CAPITOLO VII. - Un morto che risuscita.
Non erano ancora
n'entrati nella capanna che il beduino, che tutto aveva udito, slanciavasi
fuori dai cespugli.
Era pallido, anzi
livido; aveva le ciglia aggrottate, lo sguardo acceso, le labbra contratte e i
denti bianchi e aguzzi come quelli di uno sciacallo, collericamente stretti.
Sul suo volto leggevasi l'ira appena frenata.
Egli guardò più volte
d'attorno con circospezione, con le mani chiuse nervosamente attorno ai calci
delle pistole che uscivano dalla larga fascia rossa, poi si spinse fino sul
pendìo della collina volgendo gli occhi verso il tugul di Ahmed.
Ira di Dio! esclamò egli
con rabbia. Chi è questo cane che si intromette nelle mie faccende? Chi è
questo Abù-el-Nèmr che ci tiene tanto per avere in mano sua Abd-el-Kerim? Io
scommetterei che la storiella che ha narrato l'ha inventata di sana pianta.
Quello stupido di Ahmed, quantunque si spacci per un profeta, se l'ha bevuta,
ma io non la bevo, per Maometto!
«Ah! si vuoi portarmi
via Abd-el-Kerim? La vedremo, signori miei, se voi sarete capaci di farla ad un
uomo del mio stampo. Orsù bisogna prendere una seria decisione prima che
l'uragano scoppi. Qui corro rischio di perdere non solo l'arabo, ma di cadere
anche nelle unghie di Ahmed che parmi non mi voglia troppo bene. Andiamo prima
al baobab e poi di trotto a El-Obeid.
Diede uno sguardo al cielo
coperto da densi nuvoloni che i lampi illuminavano bizzarramente, un altro al
campo che cominciava a diventare deserto, cangiò la carica alle pistole onde,
al momento opportuno, non mancassero al colpo, e discese con infinite
precauzioni la collina. Arrestossi alcuni minuti al basso, guardò a destra, a
sinistra, dinanzi e di dietro per assicurarsi che nessuno lo spiava o lo
seguiva, poi cacciossi in mezzo al163 tugul e alle tende
procedendo rapidamente e silenziosamente.
Venti volte si fermò, credendo
sempre di avere qualcuno alle calcagna, ed altre venti volte ritornò sui propri
passi per assicurarsi che si era ingannato. Alle undici di notte varcava le
trincee gettandosi in mezzo alle sabbiose pianure del sud.
Soffiava un vento
impetuoso che alzava nembi di impalpabile sabbia e grosse goccie di pioggia
cominciavano a cadere. Fra le nubi toneggiava fragorosamente e lampi
abbaglianti rompevano di tratto in tratto le fitte tenebre.
- Tutto va a gonfie
vele, mormorò il beduino, sorridendo diabolicamente. Con simile notte a nessuno
salterà il ticchio di uscire dal campo per venire in cerca di me, nemmeno a
quell'animale di Abù-el-Nèmr. Mille saette! Ma chi può essere questo scièk
che ha tanta influenza su Ahmed? Uhm! Non so, ma ho il presentimento che lì
sotto gatta ci covi! Per Maometto! Abd-el-Kerim me lo dirà e se si rifiuta....
avrà da fare con me!
Si tirò il taub
sugli occhi e riprese il cammino salendo e discendendo le colline di sabbia,
curvandosi di quando in quando per resistere ai soffi del vento che talvolta
minacciavano di rovesciarlo, tanto erano formidabili. Per mezz'ora avanzò
acciecato dai lampi, inzuppato dall'acqua che veniva giù a catinelle, assordato
dagli scrosci delle folgori che cadevano a tre, a quattro alla volta, poi fece
alto.
Dinanzi a lui, a un
duecento passi, alzavasi un albero gigantesco che da solo formava un bosco. Il
tronco aveva più di trenta metri di circonferenza, e a tre o quattro metri dal
suolo spartivasi in molti rami, alcuni dei quali, più grossi dei più grossi alberi
delle nostre foreste, ricadevano verso terra dopo di aver raggiunto un'altezza
di dieci o dodici metri.
Il beduino, al di sotto
di quell'ammasso immenso di rami e di foglie che il vento scuoteva furiosamente
con mille gemiti e mille scricchiolii, scorse tre uomini, distesi per terra,
uno dei quali alzossi gridando: - Chi vive?
- Sta cheto, El-Mactud,
rispose il beduino. Sono io.
