Non ci voleva
di più per sedurre un Indiano. E poi voleva vendicare la moglie e suo figlio,
non perchè fosse addolorato per la scomparsa della sua compagna e dell'erede,
non essendo quegl'Indiani troppo amanti della
famiglia, ma per quell'istinto vendicativo che domina
gli uomini primitivi.
– Ucciderò il giloia – disse con voce pacata. – Aspettatemi qui.
Risalì la ripa e una mezz'ora
dopo tornava, portando una bracciata di rami resinosi che dovevano servire da
torce e la sua cerbottana, una specie di tubo di legno, un po' largo alla base
e più stretto verso la cima, adoperato per lanciare le frecce dalla punta
bagnata nel velenosissimo curaro.
Soffiandovi dentro con forza,
gl'Indiani riescono a mandare i loro dardi anche ad una distanza di cinquanta
metri e sono così abili da non sbagliare nemmeno i più piccoli uccelli.
– Quando l'uomo bianco vorrà –
disse, dopo di aver distribuiti i rami.
Il sole stava per scomparire
dietro le boscaglie e la notte calava rapidissima.
Gli uccelli fuggivano e
cominciavano invece a volare i pipistrelli giganti: i pericolosi vampiri che si
pascono di sangue e che si attaccano agli uomini od agli animali che possono
sorprendere addormentati nelle foreste o sulle rive dei fiumi.
Il piantatore, il capataz, l'Indiano ed i cani salirono la riva e si
fermarono dinanzi alla spaccatura, entro la quale si era rifugiato il colossale
rettile.
Temendo che si trovasse lì
presso, introdussero dapprima un ramo resinoso acceso, agitandolo in tutti i
sensi.
Non udendo alcun rumore, nè alcun sibilo, i tre uomini s'introdussero cautamente
nella caverna, tenendo i fucili e la cerbottana puntati.
– Si sarà ritirato nell'ultima
caverna – disse l'Indiano. – Esiste colà una galleria immensa, dove il giloia si riterrà sicuro di non essere disturbato.
«Vi è anche un laghetto che mi parve
profondo e può anche essersi nascosto in quello, amando quei rettili l'acqua.
– Questo Indiano ha del coraggio
– disse il piantatore al capataz.
– Mentre io non vi celo,
padrone, che mi sento tremare le gambe.
– Abbiamo i cani dinanzi a noi e
ci avvertiranno del pericolo.
I mastini precedevano i
cacciatori, nondimeno non mostravano di aver troppa fretta di scoprire il
terribile boa delle caverne.
Di quando in quando si fermavano
e volgevano la testa verso il padrone, come per chiedergli se non sarebbe stato
meglio rinunziare a quell'impresa che non pareva
fosse di loro gusto.
La caverna s'allargava
smisuratamente. Sale immense, adorne di superbe stalattiti, si succedevano una
all'altra, con cavità laterali che era impossibile sapere dove mettessero e che
potevano servire anche di rifugio al mostro.
L'Indiano, come se fosse
pienamente sicuro del fatto suo, non esitava mai. Si avanzava sempre sotto
quelle vôlte tenebrose, tenendo alto il ramo resinoso, la cui fiamma rossastra
talvolta si agitava vivamente come se da fessure invisibili penetrassero delle
forti correnti d'aria.
Avevano già attraversato quattro
caverne, quando Jaco si fermò, curvandosi verso terra
e manifestando un'improvvisa agitazione.
– Vedi il giloia?
– chiese il piantatore.
L'Indiano si era alzato,
mostrando qualche cosa che ondeggiava nella sua mano.
– I capelli della mia donna –
disse con voce roca. – Il giloia li ha
rigettati.
Poi aggiunse con una certa
soddisfazione
– Sono neri e lunghi e faranno
bella figura sul mio scudo di guerra.
– Che razza d'uomini ! – disse
il piantatore, nauseato. – Non hanno un briciolo di cuore!
