UN'ACCUSA
INFAME
Un cinese
piuttosto attempato, tozzo, dall'aria arcigna, con una lunga coda che gli
batteva le calcagna e un paio d'occhiali giganteschi che gli coprivano buona
parte del viso, era allora entrato nella stanza, seguito da quattro individui
d'aspetto punto rassicurante e armati di scimitarre.
Vedendo i due
europei, i quali erano rimasti come fulminati dalle ultime parole del
maggiordomo, mosse verso di loro, salutandoli con affettata cortesia.
- Chi siete voi? - chiese Fedoro, che
cominciava a diventare assai inquieto per la brutta piega che prendevano le
cose.
- Un
magistrato della giustizia - rispose il cinese.
- Ah!
Benissimo: farete almeno un po' di luce su questo misterioso delitto.
- Io credo di
averla già fatta - rispose il magistrato, con un risolino sardonico. - Ho già
interrogato la servitù e so molte cose a quest'ora che non vi faranno certo
piacere.
- Vi prego di
spiegarvi - disse Fedoro, impallidendo. - So già che si cerca di gettare su di
noi il sospetto d'aver assassinato il povero Sing-Sing, ma noi vi proveremo
l'insussistenza d'una tale mostruosa accusa.
- Ve lo
auguro; disgraziatamente vi sono ormai troppe prove contro di voi e abbiamo
anche trovata l'arma che ha spento Sing-Sing.
- E dove? -
chiese Fedoro.
- Nella vostra
stanza.
- È
impossibile! Voi mentite! - gridò il russo. - Rokoff, amico mio, queste
canaglie cercano di perderci!
- Noi? -
chiese Rokoff, il quale non aveva compreso fino allora che pochissime parole,
conoscendo la lingua cinese assai imperfettamente.
- Dicono che
hanno trovato nella nostra stanza il coltello.
- Ve l'avranno
posto coloro che ci hanno trasportati sui nostri letti. La cosa è chiara.
- Per noi, sì,
ma non per questo magistrato e nemmeno per la servitù.
- Si
convinceranno.
- Volete
seguirmi? - chiese il magistrato, volgendosi verso Fedoro.
- E dove? -
chiese questi.
- Nella vostra
stanza.
- Andiamoci -
disse Fedoro, risolutamente.
Appena usciti,
videro schierati nel corridoio attiguo parecchi servi i quali li guardavano
quasi ferocemente.
- Hai
osservato, Rokoff? - chiese Fedoro. - Tutti sono convinti che noi abbiamo
assassinato Sing-Sing e tutte le prove stanno contro di noi.
- Ricorreremo
ai consoli - rispose Rokoff. - Questi cinesi non oseranno arrestare due
europei.
- E chi li
avvertirà? Non abbiamo nessun amico qui.
- Troveremo il
modo di far sapere all'ambasciata russa il nostro arresto. Canaglie! Incolpare
noi!
- Più canaglie
sono stati gli affiliati della società segreta, i quali hanno agito in modo da
far ricadere su di noi questo infame delitto.
Giunti nella
stanza, il magistrato si diresse verso il letto che Rokoff aveva occupato, levò
il materasso ed estrasse un pugnale lungo un buon piede, con la lama di forma
triangolare, coll'impugnatura sormontata da una piccola campana d'argento.
L'arma era
insanguinata fino alla guardia.
- Lo vedete? -
chiese, mostrandolo ai due europei, smarriti. - Sing-Sing è stato ucciso con
questo e voi, compiuto il delitto, l'avete nascosto qui. Potevate essere più
furbi o per lo meno più prudenti.
- E voi
credete? - chiese Fedoro, facendo un gesto di ribrezzo.
- La prova è
chiara - disse il cinese con un sorriso maligno.
- E non vedete
che questo pugnale non è di quelli che si usano in Europa?
- Potete
averlo comperato qui od in altra città.
- È un pugnale
appartenente ad una società segreta. Guardate, vi è una piccola campana
d'argento sull'impugnatura.
- E che cosa
proverebbe questo? - chiese il magistrato accomodandosi tranquillamente gli
occhiali.
- Che
l'assassino, di Sing-Sing non può essere stato che un membro della società
della «Campana d'argento», alla quale il nostro amico era affiliato.
- Ed ha
nascosto l'arma in uno dei vostri letti? Eh! via, non sono uno sciocco per
crederlo!
- Ascoltatemi
- disse Fedoro, coi denti stretti per la collera che già lo invadeva. - Vi
narrerò come sono avvenute le cose.
- Dite pure.
