto!» gridò. «Io l'ho
vendicato!»
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