In pochi salti raggiunse
lo scièk che aveva di già armato il suo moschettone. Con un cenno della
mano lo invitò a deporre l'arma.
- Che nuove? gli chiese.
- Nessuna, rispose lo scièk.
Abd-el-Kerim dorme pacificamente.
- Lo sveglierò.
El-Mactud fece un gesto
di stupore.
- Oh! esclamò.
- Bisogna che io gli
parli.
- C'è qualche cosa in
aria?
- Altro che! vogliono portarmi
via l'arabo.
- Chi?.... Ahmed forse?
- No, s'affrettò a dire
il beduino che non si fidava di quel guerriero ancora devoto al Profeta. È un
sceicco che tu devi conoscere.
- E si chiama?
- Abù-el-Nèmr.
Lo sceicco digrignò i
denti come una iena.
- Ah! maledetto nubiano!
esclamò egli con rabbia. Vorrebbe forse immischiarsi nelle nostre faccende? Che
non ci si provi nemmeno. Ho dei conti da saldare e potrei saldarli con un buon
colpo di scimitarra.
Sulle labbra del beduino
spuntò un sorriso diabolico; non potè frenare un moto di contentezza. Guardò
attentamente lo scièk e nei suoi occhi lesse l'espressione di un
terribile odio.
- Che ti ha fatto
quell'uomo? chiese egli.
- Te lo dirò un'altra
volta. Basta che tu sappi che io lo esecro.
- È potente Abù-el-Nemr?
- Molto potente, amico
mio. Se egli ci scopre Abd-el-Kerim è perduto.
- Faremo il possibile
perchè non ci scopra.
- Ma che cosa vuol fare
di Abd-el-Kerim quel cane di Abù?
- L'ignoro, ma temo che
lì sotto ci sia un mistero
- Che intendi di fare?
- Di battermela a
El-Obeid.
- E porteremo con noi
l'arabo?
- S'intende.
- Quando partiremo?
- Appena avrò veduto
l'arabo e gli avrò parlato ci metteremo in cammino.
- Allora spicciamoci.
Domani mattina Abu-el-Nèmr si metterà in caccia; bisogna trovarsi al sicuro in
città prima che spunti l'alba.
- Vado subito. Intanto
preparerai una barella e chiamerai qualche altro uomo perchè ci aiuti a
trasportare l'arabo.
- Siamo d'accordo,
concluse El-Mactud.
Il beduino s'avvicinò al
colossale tronco del baobab ai piedi del quale, sulla corteccia, scorgevasi
quattro profonde incisioni che venivano a formare un quadrato. Con un pugno
sfondò quella corteccia incisa e dinanzi a lui apparve un'apertura che metteva
in un antro scavato nell'interno dell'albero.
Stette alcuni istanti in
ascolto, poi s'inoltrò sulla punta dei piedi e arrestossi in mezzo a quella
bizzarra caverna. Era buio perfetto e faceva un freddo da intirizzire le
membra. Un silenzio lugubre, misterioso, regnava là entro, rotto di quando in
quando da un respiro affannoso e da un brulichio che doveva indubbiamente
provenire da migliaia e migliaia d'insetti che s'aggiravano fra quelle
diacciate tenebre.
- Dorme, mormorò il
beduino. Lo sveglierò.
Battè l'acciarino, accese
l'esca e diè fuoco ad una torcia resinosa impiantata nel suolo, la quale
illuminò d'una luce azzurognola l'umida caverna che era poco alta e assai
ristretta.
Là, proprio nel mezzo,
sdraiato per terra, sonnecchiava Abd-el-Kerim.
L'infelice non era più
riconoscibile; incuteva ribrezzo al solo guardarlo.
I suoi lineamenti
sparivano, si confondevano sotto una gonfiezza livida. Le sue palpebre erano
chiuse e intorno agli occhi si disegnavano due larghi cerchi rossastri che
parevano due ammaccature. Una bava sanguigna era radunata agli angoli delle
labbra, tumide, semi aperte, contratte per lo spasimo ed un abbondante sudore
viscoso irrigavagli il volto contrafatto.
Tutto il suo corpo era
avviluppato da pezzi di tela inumiditi, trattenuti da sottili striscie di cuoio
e su di essi strisciavano battaglioni di vermiciattoli, di formiche, di insetti
d'ogni specie che si cacciavan in mezzo alle fascie con un brulichìo che
incuteva terrore e ribrezzo. Qua e là, sul petto, apparivano dei tumori grossi
come un pugno, alcuni dei quali, screpolati, lasciavano vedere la viva carne.