Jaco
si appese alla cintura la capigliatura che era imbrattata ancora di sangue e di
bava e riprese la marcia. Aveva lasciato la cerbottana ed impugnava la scure di
guerra, arma molto migliore e più sicura per affrontare un simile rettile.
Attraversarono altre quattro
caverne una più lunga dell'altra, poi una galleria e giunsero sulle rive d'un
ampio stagno di forma quasi circolare e dalle acque nere.
Stavano per girarlo, quando
un'impetuosa folata di vento, uscita da una galleria laterale, spense
improvvisamente le loro torce, lasciandoli nella più profonda oscurità.
– Accendi! Accendi! – gridò il
piantatore all'Indiano con voce atterrita.
Udì Jaco
che frugava nella borsa che portava appesa alla cintura, poi un grido:
– Non ho più l'acciarino!
– E tu, capataz?
– chiese don Herrera, che si sentiva drizzare i
capelli sulla fronte, pensando che forse il giloia
era poco discosto.
– Non sono fumatore, padrone – rispose
l'interrogato. – Non lo prendo mai con me.
In quel momento si udirono i
cani ringhiare, poi le acque nere dello stagno muggire e gorgogliare, come se
fossero state improvvisamente agitate da qualcuno.
– Fuggiamo!– gridò il
piantatore. – Il giloia sta per lasciare il
fondo dello stagno!
Si erano precipitati tutti verso
la galleria che avevano poco prima attraversata, brancolando nel buio profondo
e, dopo alcuni secondi, andavano ad urtare contro una parete, cadendo tutti
insieme.
– Dove siamo? – chiese Herrera.
– Abbiamo smarrito la via o
siamo entrati in qualche galleria laterale – disse l'Indiano.
– Udite! – esclamò il capataz, rabbrividendo.
In fondo alla caverna, verso il
laghetto, si udivano dei sibili stridenti e latrati furiosi.
– Sono i miei mastini che hanno
assalito il rettile – disse Herrera.
– Sono perduti – disse
l'Indiano.
I latrati si erano mutati in
guaiti lamentevoli che durarono alcuni istanti, poi il silenzio tornò a
piombare nella caverna.
– Il serpente ha ucciso i miei
cani! – esclamò il piantatore, facendo un gesto d'ira.
– Vendicheremo anche quelli –
rispose l'Indiano.
– Cerchiamo invece di uscire al
più presto – disse Herrera, che non aveva più alcuna
fiducia nell'Indiano.
– Troveremo l'apertura – disse Jaco. – Tenetevi presso di me, anzi attaccatevi alla mia
cintura.
Si staccò dalla parete e si
spinse innanzi, procurando di non deviare nè a
destra, nè a sinistra, e finì per trovare un
passaggio.
– Dobbiamo essere in una delle
sette caverne – disse allora. – Seguitemi sempre.
Aveva preso un passo
rapidissimo. Anche a lui premeva di trovarsi fuori, per paura di sentirsi
piombare addosso quello spaventoso rettile.
Ad un tratto si fermò,
appoggiandosi contro una parete.
– Fermi! – disse.
– Ci siamo ancora smarriti? –
chiese il piantatore.
– Ascoltate.
Udivano a breve distanza un fruscìo che pareva prodotto dall'urto delle grosse scaglie
del giloia che s'avvicinava.
– Che sia il boa che si dirige
verso l'uscita? – chiese sottovoce Herrera.
– Sì – rispose l'Indiano. – Non
movetevi e trattenete anche il respiro. Se si accorge della nostra presenza,
guai!
Si erano immobilizzati contro la
parete, tenendo i fucili tesi e la cerbottana, tremando di venire ad ogni
istante assaliti.
Il fruscìo
aumentava sempre. Per un momento non lo udirono più e credettero
d'essere stati scoperti, poi il serpente riprese la sua marcia, allontanandosi.
– È passato – disse l'Indiano. –
Ecco il momento buono per assalirlo.
– O di lasciarlo andare? –
chiese il capataz.
– No – rispose Jaco. – Aspetteremo che abbia la testa fuori del crepaccio
e gli troncheremo la coda.
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