UN BANCHETTO
CINESE
Sing-Sing era
il vero tipo del cinese, tipo che è così differente dal manciuro che appartiene
alla razza dominante.
Era un uomo
piuttosto tozzo, molto obeso, prerogativa dei ricchi cinesi molto invidiata dal
popolo, colla faccia piatta e larga, cogli zigomi molto pronunciati, il mento
corto e tondo, il naso un po' depresso senza essere schiacciato, gli occhi un
po' obliqui, colla sclerotica giallastra e molto sporgenti.
Due lunghi
baffi, che cadevano inerti presso gli angoli della bocca assai larga, ruvidi e
grossi, gli davano un aspetto strano e contrastavano vivamente col loro colore
oscuro e colla tinta bruno-giallastra della pelle.
Al pari dei
ricchi borghesi, indossava una larga casacca di seta fiorata, la kao-ka-tz,
che scende fino alle ginocchia, aperta sul lato destro del petto e assicurata
da una cintura dalla quale pendeva una borsa; calzoni pure larghi e corti,
calze di seta e scarpe quadre con alta suola di feltro bianco.
Sul capo
invece portava un cappello conico, adorno di una striscia di zibellino e d'un
piccolo fiocco rosso.
Dopo aver
inforcato un paio d'occhiali di quarzo, di dimensioni straordinarie, il cinese
si avanzò verso Fedoro stendendogli la mano all'europea, senza però
stringergliela.
- Vi aspettavo
- gli disse - e sono ben lieto di rivedervi dopo una così lunga assenza e di
avervi questa sera presso di me. Si dice che i miei compatrioti hanno paura
degli uomini bianchi e la vostra venuta può forse salvarmi la vita.
- Che cosa
dite, Sing-Sing? - chiese Fedoro stupito da quel linguaggio incomprensibile.
- La verità -
rispose il cinese, mentre un'ombra passava sulla sua fronte.
- Chi può
minacciare voi, che tutta Pechino e le città costiere conoscono e stimano?
- Chi?
Sing-Sing si
era arrestato girando all'intorno uno sguardo atterrito.
- Il luogo non
può essere sicuro per delle confidenze, signor Siknikoff - disse poi, mentre si
tergeva con una mano alcune stille di freddo sudore. - oggi è giorno di festa e
la cena ci aspetta; a più tardi maggiori spiegazioni. Ditemi, però: avreste
paura di dormire nella mia stanza?
- Io! -
esclamò il russo.
Poi, indicando
il cosacco:
- Ecco un uomo
che è capace di accoppare un toro con un pugno e che se ne ride dei pericoli.
Un amico devoto, affezionato, con muscoli di acciaio e che ha fatto delle belle
campagne in Turchia. Ditemi quale pericolo vi minaccia.
- Gli amici
che ho invitato per questa sera ci aspettano; l'etichetta m'impedisce di
lasciarli soli, signor Siknikoff; andiamo quindi a cenare. Chissà, può essere
l'ultimo banchetto per Sing-Sing. D'altronde, da parecchi anni la mia bara sta
sotto il mio letto e se devo morire, tutto sarà pronto.
- Voi mi
spaventate! Chi può minacciare la vostra vita? Chi sono questi nemici?
- Degli uomini
potenti, capaci di far tremare anche l'imperatore. Basta, riparleremo di ciò
più tardi - disse Sing-Sing. - Ci aspettano ed ho già annunciato ai miei amici
la vostra visita.
Fedoro ed il
cosacco, quantunque assai preoccupati da quell'inattesa confidenza, seguirono
subito il ricco negoziante di tè, attraversando lunghi corridoi sulle cui
finestre brillavano miriadi di lanterne di carta oliata e di talco.
Sing-Sing aprì
una porta e introdusse il russo e il cosacco in una vasta sala, illuminata da
quattro gigantesche lanterne con vetri di madreperla trasparente, occupata per
la maggior parte da una tavola la quale si piegava sotto il peso di splendide
porcellane.
Due dozzine di
cinesi, persone distintissime di certo, a giudicare dalla ricchezza delle loro
vesti, stavano seduti all'intorno, sorseggiando del vino bianco caldo in
piccole tazze di porcellana azzurra filettate d'oro. Vi erano dei mandarini di
secondo e di terzo grado, riconoscibili pei loro cappelli conici adorni d'un
bottone di corallo o di zaffiro con penne di pavone; dei letterati panciuti,
dei comandanti militari che portavano sul petto l'insegna d'una tigre; dei
ricchi che avevano le unghie lunghe parecchi pollici per dimostrare che non
avevano bisogno di lavorare.