Il beduino, nel vedere in quale misero stato era ridotta la sua vittima, erasi
arrestato. Una forte commozione si dipinse sui suoi lineamenti, ma durò un sol
secondo.
Il sarcastico sorriso che
mai abbandonava le sue labbra ricomparve e lo sguardo gli diventò assai più
cupo. Ebbe persino il coraggio di far risuonare là entro, in quella tomba, uno
scroscio di risa che l'eco sinistramente ripetè164 .
Non dimentichiamo che
quest'uomo è mio rivale! mormorò egli con un accento dal quale trapelava un
implacabile odio. Del resto non morirà. I vermi che serpeggiano sul suo corpo
succhiandogli il sangue, un giorno, se ritroverò la mia povera sorella, glieli
farò strappar tutti, dovessi misurarmi coll'inviato di Dio!...
Si passò tre o quattro
volte una mano sulla fronte come per iscacciare un doloroso pensiero e sospirò.
Qualche cosa di umido, che affrettossi a tergere, brillò nei suoi occhi.
- Povera sorella,
bisbigliò.
S'avvicinò ad
Abd-el-Kerim che dormiva profondamente, lo esaminò per qualche tempo con molta
attenzione poi lo punse leggermente in fronte col suo jatagan.
Abd-el-Kerim a quella
dolorosa sensazione trasalì e svegliossi. Con una mossa improvvisa, nervosa,
che gli strappò un lugubre gemito, alzossi a sedere guardando, ma con uno
sguardo da ebete, il beduino che gli stava presso.
- Chi sei? chiese egli,
con voce appena distinta.
Il beduino invece di
rispondere lasciò cadere all'indietro il cappuccio mettendo allo scoperto il
suo volto dalla pelle bianca e coperto inferiormente da una barba nera e
inspida.
Abd-el-Kerim non fece
alcun moto che dinotasse sorpresa o terrore alla vista di quella faccia; senza
dubbio non vedeva bene ancora.
- Chi sei? tornò a
chiedere con voce più fioca
- Non mi riconosci
adunque? disse lentamente il beduino, facendoglisi ancor più da vicino.
Guardami bene in volto, Abd-el-Kerim!
Quella voce fece sul
prigioniero un gran effetto. Sobbalzò come stato toccato da una palla e le sue unghie
sollevarono l'umido terreno.
Qual voce!.... esclamò
egli con profondo terrore. Qual voce!....
- La riconosci?
Abd-el-Kerim non
rispose. Con uno sforzo disperato si sollevò sulle ginocchia e avvicinò il suo
volto a quello del beduino. Un urlo lacerò il suo petto.
- Notis!....
Una commozione terribile
lo scosse dalla testa ai piedi. Anelante, convulso, cieco di rabbia, allungò le
mani verso il greco, ma le forze gli vennero meno e cadde pesantemente a terra,
ripetendo con voce strozzata, indistinta:
- Notis!... Notis!...
Il greco, poichè era
proprio lui truccato da beduino; che caduto nelle mani dello scièk El-Mactud,
era passato sotto le bandiere del Mahdi, lo guardò per qualche minuto quasi con
compassione.
- Sei sorpreso
Abd-el-Kerim di rivedermi? chiese dipoi egli, con ironia. Infatti, è abbastanza
strano che io sia ancor vivo dopo di essere stato, per la seconda volta, ferito
a morte. Si vede proprio che qualche genio, Dio o il diavolo, veglia su di me.
È un peccato, non è vero Abd-el-Kerim?
L'arabo con gli occhi
sbarrati lo guardava fisso fisso non sapendo se era vittima di uno spaventevole
incubo o se aveva realmente dinanzi a sè il fratello della terribile Elenka.
Ad un tratto le sue
labbra s'agitarono come volessero articolare una parola. Il greco che lo
osservava attentamente notò quel movimento, anzi indovinò la domanda che
pendeva dalle labbra dell'infelice prigioniero poichè la sua faccia assunse
un'espressione di diabolica gioia.
- Ti comprendo, disse.
Tu vuoi interrogarmi in qual modo io sia qui e che avvenne della donna che ti
portò disgrazia. Sta zitto che io te lo dirò.
