6 - La flotta fantasma
Due giorni dopo quella
triplice esecuzione, la piccola squadra, giunta di fronte alle coste
virginiane, quasi all'altezza di Norfolk, veniva assalita dalle prime onde, che
da un paio di settimane mettevano sossopra l'Atlantico settentrionale. Il cielo
era diventato oscurissimo verso levante, e larghi nuvoloni, gravidi di pioggia
o di tempesta, si stendevano sotto i soffi del vento, mentre nel loro seno
brillavano vivissimi i lampi e brontolava quasi senza riposo il tuono. Anche le
acque dell'oceano avevano assunto una tinta grigiastra come se si fossero
mescolate alla vicina grande corrente del Gulf-Stream, che rimontava,
costeggiando l'America orientale, verso il gran banco di Terranova. Si vedevano
immensi stormi di uccelli marini, formati per lo più da rincopi, disgraziati
volatili che, avendo il becco inferiore assai più corto del superiore, sono
frequentemente esposti a dei lunghi digiuni. Fuggivano tutti verso ponente
schiamazzando, per cercare un asilo più sicuro nelle scogliere della Virginia.
Qualunque altra nave,
vedendo quel temporale ingrossare e scendere ormai furiosamente verso il sud,
si sarebbe affrettata a seguire l'esempio di quei prudenti volatili. Il Corsaro
invece aveva segnalato a tutta la squadra di far fronte alla tempesta.
Il giorno innanzi un
piccolo legno corsaro che, prevedendo mare grosso, scappava in cerca d'un
rifugio, aveva avvertito il Baronetto e i comandanti americani che la squadra
di lord Dunmore, già sgominata dalle continue tempeste che l'avevano assalita
durante la traversata dell'Atlantico, veleggiava verso il sud per cercare un
punto di sbarco, che le era mancato sulle coste della Virginia per il valore di
quegli stanziali e di quei piantatori. Or sapendo che la fregata del Marchese,
rimasta assai indietro alle navi di Howe, per riparare forse i danni subiti nel
combattimento colla Tuonante, si era imbrancata con quella squadra che
gli Americani chiamavano fantasma, aveva deciso di tentare un colpo disperato,
quantunque la tempesta rumoreggiasse spaventosamente.
Tutte le precauzioni
erano state prese per resistere ai grandi colpi di mare e per tentare un
fulmineo abbordaggio contro la fregata: le imbarcazioni saldamente assicurate
ai paranchi, i pezzi delle batterie strettamente frenati perché non prendessero
la corsa, i grappini tesi sulle griselle basse, pronti a essere lanciati. Anche
le quattro navi americane, che erano montate da intrepidi marinai, avevano
prese le medesime precauzioni, e ridotta la velatura ai minimi termini, per non
farsi subissare da qualche improvviso ed irresistibile salto di vento.
Testa di Pietra e Piccolo
Flocco, sempre insieme, osservavano dall'alto del castello di prora, mentre a
pochi passi da loro stava seduto su una matassa di funi l'Assiano, ormai
completamente rimessosi dalla semimpiccagione.
«Uhm!» brontolò il
Bretone, scotendo la testa e stringendo le pugna. «Questo si chiama veramente
mare cattivo. E quando anche gli uccelli marini, che nulla hanno da temere,
fuggono, le navi dovrebbero fare altrettanto.»
«La Tuonante è stata
costruita per le battaglie e le tempeste,» rispose il giovine gabbiere.
«Per tutti i campanili
della Bretagna! a me lo dici? Sì, salda, robusta, magnifica veliera; ma quando
l'Atlantico infuria, v'è da pensarci due volte a sfidarne le onde.»
«E
assaliremo la squadra Dunmore in piena tempesta?»
«Pare sia questa l'idea
del nostro terribile comandante. Non daremo addosso che alla fregata, se è vero
che si trova tra la squadra fantasma. Le navi americane s'incaricheranno del
resto, se lo potranno.»
«Vi è pericolo,
Testa di Pietra, che questa volta si vada a dormire sott'acqua?»