Sing-Sing
presentò ai suoi amici il russo ed il cosacco, poi se li fece sedere accanto,
Fedoro a sinistra, posto d'onore, e Rokoff a destra.
Quasi subito i
battenti d'una porta s'aprirono e una folla di servi entrò silenziosamente,
portando immense zuppiere, piatti giganteschi, recipienti di ogni specie e
salsiere di tutte le forme, deponendole sulla tavola, dinanzi ai convitati.
In Europa non si
può avere una idea della ricchezza e della grandiosità dei banchetti cinesi, i
quali devono certo superare perfino quelli di Lucullo. Quantunque non siano i
cinesi forti mangiatori, in questi pranzi offerti nelle grandi occasioni,
spendono somme enormi, perché le portate non devono essere mai meno di trenta
ed ognuna composta di tre piatti diversi!... Ordinariamente uno è caldo, gli
altri due sono freddi, ma questi non servono altro che per accordare ai
convitati un po' di riposo, non venendo quasi mai toccati. Il cinese non ama
che i cibi appena levati dal fuoco e vi fa anche molto onore.
Le pietanze
più strane, le più inverosimili e anche le più ributtanti, che un europeo non
oserebbe nemmeno guardare senza provare un vero senso di nausea, si succedono.
Il riso è il
primo piatto, che viene presto finito dai commensali, aiutandosi con dei
bastoncini d'avorio lunghi venti centimetri, grossi quanto un aculeo d'istrice
e che chiamansi Kwai-tsz, ossia «agili ragazzi».
La seconda
portata invece incomincia con una zuppa di pollo, con aggiunta di molto pepe,
molto sale e aceto, poi si seguono vermi di terra in salamoia, cavallette
fritte nel burro, ranocchi, prosciutti di carne, maccheroni, uova sode salate e
stantie, mantenute un anno nella calce, deliziose pei palati cinesi.
Poi pallottole
di trifoglio, gamberi pestati, pinne di pescecane, piccoli pasticci di carne,
lingue d'anitra in salsa bianca con aglio, zuccherini fritti in un olio
puzzolente, oloturie in stufato, radici di zenzero, gemme di bambù sciroppate,
e non mancano nemmeno i topi fritti, uno dei piatti più apprezzati dai cinesi.
Il vino nero
manca totalmente, quantunque la Cina produca molta uva. Si bevono invece
sciroppi d'ogni specie, liquori di ananas, d'arancia, e d'altri frutti
eccellenti.
I convitati,
che dovevano prima aver subito un lungo digiuno per far più onore alla tavola
dell'anfitrione, avevano assalito vigorosamente le prime portate, onde
mostrarsi persone bene educate e cercando di rimpinzarsi più che potevano.
Sing-Sing,
d'altronde, era sempre lì per incoraggiarli. Ad ogni portata, rivolgeva a
quello ed a questo dei convitati, che cominciavano a rallentare la foga,
dicendogli con un amabile sorriso:
- Mio caro
amico, voi non avete ancora mangiato nulla. Per caso trovate che la mia cucina
non vi va?
- No, no -
rispondeva l'interpellato, sbuffando. - Sono gonfio come un otre e la vostra
cucina è assolutamente deliziosa.
E subito
l'anfitrione di ripicco:
- So, bene che
la mia tavola non saprebbe darvi altro che dei cibi appena possibili, ma non ho
di meglio. Fatevi coraggio e gli dei vi benediranno; non sdegnate dunque queste
pessime vivande.
- I vostri
cibi sono degni degli dei e quantunque io stia per scoppiare, continuerò
tuttavia a far onore al vostro pranzo.
Tutte frasi
convenzionali, che si ripetevano su egual tono ad ogni portata, e che dovevano
far sudare freddo ai poveri convitati, parecchi dei quali parevano sul punto di
scoppiare davvero.
Chi faceva
poco onore al pasto, senza però offendere Sing-Sing, erano i due europei. Il
cosacco specialmente, non abituato a vedere in tavola né topi, né vermi, né
cavallette, quantunque il suo stomaco fosse d'una robustezza eccezionale, si
era sentito più volte rivoltare gl'intestini e solo per non far dispiacere
all'amico che lo teneva d'occhio, era rimasto al suo posto.
Brontolava
incessantemente e faceva certe smorfie e certi occhiacci, da far scoppiare
dalle risa Fedoro. Il povero diavolo sudava ben più copiosamente dei convitati
cinesi, condannati a rimpinzarsi come oche di Strasburgo, per non mostrarsi
maleducati.
