CAPITOLO IX. - La zeribak dei prigionieri.
Mentre il greco, messo
colle spalle al muro e torturato, confessava tutto ciò che i suoi nemici
volevano sapere, Medinek, sfuggito miracolosamente alla pistolettata dello scièk
Abù-el-Nèmr, trottava come un cavallo per le oscure e fangose vie della città,
cercando la capanna dello scièk El-Mactud.
La paura di venir
inseguito, preso e forse fucilato, e la paura di giungere troppo tardi dal suo
capo gli mettevano le ali ai piedi. Ogni qual tratto però si arrestava colla
dritta sull'impugnatura dell'jatagan, e rattenendo il respiro tendeva
ansiosamente l'orecchio, parendogli sempre di udire fra gli urli della burrasca
che scatenavasi ognor più violentemente, la voce dello scièk Abù-el-Nèmr
e i passi di lui, indi ripigliava la sfrenata corsa, tuffandosi fino alle
ginocchia nelle pozze d'acqua e sollevando sprazzi fangosi.
Per sua disgrazia faceva
tanto oscuro che non gli riusciva di mantenersi sulla retta via. Ora infilava
una stradicciuola che non aveva sbocco, ora andava a dare il naso contro una zeribak
o contro il recinto d'un giardino e ora batteva vie che non aveva mai percorse.
Non fu che dopo una
buona ora di continua corsa che giunse nella gran piazza del Mercato, tutta
cinta di capanne e di capannuccie e di piccoli recinti destinati a ricevere i
cammelli delle carovane.
Al livido chiaror di un
lampo scorse il tugul che cercava, dalle cui fessure trapelavano dei
raggi di luce. In pochi salti lo raggiunse, applicando, alla porta
semi-sgangherata, un formidabile pugno.
- Chi va là? chiese una
voce, appena distinta fra i ruggiti della tempesta,
- Aprite! urlò. Sono
Medinek.
La porta si spalancò e
apparve sulla soglia lo scièk El-Mactud con una scimitarra in pugno.
Scorgendo Medinek egli indietreggiò mandando un grido di sorpresa e di terrore.
Aveva indovinato subito che qualche cosa di grave era accaduto.
- Che hai?... perchè sei
qui solo? Che è accaduto? chiese egli tutto d'un fiato, trascinandolo accanto
al fuoco che ardeva in un angolo del tugul.
- Una disgrazia,
El-Mactud. Notis è caduto nelle mani di Abù-el-Nèmr!
Lo scièk tirò un
tremendo pugno contro la parete della capanna.
- Tu vuoi burlarti di
me! esclamò egli con collera. È impossibile, non lo posso credere. Come! lui,
un uomo come lui, forte e coraggioso come un leone, astuto come un serpente,
cadere prigioniero! Tu sei pazzo! Tu vuoi spaventarmi.
- Ti giuro
sull'Alcorano, scièk, che ho detto la verità.
La collera di El-Mactud
cangiossi in profonda costernazione. Il suo volto divenne cenerognolo e la sua
fronte si corrugò.
- Tu giuri, mormorò egli
con voce tremante. Ma come si lasciò prendere? Di' su, narra, che sono sui
carboni ardenti. B'Allai! Sono tutto scombussolato!
Medinek non si fece
pregare. Egli gli raccontò per filo e per segno ogni cosa. La conversazione
tenuta fra Abù-el-Nèmr ed il suo compagno, il luogo ove essi avevano nascosta
la donna tanto cercata da Notis e infine la presa di quest'ultimo.
- Ma allora è perduto!
esclamò lo scièk quando ebbe tutto udito.
- Lo credo anch'io.
- Che hanno fatto del
mio povero amico?
- L'ignoro. Ho avuto
paura e sono fuggito
- La faccenda è seria, e
grave.
- Lo so bene. Che facciamo?
Fra pochi minuti lo scièk sarà qui, ne sono sicuro. Egli avrà tormentato
il greco per fargli confessare dove ha nascosto Abd-el-Kerim.
- Certamente.
- Se si resistesse colle
armi?
- Sarebbe una pazzia.
Basta che Abù alzi la voce perchè tutta la guarnigione di El-Obeid accorra a
prestargli man forte. Una sua parola sarà sufficiente perchè io lasci la testa
in mano al carnefice.
- E dunque? Bisogna
prendere una seria decisione.
El-Mactud non rispose.
Immobile, curvo, colla fronte stretta fra le mani, pareva annichilito dallo
sforzo eccessivo del pensiero. Ad un tratto si raddrizzò. Nei suoi sguardi
lampeggiava allora l'imperturbabile audacia di un generale che si risolve ad un
cambiamento di fronte sotto la grandine del fuoco nemico.
- Partiamo, diss'egli
risolutamente.
- Dove si va?
- Intanto andremo al
baobab a nascondervi Abd-el-Kerim, dopo ci recheremo alla zeribak a
rapire la donna. Al greco penseremo più tardi, poichè ora è assolutamente
impossibile il salvarlo. Andiamo!