Il Bretone corrugò la
fronte, poi disse:
«Forse che i marinai non
sono nati per finire, presto o tardi, in bocca ai pesci? Anche mio nonno fu
divorato da un pescecane.»
«E poi riuscì vivo per
salvare la storica pipa.»
«Sì, monello,» rispose
Testa di Pietra.
«E tu credi che avremo
tempesta grossa?»
«Vedrai fra un paio d'ore
come la squadra ballerà disperatamente. Avremo spaventevoli colpi di vento e
grandi colpi di mare. Bà, siamo i figli dell'oceano e corazzati contro le
bufere.»
Una raffica impetuosa si
rovesciò in quel momento sulla corvetta, abbattendola bruscamente sul tribordo
fino all'altezza degli ombrinali. Tutti i marinai balzarono ai bracci delle
manovre, in attesa di ordini. Nessuno appariva impressionato dalla tempesta che
stava per coglierli proprio sul cadere del giorno. Difatti il sole, dopo aver
forato per qualche istante una gran nube nera galoppante per il cielo, era
scomparso, e le tenebre piombavano, rotte solamente dai lampi, che si
succedevano in gran numero.
Il Corsaro ed il signor
Howard, muniti ciascuno d'un portavoce, lanciavano con voce poderosa i comandi,
i quali venivano seguiti dal fischietto di Testa di Pietra.
Alle 8 l'oscurità era
profondissima, tanto che l'equipaggio della Tuonante stentava a seguire
le quattro navi americane, esse pure alle prese colla bufera. Sopra le
tempestose nubi passavano di tratto in tratto dei rombi assordanti, che
parevano prodotti da grossi carri pieni di lamiere di ferro lanciati a gran
corsa. L'elettricità era intensa. Delle fiammelle si erano già mostrate sulle
punte degli alberi, guizzando poi lungo le sartie e rimontando di quando in
quando verso i pennoni di contrappappafico. La corvetta cominciava a rollare e
a beccheggiare spaventosamente, tuffando impetuosamente il suo bompresso nelle
onde insieme coi fiocchi che non erano stati chiusi per poter bordare più rapidamente
al momento opportuno. Né le quattro navi americane soffrivano meno: tuttavia,
secondo gli ordini ricevuti dall'intrepido Corsaro, seguivano la Tuonante quasi
sulla sua scia, facendo fronte all'uragano.
Verso le 10 lo stato
dell'oceano era diventato veramente terribile. Colpi di mare, sollevati da
furiosi colpi di vento, si abbattevano sulle navi, scompaginandole, nonostante
le manovre dei marinai. Il fuoco di sant'Elmo guizzava sempre sulle cime degli
alberi, accompagnato di quando in quando da certe palle fiammeggianti, grosse
come aranci, che scoppiavano con gran fracasso come se fossero delle vere
bombe. Testa di Pietra, come al solito, aveva preso posto sul castello di
prora, tenendo molto a essere il primo ad avvistare la squadra inglese. Aveva un
segreto rancore contro il puntatore della fregata, che aveva messo fuori di
combattimento la corvetta, e non voleva lasciarsi sorprendere.
Che mi passi solamente
dinanzi, e scateno tutti e due i pezzi da caccia del castello!» disse Testa di
Pietra. «Voglio la mia rivincita.»
«Con questa tempesta?
Come potrai puntare?»
«Lascia pensare a me,
monello! Sono di Batz io!»
A mezzanotte la squadra
si trovava all'altezza della baia di Chesapeake, ottimo rifugio per qualunque
nave, essendo molto profonda e ben riparata. Il Corsaro invece intraprese
risolutamente la lotta contro l'uragano che l'assaliva da oriente. Cercava la
squadra inglese, ben deciso a piombarci in mezzo e sgominarla, checché dovesse
succedere, pur di correre all'abbordaggio della fregata. Alle due del mattino,
nel momento in cui la luna faceva capolino fra due gigantesche nubi, si udì
Testa di Pietra gridare:
«Navi dinanzi a noi! In
batteria gli artiglieri!»