Fortunatamente,
fra una portata e l'altra, vi era un intervallo passabilmente lungo, durante il
quale tutti potevano liberamente fumare. Dei giovani valletti, messi a
disposizione dei convitati, erano pronti a offrire le pipe, già accese prima
ancora che venissero richieste.
Sing-Sing ne
dava l'esempio. Quando però fumava, Fedoro che lo osservava di frequente, lo
vedeva immergersi come in dolorose meditazioni. Pareva che allora dimenticasse
perfino i suoi convitati, non sorrideva più e rimaneva parecchi minuti
silenzioso.
Fingeva di
assaporare il delizioso e profumato tabacco che bruciava nella pipa, ma
realmente un pensiero tetro lo tormentava perché la sua fronte si annuvolava e
nei suoi occhi si vedeva passare un lampo di terrore. Nondimeno, deposta la
pipa, riacquistava prontamente il suo buon umore, sorrideva ai convitati e li
incoraggiava incessantemente a far onore alla sua «modesta» cucina. Dopo
quindici portate, un gran telone che nascondeva l'estremità della sala fu
alzato e agli sguardi stupiti del cosacco apparve un palcoscenico, riccamente
decorato con baldacchini di seta e di raso, con giganteschi vasi di porcellana
pieni di fiori e con panoplie d'armi scintillanti.
- Fedoro, che
cosa avremo ora? - chiese al russo. - Non bastava il banchetto?
- Avremo una
rappresentazione - rispose Fedoro. - Un pranzo senza commedia sarebbe indegno
d'un ricco cinese e non si esiterebbe ad accusarlo di spilorceria.
- È finito il
banchetto?
- Siamo appena
alla metà.
- Per le
steppe del Don! - esclamò Rokoff, con spavento. - Hanno il coraggio di mangiare
ancora? Non vedete che sono tanto pieni da correre il pericolo di scoppiare?
Hanno perfino gli occhi schizzanti dalle orbite!
- Troveranno
modo di fare stare qualche cosa d'altro nel loro stomaco.
- E su quel
teatro, che cosa rappresenteranno?
- Qualche
dramma terribile - rispose Fedoro. - Saranno artisti di vaglia, perché un
signore come Sing-Sing non può permettersi di presentare degli attori scadenti.
- Delle vere
celebrità?
- Sì, Rokoff.
- Che io non
potrò comprendere non avendo che una imperfetta conoscenza della loro lingua.
- Dalla loro
mimica qualche cosa potrai indovinare.
- Un'altra
portata!
- Non è che la
sedicesima - disse Fedoro. - Tutti piatti dolci.
- Sono
mandorle quelle che nuotano in quello sciroppo giallastro?
- Non te lo
dico, altrimenti scapperesti via.
- Se non sono
fuggito finora! E poi, sono un cosacco e lo stomaco resisterà!
- Non dinanzi
a quel piatto.
- Orsù,
Fedoro, dimmi che cosa contiene.
- Un pasticcio
che farà andare in estasi i convitati. Quelle bestioline color marrone che
vedi...
- Bestioline.
- Larve, se ti
piace meglio.
- Ah!...
Quali?... Indovino! - esclamò il cosacco inorridendo.
- Larve di
bachi da seta macerate nello sciroppo.
- Basta,
Fedoro! Per le steppe... scappo via!
- Bada! Non
mostrarti maleducato.
- È troppo!...
- Volgi
altrove gli occhi. Ecco il primo attore che si mostra.
Fra una
miriade di lanterne microscopiche, danzanti su alcuni fili, era comparso un
antico armigero in costume ricchissimo, cremisi ed oro, formidabilmente armato,
con un cimiero scintillante che voleva rappresentare una testa di leone.
Era Hong-ko,
l'eroe della cavalleria cinese, una specie di cavaliere errante del Medio Evo e
che si preparava a vincere imperatori e mandarini, a trucidare spiriti maligni
ed a mettere lo scompiglio dappertutto.
Lo seguivano
altri armigeri e paggi vestiti da imperatrici e da regine, tutti abbigliati
sfarzosamente, acclamanti il formidabile guerriero con profondo entusiasmo.
I convitati si
erano appena degnati di gettare uno sguardo sugli attori, i quali avevano
cominciato a declamare ed a battagliare fra di loro a gran colpi di spade e di
lance. Quantunque pieni come otri, avevano ripreso lena per far onore alle
larve dei bachi da seta, uno dei più deliziosi piatti dolci dell'infernale
cucina cinese.
- Comprendi
qualche cosa? - chiese Fedoro a Rokoff, il quale pareva interamente assorto a
seguire le diverse fasi della commedia o del dramma che fosse.