Fedoro gli
espose chiaramente quanto era accaduto dopo il banchetto, ciò che gli aveva
raccontato Sing-Sing: la veglia angosciosa, il sonno misterioso, la comparsa
delle ombre umane e finalmente il loro risveglio nella stanza che era stata
loro destinata dal maggiordomo.
Il magistrato
lo aveva ascoltato pazientemente, colle mani incrociate sul ventre
rotondissimo, crollando di quando in quando la testa pelata.
Quando Fedoro
ebbe finito, lo guardò in viso, poi disse:
- Quello che
mi avete raccontato, quantunque mi sembri assolutamente straordinario, può
essere vero. Io però intanto vi dichiaro in arresto, e se volete un consiglio,
cercate di scolparvi meglio che potete, perché la vostra testa è in pericolo.
- Voi non lo
farete!
- E perché?
- Chiederemo
l'intervento dell'ambasciatore russo.
- Ah! - fece
il cinese ridendo. - Sì, l'ambasciata, poi minaccia di far intervenire la
flotta, colpi di cannone, invasione armata. Ah! no! basta! Conosciamo troppo
bene gli europei per farli entrare nei nostri affari. La giustizia avrà corso
senza l'ambasciata. Avete assassinato un cinese: vi condannerà un tribunale
cinese.
- Noi
protesteremo.
- Fatelo.
- Non ci
lasceremo assassinare da voi! - urlò Fedoro, alzando minacciosamente il pugno
sul magistrato.
- Badate! I
miei uomini sono armati e le vostre rivoltelle sono nelle nostre mani.
- Maledizione!
Rokoff,
quantunque ben poco avesse compreso dalle grida e dal gesto di Fedoro, si era
accorto che la cosa si aggravava e si era spinto addosso al magistrato, pronto
ad afferrarlo pel collo e gettarlo fuori dalla porta o anche giù dalla
finestra.
- Fedoro -
disse inarcando le robustissime braccia. - Si tratta di menare le mani? Sono
pronto a fare una marmellata di queste teste pelate.
- No, Rokoff,
non aggraviamo la nostra posizione - disse il russo, fermandolo. - E poi non
esiterebbero a far uso delle loro armi.
- Afferro un
letto e glielo butto sulla testa.
- Ci sono i
servi appostati nel corridoio.
- Ti ho veduto
furibondo. Si guasta la faccenda?
- Ci hanno
intimato l'arresto.
- Ah!
Bricconi! E noi obbediremo?
- A che cosa
servirebbe ribellarci? Sono i più forti e dobbiamo cedere per ora.
- E ci
condurranno in prigione?
- Sì, Rokoff.
- E dopo?
- Cercheremo
di persuadere i magistrati della nostra innocenza. Lasciamoli fare per ora e
prendiamo tempo.
- Dunque? -
chiese il magistrato, che aveva fatto avvicinare i suoi uomini.
- Siamo pronti
a seguirvi, però pensate che noi siamo europei, che siamo innocenti e che
qualunque violenza sarà vendicata dal nostro paese.
- Sta bene,
intanto venite con noi. Vi sono delle portantine dinanzi alla porta del
palazzo.
- Andiamo,
Rokoff - disse Fedoro.
- Ah! Per le
steppe del Don! Mi sentirei capace di rompere la testa a questi bricconi e di
disarmarli tutti.
- No, amico,
sarebbe peggio per noi.
- Andiamo
allora in prigione.
Uscirono dalla
stanza preceduti dal magistrato, il quale camminava tronfio e pettoruto, e
seguiti da quattro agenti di polizia che avevano snudate le scimitarre, onde
prevenire qualsiasi tentativo di ribellione.
Alla base
della gradinata vi erano già due portantine guardate da altri quattro agenti e
da otto robusti portatori.
I due europei
furono fatti salire, si abbassarono le tende onde sottrarli alla vista dei
curiosi, poi i facchini partirono a passo rapido, scortati dagli agenti di
polizia.
Nessuno pareva
che si fosse accorto dell'arresto dei due russi.
D'altronde era
una cosa talmente comune il vedere in Pechino delle portantine, che i passanti
non vi avevano fatto alcun caso, quantunque vi fossero intorno i poliziotti.
Dopo una lunga
ora, i facchini si fermarono. Rokoff e Fedoro, che cominciavano a perdere la
pazienza e ad averne abbastanza di quella prigionia, si trovarono sotto uno
spazioso atrio, dove si vedevano gruppi di agenti, di soldati e di guardiani
che chiacchieravano fumando o masticando semi di zucca.
- È questa la
prigione? - chiese Rokoff.
- Lo suppongo
- rispose Fedoro.
- Che ci
chiudano ora in qualche segreta?
- O in gabbia
invece?