Il Corsaro ed il signor
Howard erano saliti sul castello di prora, dove il Bretone continuava a
sbracciarsi ed a lanciare comandi. Parecchi punti luminosi danzavano sulle
creste altissime dell'Atlantico, formando un gruppo, il quale peraltro di
quando in quando si scioglieva sotto le furiose raffiche di levante.
«Non può essere che la
squadra di lord Dunmore,» disse il Baronetto al signor Howard.
«Quella di Howe ormai
dev'essersi rifugiata nei porti del nord,» rispose il secondo.
Che cosa mi consigliate,
voi?» domandò Mac-Lellan.
«Io, sir,
segnalerei alle navi americane di lasciar passare la squadra e di mettersi poi
in caccia. Si dice che quelle navi siano rovinate, che vi siano a bordo più
malati che combattenti; tuttavia io penso che cacciarsi là dentro con questa
tempesta, la quale non ci permetterebbe di montare all'abbordaggio, sarebbe una
grave imprudenza. E poi come scoprire la fregata con questa oscurità?»
«Vi sono i lampi.»
«Non insistete, sir
William: lasciamola passare e perseguitiamola in coda. Tenteremo d'isolare la
nave del Marchese e di catturarla. Le combinazioni non mancano.»
«Avete ragione, signor
Howard,» rispose il Baronetto con un sospiro. «Testa di Pietra!» chiamò.
«Segnala coi fanali alle navi americane di lasciar passare quelle inglesi e di
mettersi poi in caccia.»
«Non si menano le mani
dunque stanotte?»
«No, vecchio mio.»
«Peccato! Ero proprio in
vena di montare all'abbordaggio.»
«Con questo pò pò di
mare?» osservò il signor Howard.
«Oh, a noi Bretoni fonda
alta non fa scappare il piede!»
«Segnala, Testa di
Pietra,» comandò il Baronetto. «Fanali rossi, azzurri, gialli e bianchi a suo
tempo.»
Scambiò alcune parole
ancora col suo secondo, che era stato incaricato della sorveglianza dei
timonieri, poi passò rapidamente in rassegna gli uomini della tolda. Tutti,
malgrado le furiose scrollate che subiva la Tuonante, erano al loro
posto: i gabbieri a riva, i fucilieri dietro le brande arrotolate sulle murate,
gli uomini di manovra ai bracci delle vele, gli artiglieri dietro ai pezzi da
caccia. E giù nelle batterie, tutto era pure pronto per impegnare la battaglia.
Testa di Pietra segnalò
alle quattro navi americane l'ordine del Corsaro, poi raggiunse il suo pezzo
favorito a babordo di prua, dove già Piccolo Flocco lo aspettava. La squadra
inglese intanto, travolta dalla tempesta, s'avvicinava nel massimo disordine.
Gli Americani l'avevano chiamata la flotta fantasma e non si erano ingannati.
Era partita due mesi prima dai porti dell'Irlanda carica di diecimila mercenari
che lord Dunmore sperava di condurre per tempo dinanzi a Boston e metterli a
disposizione di lord Howe, ignorando ancora che la piazza era già caduta.
Tempeste terribili l'avevano assalita in mezzo all'Atlantico, e giunta
finalmente in America, ed appreso da alcune navi inglesi che Boston era stata
presa, lord Dunmore si era rivolto verso la Virginia per tentarne la conquista.
Ma una cattiva stella perseguitava quella disgraziata squadra. Ancoratasi alle
foci dei fiumi, trasudanti il vomito prieto, ossia la febbre gialla, il
terribile male era scoppiato a bordo, poi giunta ai forti virginiani, questi
l'avevano respinta a colpi di fucile e di cannone. Priva di rifugio, piena di
malati, coi viveri e le provviste di acqua guasti, sorpresa novamente dalle
tempeste, aveva dovuto ricacciarsi nell'Atlantico senza una meta fissa.
Gli uomini morivano a
centinaia; le navi deperivano di giorno in giorno; tutto mancava a quella
disgraziata flotta destinata a fare una fine disastrosa, come vedremo in
seguito.