- Sì, che si
bastonano maledettamente - rispose il cosacco. - Mi pare che a quest'ora siano
stati uccisi cinque o sei imperatori malvagi e non so quanti spiriti maligni.
Un terribile uomo quell'armigero. E le portate, continuano?
- Siamo quasi
alla fine. Fra poco berremo il tè.
- Che cosa
stanno mangiando ora? Dei serpenti fritti?
- No, mi pare
che siano dei ventrigli di passero con occhi di montone all'aglio.
- Quando
avranno finito me lo dirai - disse il cosacco. - Non oso più guardare la
tavola.
- Hai torto,
perché hanno portato ora un nuovo piatto, che tutti gli europei hanno
dichiarato eccellente.
- Non mi fido.
- Si tratta
d'una zuppa famosa.
- Dove
c'entreranno per lo meno delle code di gatto?
- No, Rokoff:
ecco la ricetta che io ho studiato sul «Cuciniere cinese»:
«Prendi quanti
nidi di rondini salangane potrai, perché di questa leccornia non ne offrirai
mai abbastanza ai tuoi amici.
«Dopo aver
tolte via le penne e le altre materie inutili, farai cuocere i nidi nell'acqua
fino a che formino una massa gelatinosa.
«Versa il
tutto su uova sode di piccione, aggiungi alcune fette di salsicciotto, le quali
devono galleggiare sulla zuppa come piccole barchette sul mare.
«Gl'invitati
saranno entusiasti del piatto squisito e faranno grandi elogi al padrone di
casa e al suo cuoco».
- È passata la
zuppa? - chiese il cosacco, senza voltarsi.
- L'hanno
divorata.
- Buona
digestione!
- Hai perduto
una rara occasione per gustarla.
- Vi rinuncio
volentieri, Fedoro. Hanno accoppato un altro spirito malvagio. Interessante
questo dramma! Il palcoscenico è pieno di morti. Che ammazzino poi anche noi?
Da questi cinesi ci si può aspettare qualunque sorpresa. Fortunatamente ho la
mia rivoltella.
- Ecco il tè.
- Finalmente!
Mi rimetterò a posto gl'intestini già perfino troppo sconvolti.
Alcuni
valletti erano entrati recando dei vassoi d'argento pieni di chicchere
minuscole color del cielo dopo il crepuscolo, delle teiere colme d'acqua calda
e dei vasi di porcellana colmi di tè shang-kiang, ossia profumato,
essendovi mescolate alle foglioline delle preziose piante, dei fiori d'arancio,
dei mo-lè che sono specie di gelsomini, foglie di rosa e di gardenia
torrefatte.
I cinesi non
usano mescolarvi latte e per lo più lo bevono senza zucchero. Di rado ci
mettono un pizzico di quello rosso.
Quell'ultima
portata segnava la chiusura del banchetto, la quale coincideva anche colla fine
della tragedia.
I convitati,
dopo reiterati sforzi, si erano levati coi volti infiammati, gli occhi
schizzanti dalle orbite, i ventri gonfi fino al punto di crepare per l'eccessivo
mangiare. Qualcuno dovette essere portato dai servi, di peso fino alla sua
lettiga.
Quando Sing
vide uscire l'ultimo convitato, si volse verso i due russi, dicendo loro:
- Deve essere
stato un vero tormento per voi, ma voi mi vorrete perdonare se io ho abusato
della vostra pazienza. Gli europei non si trovano bene ai nostri pranzi, lo so.
- Ho assistito
ad altri, - disse Fedoro - quindi potevo prendere parte anche al vostro.
Sing-Sing
rimase un momento silenzioso, girando gli sguardi intorno alla sala deserta e
silenziosa, poi riprese:
- E chissà che
domani questo luogo non risuoni invece di pianti e di grida. Strano contrasto,
dopo tanta allegria!...
- Sing-Sing, -
disse Fedoro - perché dite ciò? Spiegatevi una buona volta; quale pericolo vi
minaccia?
- Siete
armati? - chiese il cinese.
- Voi sapete,
che un europeo non osa percorrere di sera le vie di Pechino senza avere almeno
una rivoltella.
- Venite nella
mia stanza; là almeno saremo sicuri di non venire ascoltati da altri. Badate
però: potreste esporvi anche voi al medesimo pericolo.
Fedoro guardò
Rokoff.
- Noi aver
paura? - disse questi. - Ah! No, non sappiamo ancora che cosa sia. Andiamo,
Fedoro; questa inaspettata avventura m'interessa assai.
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