GLI ORRORI
DELLE CARCERI CINESI
Fedoro,
quantunque provasse una sensazione non meno terrificante, spinto da una viva
curiosità, si era approssimato al pertugio, il quale, trovandosi solamente a un
metro e mezzo dal suolo, permetteva di vedere al di fuori senza dover
arrampicarsi.
Non immetteva
veramente su un cortile, bensì sotto una immensa tettoia, il cui pavimento era
formato da un tavolato crivellato di buchi.
Cinque o sei
esseri umani, che parevano già agonizzanti, cogli occhi schizzanti dalle
orbite, pallidi come se tutto il sangue avesse abbandonato i loro corpi, si
contorcevano disperatamente, mandando lugubri lamenti.
Non si
vedevano che i loro tronchi, avendo le gambe, fino alle cosce nascoste entro il
tavolato, in quei buchi che già Fedoro aveva notati.
Alcuni
aguzzini seminudi, veri tipi di carnefici, si sforzavano di far inghiottire ai
martirizzati un po' di riso e qualche sorso di sciam-sciù, specie di
acquavite estratta dal miglio.
- Ah! Infami!
- esclamò Fedoro, rabbrividendo. - Quale spaventevole tortura!... Uccideteli
piuttosto di tormentare così quei disgraziati.
- Che cosa
stanno facendo quei mostri? - chiese Rokoff, additando gli aguzzini.
- Cercano di
prolungare l'agonia alle loro vittime.
- E quale
spaventevole supplizio subiscono quei miseri? Forse che stritolano lentamente
le loro gambe?
- Peggio
ancora, Rokoff. Io ho udito parlare di questa atroce tortura e non vi avevo
creduto, tanto mi pareva inverosimile.
- Spiegati,
Fedoro, sono un uomo di guerra.
- Sotto
quell'assito esiste un fossato...
- E poi?
- Pullulante
di topi, di vermi, d'insetti d'ogni specie.
- Ah!
Comprendo! - esclamò Rokoff, con orrore. - Essi divorano lentamente le gambe di
quei miseri.
- Sì, amico.
- Canaglie!
Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi
libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle
tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l'anima!
- E dove
andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è
chiusa e solida.
- Ti dico che
non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti.
Il bollente
cosacco, senza attendere la risposta dell'amico, fidando d'altronde nella sua
erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola
traballare.
- La
scardineremo! - gridò. - E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo.
Stava per
slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s'aprirono violentemente,
mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle
baionette inastate.
Fedoro ebbe
appena il tempo di gettarsi dinanzi all'amico, il quale, reso maggiormente
furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta
disperata.
- No, Rokoff -
disse. - Sarebbero troppo contenti di ucciderci!
- Che cosa
fate? - chiese il magistrato. - Ancora una ribellione? Questi europei
cominciano a diventare troppo importuni.
- Levateci di
qui - disse Fedoro. - Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre
barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide.
- Sì, dei
ribelli che avevano cospirato contro l'impero - rispose il giudice. - Sono cose
d'altronde che riguardano noi e non voi.
- Non possiamo
resistere a simili infamie. Il giudice alzò le spalle, poi disse:
- Siete
aspettati.
- Da chi? Da
qualche membro dell'ambasciata? - chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di
speranza.
- Non siamo
così schiocchi da avvertire il vostro ambasciatore. È il tribunale che vi
aspetta per giudicarvi. Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing.
- E di
ucciderci, è vero? - chiese Fedoro, sdegnosamente.
- Sì, se siete
colpevoli.
- Tu sai
meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell'abominevole delitto.
- Il tribunale
giudicherà. Venite e non opponete resistenza perché i soldati hanno ricevuto
l'ordine di fare fuoco su di voi.
- Andiamo -
disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. - Vedremo
se il tribunale oserà condannare degli europei senza l'intervento d'un membro
dell'ambasciata russa.
Ritenendo
inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il
giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro
che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una
saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva
un tappeto ancor più lurido.
Due giudici,
appartenenti probabilmente all'alta magistratura, avendo sui loro conici
cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d'oro, insegna dei
mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo.
Erano due
panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo,
vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini.
Presso di loro
un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d'inchiostro di
Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o
reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose.
In un angolo
invece si tenevano ritti due individui d'aspetto sinistro, che portavano alla
cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della
giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo
spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori
e ai più pericolosi delinquenti.
Nel vederli,
Fedoro aveva provato un lungo brivido.
I due
mandarini si sussurrarono alcune parole, guardando di traverso i due europei,
poi il più anziano si volse verso Fedoro, chiedendogli:
- Voi
comprendete il cinese?
- Sì, ma il
mio compagno non parla che il russo, quindi domando che vi sia un interprete
dell'ambasciata russa.
- Tradurrete
voi; noi non vogliamo stranieri qui, all'infuori dei colpevoli.
- Noi non
siamo sudditi cinesi, quindi voi non avete alcun diritto di giudicarci senza la
presenza d'un rappresentante del nostro paese.
- Per far
intervenire l'ambasciatore e levarvi dalle nostre mani? Oh! Le conosciamo queste
cose.
- Io protesto.
- Lo farete
poi - disse il mandarino. - Voi siete accusati di aver assassinato Sing-Sing,
un fedele suddito dell'Impero.
- Chi lo
afferma?