Essi passarono nella stanza
attigua. Colà, disteso su di un angareb, stava Abd-el-Kerim, ancora in
preda al potente narcotico fattogli bere da Notis. Quattro guerrieri armati
fino ai denti vegliavano presso di lui.
Ad un cenno di El-Mactud
essi alzarono l'angareb con suvvi l'arabo ed uscirono silenziosamente
dalla capanna. Medinek si mise dinanzi colla scimitarra sguainata e lo sceicco
di dietro col remington sotto il braccio.
All'oriente cominciava
ad apparire, fra le tempestose nubi, un po' di chiaro.
La pioggia andava a poco
a poco decrescendo, ma il vento continuava a soffiare con estrema violenza,
ingolfandosi con mille gemiti attraverso le fessure dei tugul e contorcendo i
rami degli alberi177 e le grandi foglie delle palme e dei banani. Le
vie erano ancora deserte, ma non dovevano tardare a popolarsi. Già alle strette
finestre delle capanne cominciava apparire qualche volto color dell'ebano,
interrogando, con occhi ancora assonnati, lo stato del cielo.
La comitiva aveva già
attraversata la piazza e stava per cacciarsi in una oscura e puzzolente viuzza,
quando agli orecchi dello sceicco pervenne un lontano rumore che lo fece
trasalire.
Era un brusìo di voci,
un calpestìo precipitato, al quale univasi talvolta un tintinnar di scimitarre
che battevano la via.
- Alto! comandò egli
imbracciando il remington.
- Che succede? chiese
ansiosamente Medinek.
- Siamo inseguiti.
Un istante dopo sbucava
nella piazza un drappello di guerrieri armati di moschettoni e di lancie. Alla
sua testa trottava lo sceicco Abù-el-Nèmr colla scimitarra nella dritta e una
pistola nella sinistra.
Tre colpi di fuoco
echeggiarono. Un guerriero di El-Mactud gettò un acutissimo grido e precipitò a
terra colla testa attraversata da una palla. L'angareb cadde rovesciando
Abd-el-Kerim in mezzo al fango della viuzza.
- Fuggite! fuggite!
gridò El-Mactud, dandone lo esempio.
Altre tre fucilate
rintronarono seguite da un secondo urlo di dolore. Un altro guerriero cadde
fulminato. Gli altri, vista la mala parata, si slanciarono dietro El-Mactud che
trottava furiosamente.
Abù-el-Nèmr e i suoi
guerrieri non si diedero la cura d'inseguirli, e si fermarono presso
Abd-el-Kerim; i fuggiaschi invece proseguirono la vertiginosa loro fuga,
battendo l'una dietro l'altra sei o sette strade. Non si arrestarono che sotto
le mura della città.
El-Mactud, fuori di sè,
aveva la spuma alle labbra. Egli sfogava la sua ira con torrenti d'ingiurie
all'indirizzo di Abù-el-Nèmr e con una interminabile sfilza di bestemmie, senza
pensare che se il Mahdi avesse udito o saputo, non avrebbe esitato un sol
momento a fargli saltare la testa con un colpo di scimitarra.
Calmatosi un momento, si
diede seriamente a pensare sul da farsi. Egli si trovava in un grande
imbarazzo. Perduto Abd-el-Kerim, preso Notis, non rimaneva che battersela al
campo e lasciare che le acque corressero pel loro verso. La smania però di
vendicarsi dello scacco subìto, gli suggerì una eccellente idea.
- Vi è la donna, pensò
egli. Questa donna deve interessare vivamente Abù-el-Nèmr e Abd-el-Kerim.
Colpiamoli ambedue in mezzo al cuore facendola sparire. Saprò ben io dopo
trovare i mezzi per salvare Notis e riavere l'arabo.
Questo ardito piano
calmò la sua ira. Si sdraiò sotto ad un tamarindo, si coprì la faccia col
mantello, e attese pazientemente che arrivasse l'ora di operare. I suoi
compagni credettero bene di accocolarsi ai suoi fianchi.
Il sole alzavasi allora
sull'orizzonte, illuminando vivamente i minareti, sui quali strillavano i muezzin
o medin, invitando i fedeli all'es-sobh o preghiera del mattino.
Le piazze, le vie, le
viuzze rapidamente si popolavano. Per di qua e per di là sfilavan drappelli di
negri appartenenti a tutte le tribù dell'Africa centrale, chi nudi e chi
vestiti con svolazzanti mantelli dalle vivaci tinte; turbe di guerrieri colle darabùke
in testa che rullavano furiosamente, turbe di cammellieri che si tiravano
dietro i lenti animali, raccogliendo la bava che usciva dalle bocche di essi e
fregandosi la barba esclamando: «hadgi baba! hadgi baba!»178;
ondate di allegre ragazze cariche di giarre piene di merissak, o di
canestri impilati sulle loro teste mantenuti in equilibrio con quello strano
talento di equilibrista che posseggono le donne africane; attruppamenti di
beduini, di mercanti, di ricchi contadini montati su asinelli o su buoi e
accompagnati da piccoli negri affatto nudi, che servono a loro di paggi,
facendosi largo fra la folla a colpi di bastone somministrati senza riguardi di
sorta.
