Si rimisero in
cammino in punta di piedi, seguendo il fruscìo e
videro finalmente l'apertura della caverna.
– Il giloia
sta per andarsene – disse Jaco, impugnando la scure.
– Lasciamo che metta fuori la testa e metà del corpo.
Il rettile, inquietato dall'
assalto dei cani, andava in cerca di qualche altro rifugio.
I cacciatori lo videro
introdurre l'enorme corpo nella spaccatura, ostruendola quasi interamente.
Trovandosi così come
imprigionato, non poteva più essere pericoloso.
– Addosso! – gridò l'Indiano,
che si era già abituato a quell'oscurità.
Balzò con la scure alzata e si
mise a percuotere con vigore la coda del mostro, mentre il piantatore ed il capataz, scaricati i fucili, impugnavano le sciabole
da guastatore.
Il rettile, che si sentiva
mutilare la coda, sibilava rabbiosamente e si contorceva, tentando di rientrare
nella caverna per tener fronte agli assalitori.
Intanto i due piantatori e
l'Indiano moltiplicavano i loro colpi.
Il rettile, pazzo di dolore,
cercò allora di fuggire. Con uno sforzo supremo ritirò l'estremità del suo
corpo e si lasciò scivolare giù per la china, gettandosi nel fiume sottostante.
– È perduto ! – gridò il
piantatore, con rincrescimento. – Avrei desiderato conservare la sua pelle.
– Ve la darò io – disse
l'Indiano.
Balzò nel canotto che aveva
servito a sua moglie per attraversare il fiume e scomparve.
Due giorni dopo Jaco tornava alla fazenda, seguìto
da sei Indiani che portavano la pelle dell'enorme rettile.
Aveva ritrovato il mostro su di
un isolotto, dove era andato a morire.
Quella pelle misurava
ventiquattro metri ed aveva una circonferenza di settanta centimetri.
Ora quel terribile boa delle
caverne fa bella figura di sè nella sala della
fazenda di San Felipe, dove accorrono sempre numerosi
naturalisti ad ammirarlo.
FINE
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