- Tutta la
servitù di Sing-Sing ha deposto contro di voi.
- Sono dei
miserabili, degli affiliati alla società segreta della «Campana d'argento», che
per salvare i veri assassini incolpa noi.
- Sì, sì, la
vedremo. Da dove venite voi?
- Io ed il mio
amico Rokoff, ufficiale dell'armata russa, siamo sbarcati a Taku sette giorni
or sono per venire qui ad acquistare cinquecento tonnellate di tè.
- Siete un
negoziante di tè, voi?
- Sì, e la mia
casa si trova a Odessa.
- Siete venuto
altre volte in Cina?
- Tutti gli
anni ci torno.
- E
conoscevate Sing-Sing?
- Da molto
tempo ed ero suo amico. Quale scopo dovevo dunque avere io per assassinarlo?
- L'odio che
tutti gli europei nutrono verso di noi e...
- Mentite!
- E poi quello
di derubarlo, perché il suo forziere è stato trovato vuoto.
- E dove
volete che noi abbiamo nascosto il suo denaro?
- Chi mi
assicura che non abbiate avuto dei complici? - chiese il mandarino. - Il
maggiordomo di Sing-Sing ha affermato d'aver veduto delle persone sospette
aggirarsi intorno al palazzo, anche dopo che tutte le lanterne erano state
spente.
- Allora è lui
il colpevole! È lui il ladro! È lui che ha protetto gli affiliati della
«Campana d'argento».
- Il
maggiordomo era affezionato al suo padrone; tutta la servitù lo ha confermato.
- Sicché voi
siete convinto che Sing-Sing sia stato assassinato da noi?
Il mandarino
alzò le braccia, poi le lasciò ricadere con un gesto di scoraggiamento, più
simulato però che reale.
Fedoro fu
preso da un impeto di furore.
- Voi non ci
ucciderete, canaglie! - urlò, battendo furiosamente il pugno sul tavolo. - Noi
siamo innocenti e per di più europei.
- Se siete
innocenti, provatelo - rispose il mandarino con calma.
- Cominciate
coll'arrestare il maggiordomo e costringerlo a confessare la verità. A voi i
mezzi non mancano per strappargli quanto egli sa e che non vuol dire.
- Non abbiamo
alcun motivo per tradurlo qui e sottoporlo alla tortura. Non è già nella sua
stanza che fu trovato il pugnale che servì agli assassini per trucidare
Sing-Sing.
- Siete dei
banditi!...
- Dei giudici.
- No, delle
canaglie, che per odio di razza volete sopprimerci, ma le ambasciate europee
non vi permetteranno di compiere una simile infamia.
Il mandarino
alzò le spalle, poi fece un gesto.
Prima che
Fedoro e Rokoff potessero sospettare ciò che significava, si sentirono afferrare
per le spalle e per le braccia da dieci mani vigorose ed atterrare.
Una banda di
carnefici o di carcerieri, tutti di statura gigantesca, era entrata
silenziosamente nella sala ed al cenno del mandarino si era scagliata
improvvisamente sui due europei, prendendoli di sorpresa.
Né Fedoro, né
Rokoff avevano avuto il tempo di opporre la menoma resistenza, tanto
quell'assalto era stato fulmineo.
Mentre i
giudici si ritiravano per deliberare sulla pena da infliggersi ai due
colpevoli, i carcerieri ed i carnefici, aiutati anche dai soldati, strappavano
di dosso ai due russi le loro vesti, costringendoli ad indossare una ruvida keu-ku,
specie di casacca fornita d'ampie maniche ed un paio di keu-ku, sorta di
calzoni molto ampi che formano sul ventre una doppia piega e che usano portare
i barcaioli ed i contadini.
Levarono
quindi loro gli stivali, surrogandoli invece con le ha-tz, ossia scarpe
grosse, a punta quadra e un po' rialzata, con suola di feltro bianco, poi con
pochi colpi di rasoio fecero cadere le loro capigliature, non lasciando coperta
che parte della nuca.
Era una
trasformazione completa: i due europei erano diventati due cinesi e per di più
dell'ultima classe.
Quando quei
manigoldi ebbero finito, sollevarono violentemente Fedoro e Rokoff e li
cacciarono a forza entro una gabbia di bambù, d'una solidità a tutta prova e
così stretta da contenerli a malapena.
Quando Rokoff
si sentì libero, mandò un vero ruggito. S'aggrappò alle sbarre e le scosse con
furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci.
- Banditi!
Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti!
Erano vani
sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l'ufficiale, come abbiamo
detto, fosse dotato d'una forza più che straordinaria. Fedoro invece,
accasciato da quell'ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia
girando intorno sguardi inebetiti.
Intanto il
cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano
dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un
momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia.
Fedoro era
diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se
avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro
pena.
Ed infatti
aveva potuto leggere:
Condannati
a morte perché assassini.
Subito otto
uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un'altra sala dove se ne
vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più
piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare
il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose.
- Fedoro -
disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. - È finita, è vero?
- Sì, se non
interviene l'ambasciatore russo.
- E oseranno
ucciderci?
- Come cinesi.
- Perché ci
hanno vestiti così?
- Onde nessuno
possa sospettare che noi siamo europei.
- E come ci
faranno morire?
- Non so... ma
ho paura e sento che divento pazzo!...
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