Se il mare fosse stato
tranquillo e il sole ancora alto, per la squadra dei corsari sarebbe stata la
migliore occasione per precipitarsi su quella flotta disorganizzata e montata
più da moribondi che da sani; ma con quella tempesta, sarebbe stata una
imperdonabile imprudenza. Unica cosa da farsi era perseguitarla tenacemente,
distruggendo o catturando le retroguardie formate da legni sottili per lo più.
«Corpo d'un campanile
alto come la torre di Babele!» esclamò Testa di Pietra. «Ci rovinano addosso.»
«Chi? Babele?»
«Tu, Piccolo Flocco, hai
avuto per maestro un asino.»
«Non ne ho mai avuti,
camerata. Preferivo andare alla pesca dei granchi e delle ostriche. Bisognava
aiutare la famiglia in qualche modo; e i pani, diceva mio nonno, non nascono
sui banchi della scuola pei futuri marinai.»
Testa di Pietra si mise
le mani sui fianchi, poi scoppiando in una risata, disse:
«Ed io preferivo
d'andarmene alla pesca delle dorate e dei granchi. Nemmeno mio padre aveva
fatto fortuna sul mare; era molto se si viveva e assai stentatamente. Tu devi
sapere, monello, che nei nostri villaggi la miseria regna sovrana, perché il
pesce non rende abbastanza... Corpo della torre di Babele!... Ci sorpassano.»
«Era un campanile quella
torre?»
«Che ne so io?» rispose
il mastro. «Mi ricordo che un giorno il vecchio parroco ci narrò la storia di
una grandiosa torre che avrebbe dovuto toccare il cielo. Dove si trovi poi, và
a cercarla tu, perché io non lo so davvero. Ma ora bastano le chiacchiere,
Piccolo Flocco!... A me, artiglieri!»
Sei uomini si
precipitarono sul suo pezzo favorito, armati di scoponi e muniti di mastelli
d'acqua. La squadra inglese, travolta dall'uragano, sfilava in pieno disordine
a meno di due miglia sottovento. L'oscurità era diventata così profonda in quel
momento, che non si potevano scorgere altro che i fanali, i quali subivano di
quando in quando dei balzi spaventevoli. Se le grosse ondate dell'Atlantico
tribolavano la disgraziata squadra fantasma, facevano passare dei brutti
momenti anche alla corvetta ed alle quattro navi americane, le quali, essendo
meno maneggevoli, od avendo equipaggi non completi, faticavano assai a tenersi
un pò unite. L'oceano rumoreggiava sinistramente. Mille ruggiti e mille fischi
uscivano dagli avvallamenti delle pareti, ripercotendosi con intensità strana,
impressionante.
La corvetta e le quattro
navi americane lasciarono sfilare le navi inglesi; poi si misero in caccia,
cercando di mantenersi in gruppo; caccia terribile ed estremamente pericolosa,
poiché la squadra di lord Dunmore non contava meno di venti navi fra grosse e
leggiere, ed un incontro era da temersi.
Verso le tre del mattino,
alla notte profonda successe un'altra notte di fuoco. Lampi lividi spaccavano
in due il cielo, scatenando mille fragori. Sugli alberi, sulle sartie, sui
pennoni delle navi correvano novamente i fuochi di sant'Elmo, sbizzarrendosi
come folletti. Di quando in quando palle grosse come aranci, tutte
scintillanti, che giravano su se stesse con spaventosa rapidità, calavano dalle
tempestose nubi, e dopo aver descritto delle strane evoluzioni, scoppiavano
come vere bombe, spandendo un acuto odor di zolfo.
Sir William ed il signor
Howard, approfittando di tutto quel lampeggiare, erano saliti sulla coffa della
maestra, muniti di fortissimi canocchiali. Essi cercavano di scoprire la
fregata, non essendo ancora ben sicuri che si trovasse fra le navi di lord
Dunmore.
«Il Capitano vuol farsi
fulminare da qualcuno di quegli aranci che Domeneddio si diverte a mandarci...»
disse il Bretone.