Dalle porte della città
entravano carovane di cammelli carichi di durah, di gomma, di datteri,
di avorio, che si recavano nella piazza del mercato dove i venditori avevano di
già rizzato le loro baracche, dove le almee davano i loro spettacoli,
dove gli incantatori di serpenti e gl'indovini chiamavano i curiosi suonando
certi pifferi dal suono acuto e di una forma tutta affatto speciale. E dietro a
loro si affollavano cacciatori di elefanti, feroce gente ai servigi di questo o
di quel mercante, che approfittano delle loro scorrerie per rubare fanciulli e
donne, per saccheggiare, per abbruciare, scannando chi a loro si oppone; poi giallàba
conducenti lunghe file di asini carichi di viveri, e infine bande di schiavi,
ignudi, affamati, insanguinati, solidamente legati, spinti innanzi dai loro
guardiani a colpi di staffile, a pugni, a calci e che venivano accumulati in
orribili tuguri, veri immondezzai, veri focolari di epidemie.
El-Mactud attese che il
sole fosse ben alto, le vie affollate, poi si mise in cammino coi suoi tre
compagni. Percorse quattro o cinque viuzze, ingombre di cammelli, di asini e di
mercanti, e sbucò sulla piazza del Mercato, in un angolo della quale rizzavasi
una grande baracca coperta di stuoie, guardata da una diecina di baggàra armati
di lance e difesi da scudi di pelle di rinoceronte.
Lì presso era aggruppata
moltissima gente ad assistere al supplizio della sferza applicato ad un greco
perchè sorpreso a fumare una spagnoletta. In un canto vi era un gruppo di
pellegrini venuti chissà mai da qual paese dell'Africa centrale; alcuni
pregavano con tale raccoglimento che nulla valeva a distrarli, colla faccia
volta alla Mecca, senza fare il minimo gesto onde non correre il rischio che
entrasse nel loro corpo il diavolo179; altri invece si purificavano ad
una fonte lavandosi le mani, le braccia fino al gomito, il viso, gli orecchi, i
piedi, risciaquandosi la bocca e assorbendo l'acqua per le nari.
El-Mactud s'aggirò per
qualche po' intorno alla zeribak spingendo lo sguardo al disopra delle
stuoie che formavano il recinto, poi, date alcune istruzioni a Medinek,
presentossi al capo della guardia baggàra.
Bastò che pronunciasse
il proprio nome perchè gli venisse fatto largo. Si calò il taub in modo
da nascondere gran parte della faccia e, dopo aver un po' esitato, entrò.
Là, dispersi pel
recinto, sotto un sole torrido che li arrostiva c'erano quaranta o cinquanta
egiziani seminudi, spaventosamente sparuti, coperti di ferite non ancora
cicatrizzate e di larghe macchie di sangue. Quei poveri soldati erano i
prigionieri di Kasghill, appartenenti all'esercito di Hicks.
El-Mactud, girato lo sguardo
attorno, si diresse verso un gruppo formato da alcuni vecchi sergenti che
sembravano agli estremi.
- Chi di voi sa
indicarmi ove nascondesi una donna? chiese egli, urtandoli colla punta del
piede.
- Lasciaci dormire,
disse uno di quei sciagurati.
- Cane di un egiziano!
esclamò lo sceicco, assestandogli un potente calcio. Se non ti affretti a
parlare ti taglio ambe le orecchie.
- Lasciaci in pace,
brutto negro, urlò l'egiziano.
Lo sceicco, furibondo,
aveva tratto l'jatagan e stava per scagliarsi su quel gruppo di persone
inermi, quando improvvisamente si arrestò cogli occhi sbarrati, le braccia tese
all'indietro, istupidito, trasognato.
Da una piccola capanna
era uscita una donna di bellezza superba, dalla tinta bruna, ma di un bruno
caldo, alta, robusta, dalle forme tondeggianti e stupendamente sviluppate. Un
piccolo tarbusch180 coprivale il capo, lasciando sfuggire una
nerissima chioma, cosparsa di monetuccie d'oro; un giubbettino azzurro di seta
chiudevale armonicamente il turgido seno, e una gonnella a frange d'oro
scendevale fino alle ginocchia cariche di aurei cerchietti che graziosamente
tintinnavano.
El-Mactud fece sei o
sette passi indietro fissando quell'ammirabile creatura. Il suo volto impallidì
e i suoi occhi si sbarrarono smisuratamente.
- Gran Allàh! esclamò
egli. Fathma!...
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