Guardò intorno, e visto
in un angolo un garah, sorta di vaso di terra cotta che fabbricano le
donne del Kordofan, lo rovesciò e si sedette sopra incrociando le gambe alla moda
dei turchi.
- Abd-el-Kerim,
diss'egli, sforzandosi di parere tranquillo, È la seconda volta che noi ci
troviamo l'uno di fronte all'altro io libero e tu prigioniero; è la seconda
volta che io tengo in mia mano la tua vita ed è la seconda volta che ti risparmio.
Sai il perchè?
- Non mi curo di
saperlo, balbettò l'arabo ancora in preda ad una terribile commozione. Uomo o
fantasma, vattene che mi fai ribrezzo, mi fai paura! Non sei adunque ancora
contento di aver spezzata la felicità che io avevo raggiunto? Non sei adunque
contento di avermi lacerato l'anima, di avere fatto di me l'uomo più sventurato
della terra, di avermi fatto straziare le carni, di avere innestato nel mio
sangue la morte!... Guarda, mostro, in quale orribile stato mi hai ridotto, guarda
questi tumori sotto i quali nascondonsi orribili vermi che succhiano il mio
sangue, che rodono lentamente le mie carni, che mi stremano, che mi
ischeletriscono?... Ah! Notis! Notis! ti sei ben vendicato!
Un singhiozzo sollevò il
deturpato petto dell'infelice. Tentennò a destra e a manca, stringendosi
fortemente il capo fra le mani, poi, esausto di forze, ricadde a terra.
Notis s'alzò e si mise a
passeggiare per l'umido antro colla testa china sul petto e le braccia
incrociate. La sua fronte era assai aggrottata e il sorriso ironico che poco
prima errava sulle sue labbra era scomparso. Forse quell'uomo di ferro era
commosso.
- Notis, ripigliò
Abd-el-Kerim, abbi pietà di me, abbi pietà di un infelice che è agli estremi,
che sta per morire giacchè ho la morte nelle vene. Dimmi che è avvenuto di
colei che noi abbiamo tanto amata, dell'infelice Fathma.
La fronte di Notis
s'aggrottò maggiormente. S'arrestò di botto, le sue labbra si agitarono come
volessero parlare, ma non disse verbo.
- Notis!... Notis!...
gridò con accento straziante Abd-el-Kerim.
- Taci! ruggì il greco. Taci... Abd-el-Kerim!
Un secondo singhiozzo
uscì dalle labbra dell'arabo. Una grossa lagrima, una di quelle lagrime amare
che erompono da un cuore straziato, a quel modo che il sangue zampilla da una
profonda ferita, si sospese alle sue ciglia e rotolò silenziosamente giù per le
incavate gote.
Notis gli si avvicinò
cogli occhi accesi, ma umidi; non era più lo stesso uomo di prima, nei cui
lineamenti leggevasi solo odio o rabbia. Era commosso molto commosso; si vedeva
che quell'anima inaccessibile, in quel momento, atrocemente soffriva.
Tu piangi adunque!
esclamò egli con una voce che non aveva nulla di umano. E io, credi tu che non
soffra, credi tu che non sanguini il mio cuore credi che non pianga?
Si arrestò di colpo.
Parve sorpreso, spaventato di quella confessione che gli era uscita, forse
senza volerlo, dalla bocca. La violenta emozione che alterava i suoi lineamenti
scomparve come per incanto. La faccia ritornò fredda, dura e il sarcastico e crudele
sorriso riapparve sulle sue labbra.
- Sono pazzo, mormorò.
Tornò a sedersi sul garah
mandando tuttavia un profondo sospiro.
Abd-el-Kerim disse, con
voce grave. Un giorno noi fummo amici, fummo come fratelli, poi fra noi sorse
una donna fatale per entrambi, che scavò un abisso immensurabile... Non ti
domando di chiudere questo abisso165 poichè so che sarebbe
impossibile, ma ti prego di colmarlo per dieci soli minuti... e ti giuro che
non ti pentirai di aver fatto ciò. Acconsenti tu? Te lo chiedo in nome
dell'antica nostra amicizia
L'arabo scosse la testa
e non rispose.
- Ti parlerò di
Fathma... della donna fatale!
- Ah!... Fathma!...
Fathma!... che ne sai tu di lei?... È viva?.. È morta?... Notis, parla e ti
abbandono la mia vita.
- Parlerò dopo che tu mi
avrai risposto.