«Sono bombe?» chiese
Piccolo Flocco.
«Quasi; ma sono più
pericolose, perché se una ti coglie, ti asfissia sul colpo.»
«Ci mancano le bombe
degli Inglesi per completare la festa.»
«Hanno troppo da fare
contro la bufera per occuparsi ora di noi. Nessun puntatore, con questo rollio,
sarebbe capace di mandare a destinazione una palla.»
«Hai dimenticato il
puntatore della fregata del Marchese che ci ha così bene disalberato?»
La fronte di Testa di
Pietra a quel ricordo s'increspò.
«Dove l'Halifax ha
scovato quell'artigliere? Se ce lo troveremo ancora dinanzi, altri malanni
recherà alla corvetta.»
«Ma noi non resteremo colle
mani ai fianchi,» disse il giovane gabbiere. «Pezzi grossi ne abbiamo anche
noi, con palle incatenate, ed un buon puntatore non ci manca.»
«Chi è?»
«Tu.»
Il Bretone scrollò la
testa e disse con un sospiro:
«Invecchio, Piccolo
Flocco!»
«Ma che? quelli di Batz
sono giovani anche a cent'anni! Scommetto che quel tuo famoso nonno sparava...»
«Ah, furfante!...» lo
interruppe il Bretone, «lascia stare quel brav'uomo: valeva Jean Bart... Saldi
in gambe! Assicurate i pezzi! L'Atlantico si scatena.»
Difatti l'oceano, dopo
una breve calma, tornava rabbioso all'assalto delle navi scagliando delle
ondate di dieci e perfino di dodici metri, ondate che di solito non
s'incontrano che al Capo Horn. Giungevano le liquide montagne rumoreggiando,
muggendo, tonando, colle creste irte di schiuma fosforescente, e si abbattevano
senza misericordia sulle due squadre, mettendo a duro cimento l'abilità dei
piloti e dei marinai.
Malgrado le spaventose
scorribande, il Baronetto e il signor Howard non avevano lasciata la coffa di
maestra. Volevano scoprire la fregata; cosa non difficile, poiché, come abbiamo
detto, alla notte buia era succeduta una notte di fuoco. Immensi lampi si
proiettavano sulla fuggente squadra, tutta avvolgendola in una tinta
cadaverica. I fulmini si succedevano ai fulmini, le palle elettriche cadevano,
la gran voce del tuono vinceva i ruggiti del mare, ciò nondimeno la caccia
continuava accanita.
La corvetta, senza badare
se era seguita dalle quattro navi americane, stringeva il vento per piombare
sul fare del giorno, se lo stato del mare lo avesse permesso, in mezzo alla
squadra di lord Dunmore e pescarvi la fregata, magnifica e salda veliera, che
sormontava le onde come se fosse un guscio di noce, tenendo fieramente testa ai
furori dell'Atlantico.
Già la notte stava per
alzarsi, quando la voce del Corsaro, quella voce metallica, incisiva, scese
dalla coffa dominando per un istante i ruggiti del vento e i fragori delle
onde:
«La fregata!»
Testa di Pietra fece un
salto, girò due volte su se stesso come una trottola, e gridò:
«Corpo della torre di
Babele! La fregata! Ah, questa volta quel dannato puntatore avrà da fare i
conti con me!»
«Preferirei un
abbordaggio,» disse Piccolo Flocco. Con questo mare?»
«Si picchia dentro.»
«E si va tutti in bocca
ai pescicani. Tu non diventerai mai un ammiraglio.»
«Mio padre non era che un
pescatore.»
«Anche i pescatori
possono diventare comandanti di squadra, quando hanno sangue freddo e pugno
saldo al timone... Ma basta con le chiacchiere. Ai pezzi, artiglieri! Le onde
si spianano ed il vento cede. Bruceremo della buona polvere. Corpo di tutti i
campanili e di tutte le torri della Bretagna! Voglio rendere alla fregata il
colpo che ci ha regalato...»
«Vuoi un paio
d'occhiali?»
«Và all'inferno! Sei un
vero monello!»
|