- Vivaddio! Io
in una gabbia? Non sono già una gallina!
- La vedremo!
- Non
lasciarti trasportare dall'ira, Rokoff - disse Fedoro. - Forse non oseranno
trattarci come delinquenti comuni, per paura dell'Ambasciata.
Due uomini
seminudi, dai volti arcigni, colle code arrotolate intorno al capo, armati di
certi coltellacci che pendevano snudati dalle loro cinture, si fecero innanzi,
afferrando brutalmente i due europei.
Rokoff,
sentendosi posare una mano sulla spalla, fece un salto indietro, gridando con
voce minacciosa:
- Non
toccatemi o vi spacco il cranio!
Anche Fedoro
aveva respinto violentemente il suo carceriere o carnefice che fosse, prendendo
una posa da pugilatore.
- Noi siamo
europei - gridò. - Giù le mani!...
I due
carcerieri si guardarono l'un l'altro, forse sorpresi di quell'inaspettata
resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano
però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea,
si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che
risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due
cinesi, finché caddero l'un sull'altro, sradicati da due pedate magistrali.
Urla furiose
echeggiarono sotto l'atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati
come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando
picche, coltellacci e rivoltelle.
- Siamo
perduti! - esclamò Fedoro.
- Non ancora -
rispose Rokoff, furibondo. - Possiamo accopparne degli altri prima di cadere.
Si abbassò
rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a
scaraventarlo come un proiettile fra l'orda urlante.
A quella nuova
prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati.
- Vi accoppo
tutti, canaglie! - urlò Rokoff. - Indietro!
A quel
fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale.
Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non
troppo facili a spaventarsi.
Ad un comando
dell'ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso
Rokoff.
- Indietro! -
tuonò il colosso.
L'ufficiale
invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli
- Non opponete
resistenza o comando il fuoco. Tale è l'ordine.
- Rokoff, bada
- disse Fedoro. - Sono soldati e obbediranno.
- Meglio farci
fucilare che lasciarci imprigionare.
- No, amico,
noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà
riconosciuta. Siamo prudenti per ora.
Rokoff,
quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il
carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il
povero diavolo, che pareva più morto che vivo.
Nel medesimo
istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. -
- Una
ribellione? - disse, aggrottando la fronte. - Volete aggravare la vostra
posizione o farvi uccidere.
- Dite ai
vostri uomini che siano meno brutali - rispose Fedoro. - Noi non siamo stati
ancora condannati.
- Darò gli
ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza.
Seguitemi.
- Obbediamo,
Rokoff.
- Se tu mi
avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni - rispose il cosacco. -
Avevo cominciato così bene!
- E avremmo
finito male.
- Ne dubito.
- Seguiamo il
magistrato.
Scortati dai
soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono
introdotti in un'ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie
contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando
ancora il sangue dal collo.
Erano orribili
a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un'angosciosa espressione di
dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una
schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava
scritto:
La
giustizia ha punito il furto.
- Mille demoni!
- esclamò Rokoff, stringendo le pugna. - È per spaventarci che ci hanno
condotto qui?
- Sono gabbie
che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri -
disse Fedoro. - Guarda altrove.
- Sì, perché
mi sento il sangue ribollire.
Attraversato
lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di
tortura.
Vi erano
numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo
del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta
chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d'ogni grossezza, destinate alla
bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini
d'acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla
rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti.
- Canaglie! -
brontolò Rokoff. - Altro che l'Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più
feroci degli antropofagi.
Stavano per
varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il
sangue ad entrambi.
Era un insieme
di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena
soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci.
- Qui si
ammazza! - gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente.
- Si tortura -
rispose Fedoro.
- E noi
lasceremo fare?
- Non spetta a
noi intervenire.
- Io non posso
tollerare...
- Devi
resistere, Rokoff.
- Che non veda
nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne
posso.
Il magistrato,
che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava
vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra,
inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata.
Un carceriere
stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato
aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava
per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa.
Si trovavano
in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio
difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile,
essendo la luce fioca. L'unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie
secche, che doveva servire da letto.
-
Bell'alloggio! - esclamò Rokoff. - Nemmeno una coperta per difenderci dal
freddo.
- E nemmeno
uno sgabello - disse Fedoro. - Molto economi questi cinesi.
A un tratto si
guardarono l'un l'altro con ansietà.
Avevano udito
dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile.
- Si tortura
anche presso di noi? - chiese Rokoff.
S'avvicinò al
pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere.
- Guarda,
Fedoro - disse con voce soffocata. - Che cosa fanno subire a quei miseri?...
L'orrore mi agghiaccia il sangue.
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