- Interrogami che ho
colmato l'abisso
- Abd-el-Kerim, ti
scongiuro, dimmi che è avvenuto della mia povera sorella, dimmelo.
- Elenka! balbettò
cupamente. Tu vuoi che io parli di Elenka! No, mai!
- È il fratello di
Elenka che ti prega
- Non parlerò
- Abd-el-Kerim!...
- Mi vendico, Notis!
Il greco scattò in piedi
con le gote vermiglie, gli occhi infiammati, le labbra frementi. Le sue mani si
aprirono e si chiusero convulsivamente come volessero stritolare qualche cosa.
- Sta bene, disse, con
accento minaccioso. Ti pentirai!
Girò tre o quattro volte
su sè stesso, si spinse fino all'uscita dell'antro, poi ritornò bruscamente
indietro tenendo in una mano una piccola ampolla di vetro.
- Abd-el-Kerim, disse
con voce alterata, potrei farti morire lentamente fra le più atroci torture,
potrei farti uscire il sangue dalle vene goccia a goccia, eppure non lo faccio
perchè ho ancora la speranza che noi un dì ritorneremo amici, anzi...
- Taci! esclamò l'arabo,
che lesse il suo pensiero. Non sarà mai e poi mai.
- Tu la odi ancora
adunque?
- Sì, e più oggi che due
mesi fa.
- Non hai pietà adunque
per la povera Elenka.
- Non nominarla; quel
nome mi fa atrocemente male.
- Ah! maledetto!
Il greco era diventato
violaceo per l'ira. Scagliossi come una pantera sull'arabo, l'afferrò per la
gola, poi introducendogli fra le labbra la fiala gli versò in bocca tutto il
contenuto. L'effetto di quel liquore fu istantaneo.
Abd-el-Kerim piombò giù
come se il sangue gli fosse improvvisamente cessato di circolare. Il capo gli
cadde all'indietro166 battendo in terra con sordo rumore. Un
sospiro che rassomigliava a un rantolo di chi agonizza gli uscì dalle labbra e
rimase immobile, irrigidito come un morto.
Notis lo contemplò per
alcuni istanti con uno sguardo nel quale leggevasi un terribile odio, poi si
chinò su di lui, lo afferrò fra le braccia e gettandoselo in ispalla uscì
dall'antro.
El-Mactud lo aspettava
con quattro baggàra e con una barella improvvisata con rami e resa soffice da
un alto strato di foglie di baobab.
Ebbene? chiese lo scièk,
prendendo l'arabo e deponendolo, con precauzione, nella barella. Ha bevuto il
narcotico?
- Gliel'ho fatto bere
tutto, rispose Notis.
- Hai saputo nulla?
- Assolutamente nulla,
ma lo farò parlare. Andiamo ora a Obeid, che la mezzanotte è passata.
Ad un cenno dello scièk
due baggàra alzarono la barella e la comitiva si mise in viaggio dirigendosi
verso la città che disegnavasi confusamente sul fosco orizzonte.
Aveva già percorso più
che mezza via, quando le orecchie dello scièk furono ferite dallo
scalpitìo precipitato di un cavallo.
- Oh! esclamò egli,
tirando, per ogni precauzione la scimitarra.
Si volse indietro ed al
chiaror di un lampo scorse un cavaliere avvolto in un gran mantello bianco,
curvo sul collo del suo corsiero, che andava avvicinandosi rapidamente.
- Notis! mormorò egli,
coi denti stretti. Guarda!
- Chi è quell'uomo?
chiese il greco, aggrottando le ciglia.
- Non lo conosci? È lo scièk
Abù-el-Nèmr.
- Ira di Dio!... Dove
va?
- A El-Obeid, non lo
vedi?
Notis fece un salto
innanzi e diresse la canna del moschetto verso il cavaliere che gli passava
dinanzi a duecento passi di distanza.
- No, disse di poi,
quell'uomo può esserci utile. El-Mactud, conduci Abd-el-Kerim nella capanna che
tu bene conosci; io seguo lo scièk167 con Medinek.
- Sta bene, forse hai
ragione di seguirlo. Parti se non vuoi perderlo di vista.
Il greco non se lo fece
dire due volte e slanciossi dietro al cavaliere seguito dal negro Medinek. Dopo
dieci minuti di corsa, Abù-el-Nèmr e quelli che lo seguivano giungevano dinanzi
a El-Obeid, sulla cui porta faceva orribile mostra la testa diseccata del
barone di Cettendorfs.
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